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Il matrimonio e la convivenza: la regolamentazione dei rapporti personali.

In passato si è sviluppato un acceso dibattito intorno alla regolamentazione dei rapporti personali tra i conviventi, soprattutto per

quanto concerne la possibilità di applicare in via analogica alla famiglia di fatto le disposizioni dettate relativamente al rapporto coniugale.

Gli interpreti, infatti, si chiedevano se i conviventi dovessero soggiacere ai diritti e ai doveri di reciproca fedeltà, assistenza morale e materiale, di collaborazione e di coabitazione previsti per i coniugi ex art.143 c.c..

I sostenitori dell'equiparazione tra coniugi e conviventi in campo personale si vedono tuttavia avversati da numerose critiche: si osserva anzi tutto che la coppia che non legalizza la propria unione esercita una libertà che la sottrae al complesso di diritti e doveri che caratterizzano l'unione suggellata dal matrimonio.

La libertà del rapporto interpersonale tra i membri della coppia , non a caso, è il fulcro delle unioni di fatto e, di conseguenza, un'assimilazione della famiglia di fatto alla famiglia legittima, comporterebbe una regolamentazione dei profili personali del rapporto che potrebbe a sua volta essere avvertita come un'indebita ingerenza da parte dell'ordinamento giuridico.

A risolvere gran parte di dette problematiche è intervenuta la legge n. 76/2016 che, nel titolo II, si occupa appunto delle convivenze di fatto. Da sottolineare, è che la normativa si limita a prevedere alcuni effetti per la coppia eterosessuale che convive stabilmente al di fuori del

matrimonio, e per la coppia omosessuale che non intenda accedere alla registrazione.

La legge, al riguardo, compie scelte ben precise:

• con riferimento alle coppie dello stesso sesso, se non vogliono procedere alla registrazione della loro unione, si prevede la possibilità di accedere alle tutele previste per le coppie stabilmente conviventi eterosessuali.

In questo modo viene meno qualsiasi discriminazione legata all'orientamento sessuale (come sottolineato da C. Venuti, la regolamentazione dei profili personali e patrimoniali diventa gender neutral “non trovando una declinazione differente in funzione dell'orientamento sessuale della coppia convivente di fatto”)152;

• con riferimento alle coppie stabilmente conviventi occorre invece segnalare l'abbandono, da parte della legge Cirinnà, dell'espressione “famiglia di fatto” a favore dell'espressione “unioni civili” ( per identificare le coppie dello stesso sesso) e “convivenza” (per le coppie omo ed eterosessuali che intendono vivere la loro relazione affettiva fuori da vincoli formalizzati).

In particolare, l'art.1, al comma 36, in apertura del suddetto titolo, dà una definizione di “conviventi di fatto” descrivendoli come “due

persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile”.

La definizione data non pare però fugare ogni dubbio interpretativo: come capire quando ci si trovi di fronte ad una convivenza “stabile” e quindi sussumibile sotto detta disciplina legislativa?

In vero, la definizione adottata conferma l'orientamento in base al quale l'unione di fatto, per assumere rilevanza giuridica, non può tradursi in mera “coabitazione”. Rimangono così prive di qualsivoglia tutela giuridica le coppie che optano per un impegno di convivenza sporadica, richiedendosi infatti che tra i conviventi si sia instaurato un vincolo stabile e di reciproca assistenza materiale e morale, che impone alla coppia di sostenersi vicendevolmente anche dal punto di vista patrimoniale.

Occorre tuttavia dire che l'elemento oggettivo che rileva ai fini della determinazione dell'inizio di una stabile convivenza di fatto è rappresentato dalla “stabilità” della stessa che, ai sensi dell'art.1 comma 37 della l. Cirinnà, può essere accertata attraverso la c.d verifica anagrafica di cui all'art. 4153 e alla lettera b) del comma 1

153 Secondo cui “Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità , adozione , tutela o vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.”

154dell'art.13 del regolamento del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n.223, cioè attraverso la verifica della sussistenza di una dichiarazione resa dagli interessati all'ufficiale dell'anagrafe di voler dar vita ad un nucleo familiare fondato su ragioni affettive.

Esaurite queste prime considerazioni sull'impianto complessivo del titolo II della l. Cirinnà, pare a chi scrive necessario mettere in luce la diciplina ad hoc prevista per i conviventi, a mezzo di un confronto con l'istituto matrimoniale.

Volendo partire dagli elementi di affinità tra i due istituti, non è possibile esimersi dal segnalare che:

• i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario (art.1, comma 38)

• in caso di malattia o ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza, previste per i coniugi familiari (art.1, comma 39);

• ciascun convivente di fatto può disignare l'altro quale suo 154 Secondo cui “Le dichiarazioni anagrafiche da rendersi dai responsabili di cui

all'art. 6 del presente regolamento concernono i seguenti fatti:(...)

b)costituzione di una nuova famiglia o di una nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza.”

rappresentante con poteri pieni o limitati in caso di malattia che comporta incapacità di intendere o volere, per le decisioni in materia di salute ovvero in caso di morte per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie (art.1, comma 40);

• in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite (art.1, comma 49); Si è così creata una disciplina “leggera” che- salvaguardando la scelta di libertà effettuata dai conviventi (etero e omosessuali)- si indirizza verso l'attribuzione di alcuni diritti, soprattutto nell'ambito dei rapporti esterni.155

Per quanto concerne i rapporti interni alla coppia, invece, si riscontrano maggiori difficoltà nell'estendere analogicamente la disciplina matrimoniale ai conviventi.

Il ricorso all'analogia viene infatti a mettere in evidenza i suoi limiti soprattutto per quanto riguarda l'operatività dei rimedi apprestati dal diritto di famiglia per la violazione da parte dei coniugi dei doveri scaturenti dall'art.143 c.c.

155 Filippo Romeo, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. In materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Le nuove leggi civili commentate, 2015, pag. 983

Come accennato in apertura del paragrafo, ad esempio, ipotizzare di sanzionare l'infedeltà di uno dei conviventi appare una forzatura sotto un duplice punto di vista: non solo dietro l'infedeltà può nascondersi la volontà, anche unilaterale, di porre fine al rapporto (mancando una disciplina idonea a costringere le parti a stare insieme), ma anche, come emerge per altro dalle interpretazioni più recenti in tema di famiglia fondata sul matrimonio, bisognerebbe tener di conto che sempre di più si tende a svincolare la fedeltà da una restrittiva formulazione in chiave di esclusività sessuale.

La fedeltà viene così ad essere assimilata ad un impegno globale di devozione, estensibile a tutti gli aspetti della vita di relazione.

L'assenza di un vincolo legale porta inoltre ad escludere il sorgere di una obbligazione risarcitoria, tendente a riparare le conseguenze negative derivanti all'altro convivente dalla rottura del rapporto causata dalla violazione del dovere di fedeltà: non è quindi applicabile alla famiglia di fatto il meccanismo della solidarietà post-coniugale, che si pone alla base, in sede di separazione o divorzio, della corresponsione di un assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole. La l. n. 76/2016 prevede soltanto, all'art.1 comma 65, che “in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio

mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma, del codice civile. Ai fini della determinazione dell'ordine degli obbligati ai sensi dell'art.433 c.c., l'obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle”.

Volendo passare all'analisi di un altro dovere previsto per i coniugi ma non esplicitato per i conviventi, sembra di non poter far a meno di nominare l'obbligo di coabitazione.

In vero tale dovere viene ad oggi interpretato in modo sempre più elastico (così come è avvenuto per il dovere di fedeltà), sostenendo che la separazione dei tetti non è necessariamente indice della fine del rapporto.

Non si può però non notare come una tale soluzione rischi di intaccare il profilo della stabilità, che rappresenta il vero limite all'autonomia dei conviventi per accertare l'esistenza e l'effettivo svolgimento del rapporto.

Questa infatti si ritiene che debba tener conto, non solo della durata temporale dell'unione, ma anche dell'affectio, cioè della reale intenzione di dar vita ad una comunità familiare di fatto.

A chi scrive, sembra che una violazione del dovere di coabitazione, benchè non sanzionabile in caso di interruzione, potrebbe avere gravi

conseguenze all'interno della famiglia di fatto (ancor più che nella famiglia legittima).

In conclusione, i limiti della prospettiva analogica, (sia in riferimento al dovere di fedeltà che al dovere di coabitazione di cui all'art.143 c.c.), si manifestano soprattutto con riferimento alla difficoltà operativa dei rimedi tipici apprestati per la violazione dei doveri personali da parte dei coniugi.

In ultima analisi, imprescindibile, in tema di doveri interni alla coppia non coniugata, pare il riferimento, operato dall'art.1 comma 36, all'obbligo di reciproca assistenza materiale e morale.

Il tratto distintivo della famiglia di fatto rispetto agli altri modelli familiari non matrimoniali, in effetti, è quello finalistico: i conviventi danno vita ad un'unione che realizza, pur nella costante revocabilità dell'impegno, una comunione spirituale e materiale tra i membri della coppia.

Ad ogni modo, pur partendo da questa premessa, risulta non estensibile la previsione di cui all'art.144 c.c. relativa al diritto-obbligo dei coniugi di dare un indirizzo alla vita familiare e fissare la residenza comune. Non si può non rilevare infatti che l'applicazione analogica di detta normativa si scontra con le difficoltà di individuare adeguate sanzioni qualora non venga attuato l'indirizzo concordato.

dell'indirizzo di vita familiare si riscontra nell'idoneità dello stesso a soddifare gli interessi della famiglia.

Quest'ultima espressione, “interesse della famiglia”, assume in questo contesto un significato diverso essendo legato al concetto di solidarietà che ha, rispetto a quanto avviene in ambito matrimoniale, una portata più ampia ed elastica (sicuramente non legata alla struttura della famiglia).

Appare inoltre difficile l'applicazione dei rimedi previsti in ambito coniugale dall'art.145 c.c nel caso di disaccordo circa l'indirizzo del rapporto.

La figura di un giudice conciliatore della famiglia chiamato dai conviventi a dirimere diversità di vedute su profili di rilevanza per la vita del gruppo familiare non appare infatti convincente.

Si ritiene così coerente riconoscere ai conviventi un più ampio margine di autonomia rispetto alla rigidità dei rapporti che trovano fonte nella famiglia fondata sul vincolo matrimoniale.

Un breve cenno, per esigenze di completezza, merita infine la questione della procreazione medicalmente assistita.

Se questa, nell'ottica di garantire il diritto del nascituro ad una doppia figura genitoriale avente sesso diverso risulta, come accennato nel paragrafo precedente, non accessibile alle coppie unite civilmente, al contrario appare nella stessa logica aperta ai conviventi (come si

desume dalla lettera dell'art. 5 della l. n. 40/04156).

4.1...(segue) Il contratto di convivenza: profili patrimoniali.

Una delle novità più rilevanti introdotte dalla l. Cirinnà si lega all'opportunità data ai conviventi omo ed eterosessuali, ex art.1 comma 50, oltre che di registrare la loro convivenza (ottenendo così gli effetti in termini di diritti e doveri di cui al par. sopra), di stipulare un contratto di convivenza con cui è possibile disciplinare “i rapporti patrimoniali relativi alla vita in comune”.

Si sottolinea nuovamente che i conviventi hanno la facoltà di scegliere se registrare o meno tale contratto, ma non l'obbligo, ben potendo svolgere il loro rapporto anche in assenza di esso.

Qualora, tuttavia, optino per la stipulazione di un contratto di convivenza, da sottolineare, è che in esso potranno essere regolate tutte le questioni inerenti all'ambito dei rapporti patrimoniali tra i conviventi (ma mai le questioni diverse da quelle aventi rilevanza economica, come ad esempio le tematiche di natura strettamente personale tipo la vita sessuale e l'organizzazione familiare).

Per stipulare un contratto di convivenza registrato, la legge, prevede di

156 La norma ammette l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche a favore “delle coppie di maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi”

seguire alcune formalità tra cui ricordiamo l'onere previsto all'art.1, comma 51, che il contratto, (ma anche gli accordi con cui questo si risolva o si modifichi), sia redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali ne devono attestare la conformità alle norme imperative e di ordine pubblico.

Una volta stipulato, ai fini di renderlo opponibile ai terzi, il notaio o l'avvocato che hanno autenticato l'atto devono provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmettere copia al Comune di residenza dei conviventi, al fine dell'iscrizione del contratto stesso nei registri dell'anagrafe ove sia registrata la convivenza (art.1, comma 52).

Il sistema pubblicitario è così preordinato a permettere a chiunque di verificare se tra due determinati soggetti esista una situazione di convivenza registrata e come questa convivenza sia stata eventualmente disciplinata sotto il profilo patrimoniale.

Ma quali contenuti può avere il contratto di convivenza?

La risposta ci perviene dall'art.1, comma 53 della legge in esame che afferma che il contratto di convivenza può contenere:

• l'indicazione del luogo ove i conviventi convengono di risiedere

• le modalità che i conviventi convengono circa la reciproca contribuzione da effettuare per far fronte alle necessità della

vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alle capacità di lavoro professionale o casalingo

• l'adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro I del c.c. In relazione all'ultimo punto, pare necessaria una specificazione: mentre i componenti di un'unione civile sotto il profilo del regime patrimoniale coniugale sono totalmente equiparati ai coniugi di un “ordinario matrimonio”, con la conseguenza che, in mancanza di una diversa opzione, tra gli uniti civilmente opera ex lege il regime di comunione legale dei beni, l'esatto contrario accade per i conviventi di fatto registrati in anagrafe e per i conviventi non registrati.

Infatti, nel corso della convivenza, il regime degli acquisti è regolato dal principio in base al quale l'acquisto profitta solo al soggetto che lo effettua: per far sì che dell'acquisto compiuto nel corso del rapporto di convivenza da uno dei due conviventi benefici anche l'altro componente della coppia, occorre non solo che si tratti di una convivenza registrata in anagrafe ma pure che si tratti di conviventi che, qualora sia stipulato un contratto di convivenza, abbiano anche scelto di inserirvi la clausola dell'adozione del regime di comunione, e cioè di determinare l'effetto per il quale qualsiasi acquisto da chiunque compiuto durante la convivenza appartenga appunto alla comunione dei conviventi.

Un'altro cardine della disciplina dei rapporti patrimoniali tra i conviventi di fatto riguarda l'assegnazione della casa familiare, in caso di morte del convivente di fatto proprietario della casa familiare (art.1, comma 42 della leggen.76/2016).

Nel caso in cui il patner superstite non vanti diritti preesistenti sull'immobile ove si è svolto il ménage, la legge distingue principalmente tra due situazioni, cioè quella in cui ci sia la presenza di figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, nel qual caso troverà applicazione il regime di cui all'art.337 sexies c.c., e quella in cui non siano coinvolti figli.

In quest'ultimo caso il convivente ha diritto di abitazione nella casa per un periodo uguale agli anni di convivenza, quantificato in un minimo di due anni (se la convivenza ha avuto durata inferiore a tale lasso di tempo) e in un massimo di cinque anni (quando la convivenza abbia avuto durata superiore a due anni).

Se nella casa coabitano figli minori o figli disabili del convivente superstite, tuttavia, il medesimo ha diritto in ogni caso, a prescindere dalla durata della convivenza, ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.

A norma della lettera dell'art.1, comma 43 della legge in esame, il diritto del convivente superstite ad abitare nella casa familiare viene meno quando egli cessi di abitare stabilmente nella casa di comune

residenza, quando contragga matrimonio, stipuli un'unione civile o intraprenda una nuova convivenza di fatto.

Tornando alla disciplina generale dettata dalla norma in merito al contratto di convivenza, la legge specifica poi che esso non può essere sottoposto a termini o vincolato al rispetto di particolari condizioni che se inserite, si hanno per non apposte (art.1, comma 56).

In ogni caso esso, ex art.1, comma 59 della legge in esame, si risolve per:

• accordo delle parti;

• per recesso unilaterale: in tal caso il professionista che riceve o che autentica l'atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificare copia all'altro contraente all'indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l'abitazione;

• per morte di uno dei conviventi: in questo caso il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l'estratto dell'atto di morte, affinchè provveda ad annotare al margine dell'atto di convivenza l'avvenuta

risoluzione del contratto e a notificarlo all'anagrafe del comune di residenza;

• oppure per matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona: in tale ipotesi sarà onere del contraente che ha contratto matrimonio o unione civile, notificare all'altro nochè al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l'estratto di matrimonio o di unione civile.

Se il contratto di convivenza prevede il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione, determina anche lo scioglimento della comunione stessa e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro I del c.c.

Resta comunque ferma, come desumibile dall'ultimo inciso dell'art.1, comma 60, la competenza del notaio in merito agli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari discendenti dal contratto di convivenza.

Considerazioni conclusive generali.

Il presente elaborato ha ricostruito l'evoluzione normativa recente dell'istituto matrimoniale, che ha riguardato soprattutto la fase della crisi.

Le trasformazioni giuridiche risentono dei profondi cambiamenti intervenuti a livello sociale, della ridotta stabilità delle unioni e delle pressanti esigenze di tutela dei soggetti coinvolti.

Nella trattazione in esame, si è cercato di mettere in luce come progressivamente la disciplina matrimoniale sia andata incontro a cambiamenti dettati dalla necessità di assumere come referente il modello organizzativo reale della famiglia, per evitare di predisporre un complesso di regole anacronistiche e destinate ad entrare in conflitto con i bisogni reali della società.

Ecco che, focalizzando l'attenzione sul tema della “resistenza” del vincolo giuridico creato con il matrimonio in relazione alle crisi che possono attraversare il rapporto, si nota una profonda differenza tra l'iniziale disciplina dettata dal codice civile del 1942, che abbraccia una visione della famiglia patriarcale e autoritaria, portando come necessaria conseguenza all'indissolubilità del matrimonio, e quella