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MARIO CUCINELLA

Nel documento Tattiche per il progetto di architettura (pagine 127-139)

EMPATIA CREATIVA

MARIO CUCINELLA

Tutti i processi di cambiamento avvengono in maniera lenta a meno che non intervenga un grande evento inaspettato. Da qualche decennio assistiamo ormai a un graduale ma continuo e crescente interesse per i temi dell’ambiente, dei diritti umani, e per la qualità delle democrazie. Si cerca di individuare e di trovare un nuovo equilibrio che attraverso tutti i campi, dall’economia all’architettura, all’alimentazione, alla politica, chieda rispetto e giustizia. Un recente testo di Stéphane Hessel – co- redattore della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel 1948 –, dal titolo Indignatevi!, descrive la necessità di dare luogo a un’insurrezione pacifica. La Dichiarazione universale si basa su definizioni semplici, ma fondamentali, che basterebbero a far cambiare radicalmente la politica odierna, che ha ormai ha perso di vista quelle nozioni basilari, condizionata da troppi interessi e da un sistema

economico imperante. Non voglio sfuggire al tema dell’architettura sostenibile ma è fondamentale capire dove siamo e cosa sta accadendo anche perché l’architettura è rappresentazione della cultura, della politica e delle ambizioni di un dato tempo e bisogna capire questo tempo.

C’è un’evidente scollamento tra le ambizioni e la realtà quando si parla di sostenibilità. Eviterei quindi di dare qualunque definizione lasciando al buon senso di intuire il significato della parola. Siamo in una particolare situazione storica: veniamo da un periodo di grande trasformazione industriale che ha generato tecnologia, sviluppo e un miglioramento della qualità

della vita, ma che, dopo molti anni, presenta un pesante conto ambientale e sociale con conseguenze planetarie in termini di sopravvivenza. Qualsiasi fenomeno che degenera finisce per avere delle ripercussioni e in questo caso è la natura che comincia a farsi sentire attraverso i cambiamenti climatici. Ciò determina delle conseguenze anche rispetto ai diritti fondamentali di tutti gli uomini, delle conquiste sociali e di quella parte di società poco rappresentata a livello politico che alza la voce attraverso la rete e le associazioni umanitarie.

Quello che mi sembra particolarmente insolito e su cui vale la pena confrontarsi è proprio questa progressiva crescita di una realtà illusoria che prende sempre più il posto di quella vera.

Una nuova pubblicità d’auto ci fa immaginare un mondo in cui possiamo correre a grandi velocità, scalare montagne, attraversare paesaggi in sicurezza, vivere in città vuote e pulite senza inquinamento urbano. Ma anche se questa non è la realtà, è quello in cui ormai crediamo, nonostante l’evidenza del traffico, il paradosso della potenza, della velocità, dei consumi e dell’inquinamento. Il problema non è costruire auto pulite, il problema non sono le auto, ma che non c’è più spazio per loro nelle città. Il nostro rapporto con la tecnologia è di totale estraneità, non sappiamo come funzionano le cose che utilizziamo, non siamo capaci di aggiustarle e le buttiamo via. Abbiamo scambiato le vaschette di polistirolo che contengono i nostri alimenti per sicurezza alimentare (neanche così sicura), invece che per speculazione

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successivo solo annunciato. L’antidoto al facile opportunismo è la fatica di esercitare quotidianamente la democrazia, strumento troppo spesso fragile e assediato dalle vecchie pratiche oligarchiche e di costume. Ma la sostenibilità cosa c’entra? In questo contesto tutt’altro che facile si inserisce in maniera accessoria e si aggiunge come un altro livello di complessità, spesso di natura burocratica e di competenza dell’ingegneria. Questa visione è ancora troppo legata alla performance tecnologica degli edifici, nell’ipotesi migliore a una riduzione dei consumi – ma pur sempre consumi – e a un approccio tecnico-logico che vede nell’edilizia prima di tutto una grande industria di consumo tecnologico ed energetico e cerca nelle città l’applicazione di una logica di sfruttamento del suolo, come quella dell’agricoltura intensiva. Dentro questa logica non c’è spazio per un vero cambiamento.

Per troppo tempo abbiamo creduto alimentare, neanche sicura. E quando

vediamo la frutta sugli alberi abbiamo paura che non sia buona perché non è certificata. Anche l’architettura è ormai entrata in questa logica della realtà illusoria. Anche lei è entrata nell’arena pop-commerciale. Utilizza strumenti tipici della comunicazione pubblicitaria e del consumo e ci fa credere all’illusione che si possano costruire straordinarie città e mirabolanti edifici, di cui però non conosciamo il rapporto urbano né le relazioni con l’uomo, con la tecnologia e l’ambiente che diventano così del tutto secondari, se non irrilevanti. Edifici che cercano a tutti i costi una contemporaneità tutt’altro che colta e spesso creatrice di estraneità.

Ci dicono che questi sono i tempi del consumo e della comunicazione, che questa è una opportunità e che non c’è nulla di male. Parliamo di democrazia, di ambiente, di partecipazione, ma spesso è più facile lasciare tutto ciò ad un momento

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nell’illusione di una tecnologia semplice e chiara, dove tutto era controllabile artificialmente: luce, aria condizionata,

curtain walls indifferenti al loro contesto

climatico ma perfettamente prodotti dall’industria, condizioni e spazi di lavoro indifferenti alle diverse culture in cui si trovano. Perché abbiamo svenduto i nostri modelli culturali e di benessere ambientale per questo complesso artificio globale, oltretutto costosissimo?

Cambiare ora vuol dire rivedere alcuni aspetti fondamentali del rapporto con la tecnologia, ridefinire i legami con i contesti, ricostruire paesaggi identitari e prestare ascolto ai cittadini: come ha detto un sindaco francese, “la città si fa con gli altri”. Non riusciremo a cambiare nulla se non cambieremo le fondamenta delle nostre relazioni e abitudini e non daremo dignità all’architettura. Si è giunti al paradosso estremo di occuparsi di sostenibilità il più delle volte solo esteticamente o all’interno di una forma di “eco-lusso” e non pensando alla qualità dell’aria, dell’inquinamento, dei consumi energetici e delle emissioni. L’illusione a cui ci fanno credere è che non bisogna cambiare nulla per cambiare tutto e questo non è possibile. Invece delle illusioni, dovremmo rincorrere i nostri sogni. Città più vivibili, senza auto e con più trasporto pubblico efficiente, ci aiuteranno a socializzare meglio e a vederle come il vero luogo delle relazioni e della gioia di stare insieme, con gli edifici che dovranno sforzarsi di essere sempre contemporanei ma più empatici, meno estranianti. Città dove al rumore si sostituiscono il silenzio e i suoni, dove gli edifici invece di essere un problema energetico e sociale, ne diventano la soluzione: un luogo non per ammalarsi ma per arricchirsi di relazioni, lavoro e cultura, un luogo non di paure ma di tranquillità. Un nuovo luogo di riconciliazione con la natura. Non mi convince chi giustifica la

contemporaneità solo attraverso una continua ed estenuante provocazione fine a

se stessa. I segnali più interessanti arrivano proprio dal basso, dai cittadini che abitano quelle città che qualcuno troppo a lungo ha avuto l’arroganza di progettare senza ascoltare la loro voce, che oggi chiede invece di essere presa in considerazione.

Queste, come molte altre derive, sono distrazioni di un mondo che guarda con troppa attenzione alla logica dei profitti, dello sviluppo e del successo, ma cui sfugge la sottile differenza tra sviluppo e progresso. Sono molti gli aspetti su cui ci dovremmo confrontare, e resta aperto quello di un nuovo approccio all’architettura, dove i temi ambientali, dei consumi e del confort, diventino prioritari e aprano la strada a una nuova idea di bellezza basata su comprendere quei, anche invisibili, temi ambientali. Che possa prendere avvio una rivoluzione pacifica che chieda alla scuola più competenze, rigore e didattica qualificata, una scuola nella quale i temi dell’ambiente entrino con forza nei programmi di studio. Spesso, nell’architettura, si sente il disagio di un settore troppo auto-referenziale, troppo chiuso nei suoi linguaggi.

Perché la sostenibilità non è parte di questo percorso? Sta qui la fragilità di un sistema figlio di un’illusione e non di un sogno. Le leggi dell’illusione sono legate a processi esclusivi, e nell’illusione governa anche la politica. L’illusione crea frustrazione, i sogni generano vita.

Pochi hanno voluto capire il carattere delle città, il loro DNA culturale, le loro vocazioni e aspirazioni, e questo ha determinato la costruzione di edifici inadeguati sulla scia di una globalizzazione più cara al mondo della finanza che ai cittadini, i quali vedono svilupparsi una città contemporanea che non riconoscono, mentre chiedono invece più parchi pubblici, più orti, più piazze e strade pedonali, chiedono più rispetto, più aria pulita e più attenzione per i loro figli. E nello stridore di questo conflitto globale,

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le città s’impoveriscono vedendo crescere, a discapito della loro storia e specificità, il conflitto tra un passato fortemente radicato nella propria cultura e un’immagine contemporanea che è loro totalmente estranea. In questa globalizzazione, tanto cara alla modernità, non c’è più da crederci, questa illusione sarà spazzata via da una visione molto più concreta e molto più vicina ai sogni, questa volta, sì, reali. La sostenibilità, così come la immaginiamo, dovrebbe nascere dalle reti, dalle relazioni con i cittadini e non solo dai piani finanziari. Occuparsi, come dice Jaime Lerner, di “agopuntura urbana”, di cura della nostra città e superare quella divisione delle città in zone di serie A (il centro) e di serie B (la periferia). L’energia è invisibile ed è facile fare dichiarazioni in proposito. Nell’ottica di questa nuova visione, bisognerebbe confrontarsi su un tema davvero globale ognuno dare un contributo per ridefinire il rapporto dell’amore per la vita, una biophilia nella quale ristabilire il millenario legame con il mondo non umano.

Immaginare edifici sostenibili vuol dire aprire un profondo dialogo con il clima e con il luogo. Ripensare al rapporto tra l’architettura e la sua ingegneria, che non è solo tecnologica, ma genetica. Nella forma, nella materia e non più solo nelle macchine. Dobbiamo immaginare edifici a bassa tecnologia per far lavorare di più la forma e i materiali, i quali stanno diventando sempre più parte attiva nel risultato, svolgendo un lavoro invisibile all’interno di una nuova

economia circolare. Questo processo mi sembra più vicino alla complessità della natura piuttosto che a quella dell'artificio meccanico. Edifici con alto grado d’empatia, un’empatia creativa.

Dobbiamo farci delle domande. Vogliamo edifici che riducano le emissioni di CO2? Allora bisogna fare uno sforzo perché l’architettura recuperi quei valori fondamentali che sono fondativi del suo fare. Bisogna domare e controllare una stravaganza che non è creatività e che lascia spazi inutili e scenografie mute. Dobbiamo ricominciare a vedere in questo complesso i valori fondamentali, come la responsabilità sociale del nostro mestiere di architetti; e non ci sarà sostenibilità senza una forte determinazione a difendere i diritti delle persone, a dare loro gli strumenti per vivere insieme in maniera giusta. Alla visione tecnologica e prestazionale dobbiamo sostituire quella delle emozioni e del piacere di stare insieme in uno spazio comune. Finché non ci libereremo dell’eredità del ventesimo secolo e delle abitudini ormai consolidate, sarà difficile esprimere attraverso l’architettura una nuova società, un nuovo modo di aver cura del “capitale naturale” e del “capitale sociale”. La sfida è qui. Contrariamente a quanti considerano la sostenibilità qualcosa di superficiale e accessorio, bisogna quotidianamente lavorare per costruire edifici più belli dentro e fuori che segnino l’inizio di una nuova era: l’era ecologica. È il momento di credere a un sogno e lasciarsi dietro il mondo delle illusioni.

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Luogo: Pioltello, Milano, Italia Anno: 2008-2010

Superficie: 10.300 m²

Cliente: Pirelli & C.Real Estate S.p.A Development Management Ital

Fotografie: © Daniele Domenicali

Team: Mario Cucinella Architects

Mario Cucinella, Luca Bertacchi (responsabile di progetto), Julissa Gutarra, Michele Olivieri, Linda Larice, Cristina Garavelli, Alessio Rocco, Alberto Bruno, Luca Stramigioli, Natalino Roveri (modello)

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L’edificio di 10.300 m2 a Milano è la nuova sede per gli uffici della società 3M ITALIA S.p.A. Primo edificio realizzato nel contesto del masterplan dell’area progettato da MC A nel 2005, è caratterizzato da una struttura lineare, terrazzata, lunga 105 metri per 21 di larghezza, di altezza variabile tra i due e i cinque piani. La forma e l'orientamento ottimali consentono un efficace controllo ambientale: le facciate nord, est e ovest sono progettate con vetri e particolari sistemi di ombreggiatura. Il fronte sud è stato disegnato con una serie di terrazze che offrono spazi ombreggiati. Le terrazze agiscono inoltre come tampone ambientale proteggendo dagli sbalzi climatici estremi in estate e inverno. L'analisi ambientale del contesto ha portato alla scelta di soluzioni attive per il tetto e le facciate. I pannelli fotovoltaici integrati nell’edificio , oltre a produrre energia, conferiscono un aspetto tecnologico alla costruzione.

3M ITALIA

HEADQUARTERS

EDIFICIO

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Luogo: Milano, Italia Anno: 2009 - in corso Superficie: 3.500 m² Cliente: ALER

Rendering: Engram studio

Team: Mario Cucinella Architects

Mario Cucinella, Hyun Seok Kim, Nada Balestri, Alberto Bruno, Giulia Pentella, Marco Dell'Agli, Luca Stramigioli, Yuri Costantini (modellista)

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