Introduzione.
Con la presente trattazione si propone un'analisi dell'evoluzione giuridica attraversata dall'istituto matrimoniale e, in particolare, delle recenti novità che hanno interessato la disciplina della fase patologica (divorzio breve, negoziazione assistita) e l'introduzione di una regolamentazione modellata sul matrimonio per le coppie omosessuali.
E' proprio la tangibilità delle questioni e delle problematiche che ruotano intorno a questo istituto che ha portato chi scrive a voler indagare più a fondo sull'argomento.
A questo fine, si prende le mosse da una ricostruzione storica del matrimonio e dal suo originale quadro normativo.
In particolare, nel primo capitolo, si mettono in luce i momenti che hanno determinato il passaggio da una concezione pubblicistica della famiglia, (intesa quale baluardo di interessi superiori a quelli delle parti e per tanto da tutelare e proteggere a prescindere dalla volontà di questi ultimi), ad una concezione privatistica, tesa a valorizzare sempre di più l'autonomia dei singoli.
E' proprio l'affermarsi in materia familiare, della necessità di dare maggiore autonomia ai coniugi, che porta progressivamente il
legislatore ad introdurre nuovi istituti, espressione di questa esigenza sociale.
Essi vengono analizzati nel secondo capitolo, ove si discute della c.d. “negoziazione assistita”, oltre che dei c.d. “accordi ricevuti dal sindaco”, introdotti nel nostro ordinamento dagli artt. 6 e 12 della l. n. 162/2014 al fine di permettere una “semplificazione” della procedura di separazione personale dei coniugi, dello scioglimento del matrimonio e della cessazione degli effetti civili, nonché della modifica delle condizioni di separazione e divorzio.
I due diversi istituti vengono studiati mettendone in luce le caratteristiche, le diversità, i presupposti e lo scopo che si prefiggono di raggiungere.
Non mancano però i rilievi critici, che mettono in evidenza le lacune della normativa.
Nel terzo capitolo, si prosegue soffermandosi invece sulla l. n. 55/2015, meglio conosciuta come “legge sul divorzio breve”. Anche in questo caso il fil rouge con i capitoli precedenti è rappresentato dalla volontà del legislatore di valorizzare l'autonomia privata in materia matrimoniale, volontà che questa volta si viene a concretizzare in una sostanziale diminuzione delle tempistiche necessarie per ottenere il divorzio.
Questa novità legislativa porta con sé numerose problematiche che ovviamente, non mancano di essere messe in luce nell'elaborato.
Tra queste le più rilevanti sembrano essere legate al momento di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, dai problemi di coordinamento con la l. n. 162/2014 e infine dalla scelta di escludere la possibilità di accedere al “divorzio diretto”.
A concludere l'elaborato, non poteva mancare un capitolo dedicato all'analisi della recentissima l. n. 76/2016, più nota come l. Cirinnà.
Si è ritenuto opportuno infatti confrontare i nuovi istituti delle unioni civili con il matrimonio, quale unione tradizionalmente riconosciuta, al fine di evidenziare gli argomenti di analogia ma soprattutto di differenza dettati dall'esigenza di stare al passo con una società in continua evoluzione.
Capitolo I
La crisi del matrimonio nel corso della storia .
1. La separazione personale dei coniugi: profili evolutivi
tra il codice del 1942 e la riforma del 1975.
In materia matrimoniale, una delle questioni più difficili che il nostro ordinamento ha dovuto affrontare è rappresentata dall'individuazione della “resistenza” del vincolo giuridico creato con il matrimonio, in relazione alle crisi che possono coinvolgere i rapporti coniugali.
Se volessimo ripercorrere l'evoluzione normativa che ha involto la materia in oggetto non potremmo prescindere dal ricordare che, prima del 1970, il legislatore italiano era fermo nel riconoscere l'indissolubilità del matrimonio.
Alla base di questa impostazione c'era l'idea che lo Stato dovesse tutelare gli interessi del “gruppo familiare” ancor prima (e a volte anche a discapito) dei diritti dei singoli membri che lo componevano1. Era infatti proprio la “solidità” dell' istituzione familiare a porsi come fondamento del sistema giuridico.
Il cod. civile del 1942 aveva quindi tracciato le linee di un istituto matrimoniale che si vedeva sovraordinato rispetto all'interesse delle 1 R. Picaro, Stato unico della filiazione.Un problema ancora aperto, Giappichelli
persone e che non consentiva, una volta che il vincolo coniugale fosse stato costituito, il suo scioglimento, neppure quando fosse venuta meno la comunanza di sentimenti, affetti e interessi che lo alimentavano2. L'unica limitata deroga a quanto appena detto era rappresentata dall'istituto della separazione personale, (per altro riconosciuta anche nell'ordinamento canonico), con il quale i coniugi potevano ottenere un “allentamento” del vincolo che li legava3.
Ricorrendo a questo strumento era possibile attenuare o modificare parte dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio senza però poterli eliminare totalmente.
La separazione personale era consentita solo in presenza di ipotesi tassative di colpa di uno dei coniugi (adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce, ingiurie gravi).
Nel codice del 1942 dominava quindi una concezione “sanzionatoria” della separazione4.
Si era così giunti al risultato di poter infrangere l'unità familiare solo quando ci fossero state gravi violazioni dei doveri coniugali: l'unità della famiglia era un valore da proteggere ad ogni costo anche quando fosse svuotata del suo significato e ridotta a mera forma, ad una
2 G. Ferrando, Separazione e divorzio.Guida alla lettura della giurisprudenza, Giuffrè Editore, 2003, pag.3
3 U.Breccia, L.Bruscuglia,F.D.Busnelli, F.Giardina, A.Giusti, M.L.Loi,E.Navarretta, M.Paladini,D.Poletti,M.Zana, Diritto privato,tomo terzo, seconda edizione ,UTET, 2010, pag.1123
facciata.
Proprio alla luce di quanto detto emerge con chiarezza come in realtà la separazione, in questo contesto, fosse vista come uno “stato temporaneo” orientato a favorire la riconciliazione dei coniugi.
La riappacificazione auspicata dall'istituto in esame, tuttavia, nella pratica avveniva solo in casi rari.
Ciò non di meno, non ci furono mutamenti nel considerare la separazione una “situazione non definitiva” in base alla quale la condizione dei coniugi subiva solo quelle modifiche rese indispensabili dal venir meno della convivenza.
Con il codice del 1942 si era venuto a delineare un modello familiare di tipo patriarcale, autoritario e chiuso che si fondava sull'istituto matrimoniale: solo il matrimonio era infatti in grado di legittimare e dare dignità all'unione e ai figli nati dalla stessa.
La concezione di famiglia, a partire dal secondo dopoguerra, fu investita da una radicale trasformazione determinata da diverse quanto profonde cause storiche e da taluni fattori sociologici5.
Invero, la famiglia regolata dal codice del '42, come notò T. L . Rizzo “assumeva come riferimento un modello istituzionale il cui declino cominciava proprio in quegli stessi anni e, per tanto, destinato ad essere soppiantato da una nuova concezione dei rapporti familiari e,
prima ancora, dei rapporti individuali e sociali”.
Il cambiamento, in realtà, era già in atto dagli anni '20 dello scorso secolo quando si ebbe la prima grande trasformazione del sistema produttivo italiano che portò ad un mutamento dell'organizzazione degli assetti familiari6 .
Volendo ripercorrere le evoluzioni che negli anni il concetto di famiglia ha subito e a cui è strettamente connessa anche l'idea del grado di resistenza del vincolo coniugale rispetto alla crisi che lo può investire, bisogna volgere lo sguardo a quel periodo immediatamente precedente allo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Negli anni 30' l'Italia era governata dalla dittatura fascista che faceva propaganda, in accordo con la Chiesa Cattolica, del modello di famiglia cristiana tradizionale.
Se pur con obiettivi diversi, la Chiesa e il Fascismo si trovavano pienamente in linea per quanto concerneva la falsariga da difendere: “ricondurre l'istituzione familiare verso il modello della famiglia preindustriale” cioè verso “una grande struttura ricondotta sotto il controllo maschile, sul principio dell'autorità, sulla prolificità femminile 7” .
Nonostante il tentativo di dare evidenza ai valori tradizionali, il 6 R.Picaro, Stato unico della filiazione.Un problema ancora aperto, G.Giappichelli
Editore -Torino, pag. 17
7 C. Dau Novelli, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, Ediz. Studium, Roma, 1994, pag.20 ss.
progresso e l'ammodernamento che la vita quotidiana per via di esso ricevette, fecero si che la realtà familiare fosse inesorabilmente destinata a trasformarsi.
Alla fine della guerra, dopo un periodo caratterizzato dalla diminuzione dei matrimoni e della natalità seguì un periodo, (che si protrasse fino all'inizio degli anni '50), di ripresa delle nascite e di aumento dell'officializzazione delle unioni che riconfermava i valori del cattolicesimo praticante e dell'istituzione familiare di carattere patriarcale.
Il modello autoritario di famiglia accolto nel codice del '42 subì tuttavia un inesorabile declino con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana alla luce dell'attività interpretativa della Corte Costituzionale.
La Grundnorm, recepiva un modello unitario di famiglia legittima fondata sul matrimonio tra uomo e donna che introduceva però i valori espressivi di ugualianza morale e giuridica dei coniugi, il riconoscimento della tutela dei figli anche se nati fuori dal matrimonio, l'autonomia della famiglia, il dovere di mantenere e istruire la prole e il principio di sostegno pubblico ai compiti educativi della famiglia8 . La base normativa di quanto appena detto emergeva con evidenza dall'art. 29 della Costituzione che afferma:
8 G.Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell'ordinamento italiano, Riv. di diritto civile, 2006, pag.482
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio .
Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.”
Tale articolo deve essere letto in coordinamento agli artt. 30 e 31 della Costituzione e alla luce del principio personalistico sancito dall'art. 2 e del principio di ugualianza di cui all'art. 3 della medesima Carta .
Nel processo che condusse all'affermazione dell'ugualianza tra i coniugi, un grande rilievo fu assunto dalle pronunce della Corte Costituzionale che dichiararono illegittime, con sentenze modificative del tessuto positivo ordinario, alcune norme codicistiche.
Tra queste sentenze meritano attenzione le sent. n.126 del 1968 e n.147 del 19699.
Esse riguardavano le previsioni penali concernenti i reati di adulterio e di concubinatato e dichiararono illegittime le norme di cui agli artt. 559-573 c.p, nella parte in cui fondavano la punibilità dei relativi delitti sul sesso dei coniugi.
La Corte costituzionale nella sent. n. 126/196810 affermò che era passato molto tempo dal periodo in cui poteva ammettersi un trattamento giuridico diverso per il marito che disattendesse l'obbligo 9 Corte Cost., sent.147/1969, in Foro.it
coniugale della fedeltà, il quale rimaneva sostanzialmente impunito, e la moglie che, considerata in stato di soggezione maritale, in presenza di simile fatto, andava incontro ad una punizione .
Proprio i cambiamenti sociali avevano portato la donna ad acquisire pienezza di diritti fino ad essere parificata all'uomo: era quindi del tutto inconcepibile il permanere nel nostro ordinamento di un trattamento differenziato in tema di adulterio.
La Corte Costituzionale giunse dunque alla conclusione che, alla stregua dell'attuale realtà sociale, la discriminazione non era utile ma bensì di grave nocumento alla concordia e all'unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece quello della moglie , poneva in stato di inferiorità quest'ultima ledendola nella sua dignità, costringendola a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria senza poter far ricorso ad alcuna tutela in sede penale.
Proprio per questo, in seguito a questa sentenza fu sancita l'incostituzionalità del comma 2 dell'art .151 c.c. nella parte in cui escludeva la possibilità per la moglie di intentare un'azione di separazione a causa dell'adulterio del marito o per causa di un ingiuria grave che le era stata rivolta11.
La Corte aveva precisato che l'art. 29 della Costituzione regola i rapporti tra i coniugi e riconosce la “famiglia come società naturale 11 R. Picaro, Stato unico della filiazione.Un problema ancora aperto, G.Giappichelli
fondata sul matrimonio” , affermando l'uguaglianza morale e giuridica tra marito e moglie.
Tale uguaglianza poteva tuttavia essere limitata quando ciò risultasse necessario per garantire l'unità familiare.
Da una prima lettura data dalla Consulta all'art. 29 risultava evidente come la Costituzione, nel sancire sia l'uguaglianza tra coniugi, sia l'unità familiare, proclamasse comunque la prevalenza di quest'ultima qualora un trattamento di parità tra i coniugi la ponesse in pericolo. Nel 1970 ci fu un vero e proprio cambio di rotta rispetto a quelli che erano gli orientamenti pregressi.
Con l'emanazione della l. 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), si ebbe la caduta del principio di indissolubiltà del matrimonio e si iniziò ad intendere la famiglia non più come “istituzione”, ma come “ formazione sociale” (art. 2 Cost.) tutelata non in vista dell'interesse generale ma in ragione della protezione dei valori delle persone che la compongono .
Il venir meno della “comunione materiale e spirituale” (art. 3, legge n.898/1970) giustificava lo scioglimento del vincolo coniugale ormai svuotatato del suo autentico significato.
Con tale legge si introducevano nel nostro ordinamento una serie di ipotesi di scioglimento del matrimonio civile (nonché, parallelamente di cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato con rito
religioso e regolarmente trascritto), tra le quali la più importante (per frequenza statistica), era costituita dalla pregressa separazione personale tra coniugi.
La funzione della separazione veniva quindi a subire un mutamento: essa non rappresentava più uno stato temporaneo in vista della riconciliazione ma il momento iniziale di un processo destinato a sfociare nel divorzio .
La sequenza che normalmente si stabiliva tra separazione - decorso del tempo prescritto - divorzio, ne sottolineava il ruolo di necessaria “anticamera” del divorzio.
Non si poteva però escludere che accanto a questa (che è l'immagine più diffusa della separazione), potesse coesistere una sua diversa considerazione in termini di stato anche durevole, alternativo rispetto al divorzio, a disposizione di chi non intendesse porre fine definitivamente al vincolo.
Nella legge del 1970, d'altrocanto, il divorzio veniva visto come un rimedio ad una situazione di crisi definitiva del rapporto e non come una sanzione per le colpe commesse.
L'abbandono del pricipio di indissolubilità del matrimonio ha indotto poi, il legislatore della riforma del 1975, ad andare a modificare profondamente anche la disciplina della separazione personale.
premessa della radicale e organica riforma della disciplina codicistica della famiglia12, cioè di quella revisione suggerita e sollecitata al Parlamento dalla stessa Consulta (si pensi alla sent.15 dicembre 1967, n.144) ma anche dalla stessa Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.
Si sentiva la necessità di adeguare la norma alle profonde trasformazioni avvenute nella società .
Questa esigenza fu soddisfatta con l' emanazione della l. 19 maggio 1975, n.151 di riforma al diritto di famiglia, entrata in vigore il 21 settembre 1975.
La ratio della riforma del '75 era quella di consentire l 'ingresso nella famiglia dei diritti fondamentali della persona13, aumentando l'attenzione verso le prerogative riconducibili al valore dell'individuo e, segnatamente, alla sua libertà.14
Con la riforma si voleva adeguare la norma ai principi espressi dalla Carta Costituzionale e in particolare al principio di parità tra i coniugi, sancito dall'art. 29 Cost., attraverso l'integrale parificazione degli stessi, sia nei rapporti personali, che in quelli patrimoniali.
La riformata formulazione dell'art.143 c.c., posto in apertura del Capo
12 M.Sesta, Verso i nuovi sviluppi del principio di ugualianza tra coniugi, Milano, 2005, pag.211
13 R.Picaro, Stato unico della filiazione.Un problema ancora aperto, G.Giappichelli Editore, pag. 32 ss.
IV, Libro I, c.c., e relativo ai diritti e ai doveri che nascono dal matrimonio conteneva per la prima volta la formulazione espressa del principio di uguaglianza giuridica che sovraintende ai rapporti tra marito e moglie.
Questo era ancor più evidente se si considerava il disposto dell'abrogato art.143 c.c., secondo cui se era vero che il matrimonio imponeva ai coniugi “obblighi reciproci”, era vero anche che dalla violazione di questi derivavano conseguenze giuridiche diverse a seconda del genere del coniuge autore della violazione .
La legge di riforma del '75 individuò tra i diritti-doveri dei coniugi quello della fedeltà, dell'assistenza morale e materiale, della coabitazione, della collaborazione e dell'obbligo alla reciproca contribuzione ai bisogni della famiglia, da attuarsi in modo proporzionale alle capacità e alle sostanze patrimoniali di ciascuno di essi.
Particolare attenzione merita l'obbligo di coabitazione che in realtà mirava a realizzare e a rendere operativo quel focolare domestico in cui poteva e doveva, in concreto, esprimersi la comunione di vita che costituisce l'essenza del matrimonio. Sul punto la novella apportò rilevanti modifiche: l'abrogato art. 144 c.c., come riflesso della potestà maritale, prevedeva in capo alla moglie l'obbligo di seguire il marito ovunque egli ritenesse di fissare la propria residenza.
Il nuovo art.144 c.c. stabiliva invece che i coniugi dovessero concordare tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissare la residenza secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.
La potestà maritale si trasformò dunque in potestà condivisa, imperniata sull'uguaglianza dei coniugi, con un regime patrimoniale comune basato, in via principale, sulla comunione legale o, in via alternativa, sulla separazione dei beni.
Con la novella del '75 la separazione fu iniziata ad essere considerata come un “rimedio” al fallimento del matrimonio.
Con la riforma si eliminò la necessità di concedere la separazione solo in costanza di colpa grave di uno dei due coniugi.
Si passò dalla “separazione per colpa” alla “separazione per intollerabilità della convivenza”.
L'ordinamento non andava più ad indagare le ragioni della crisi ma si limitava ad accertare la sua effettiva esistenza.
L'obiettivo era divenuto quello di disciplinare le conseguenze della crisi in modo da ridurre al minimo gli effetti negativi che da questa si dispiegavano e che andavano a coinvolgere i coniugi e gli eventuali figli degli stessi.
La previsione della pronuncia di addebito a carico del coniuge che si era reso responsabile della violazione dei doveri che nascono dal
matrimonio costituiva una concessione del legislatore del 1975 alle visioni più conservatrici, ma non andava ad alterare la fisionomia dell'istituto che trovava il suo fondamento nel fatto che la convivenza fosse divenuta intollerabile.
L'addebito infatti, pronunciabile solo su espressa richiesta e solo quando ne ricorrevano le circostanze, non influiva sul “se” della separazione ma andava a modificare solo i suoi effetti patrimoniali e successori.
Il fondamento della separazione restava pertanto sempre e solo il venir meno dell'intesa tra i coniugi.
I profili sanzionatori venivano recuperati solo nella conformazione di alcuni effetti della stessa.
Si era per tale via imposta una visione privatistica del rapporto tra i coniugi: l'ordinamento giuridico si veniva a porre al margine, rinunciando alla difesa diretta e immediata della solidità del rapporto coniugale, la cui durata veniva così integralmente demandata alla volontà dei coniugi, se pur mantenedo ferme una serie di tutele per l'interesse dei figli e del coniuge debole.15
Con la riforma del '75 si andò a modificare l'originario testo del 1942 secondo il quale la separazione poteva essere chiesta solo nei casi determinati dalla legge ovverosia per causa di adulterio, di volontario 15 G.Chinè, M.Fratini, A.Zoppini, Manuale di diritto civile,VI edizione, Nel diritto
abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi oltrechè in caso di gravi condanne in sede penale (ergastolo, reclusione superiore a 5 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici).
Il testo originario prevedeva inoltre delle specifiche restrizioni del diritto della moglie a chiedere la separazione: in caso di adulterio, infatti, l'azione poteva essere promossa solo in presenza di circostanze tali da rendere il fatto un'ingiuria grave alla moglie ex art.151,2 comma, abr16.
Per effetto della riforma, la separazione per “colpa” viene sostituita dalla separazione “con addebito”.
L'“addebito” prescinde dalla responsabilità morale della crisi coniugale: esso consiste nella mera imputabilità della separazione alla condotta di uno dei due coniugi.
Con la riforma si modificano altresì gli effetti della separazione, come a volere sottolineare le differenze esistenti tra lo status coniugale in costanza di convivenza e quello in costanza di separazione.
Così, ad esempio, durante la separazione viene meno la presunzione di paternità del marito, come emerge dall' art.232, comma 2 c.c..
Si è poi lungamente discusso sul “se” e “in che misura” permangono i diritti e i doveri di natura personale tra i coniugi separati.
L'art. 156 c.c. si limita infatti a disciplinare i diritti e i doveri di natura
patrimoniale lasciando fuori la considerazione di quelli diversi da essi. Sul piano degli effetti patrimoniali è da notare che la modifica del regime patrimoniale primario, attuata dalla riforma, con la previsione dell' obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia, al posto dell' antecedente obbligo di mantenimento, riverbera anche sullo stato di separazione17.
Concludendo, il nostro codice prevede ad oggi due forme di separazione legale dei coniugi ovverosia la separazione giudiziale, regolata dall'art. 151 c.c. e la separazione consensuale disciplinata dall'art.158 c.c..
Dalla separazione legale deve essere tenuta distinta la separazione di fatto, che consiste nella sospensione, volontariamente concordata dai coniugi senza l' intervento del giudice, di alcuni (o di tutti) i diritti e i doveri coniugali (in particolare, del dovere di coabitazione18 ).
La separazione di fatto cessa se i coniugi di comune accordo decidono di ripristinare la loro comunione di vita. Spesso accade però che essa preluda all'instaurazione di un giudizio di separazione giudiziale o consensuale.
17 G.Ferrando, Separazione e divorzio. Guida alla lettura della giurisprudenza, Giuffrè Editore, 2003, pag. 5.
1.1 La separazione consensuale.
Laseparazione consensuale rappresenta la forma di separazione legale più semplice e rapida da attuare tra quelle di previsione codicistica. Essa si realizza quando i coniugi si trovano in accordo sulla decisione di separarsi senonchè sulle condizioni relative alla definizione dei rapporti patrimoniali e all'affidamento e mantenimento dei figli per il tempo successivo alla separazione.
Quando sussiste tale accordo, i coniugi possono presentare ricorso al tribunale e domandare che il giudice lo dichiari, con decreto, efficace ex art.158 c.c..
L'accordo tra i diretti interessati rende infatti superflua l'attività istruttoria che conduce alla pronuncia con sentenza.
Così come per la separazione giudiziale, anche alla base del ricorso alla separazione consensuale deve esserci una situazione di intollerabilità della prosecuzione della convivenza o di grave pregiudizio per l'educazione della prole.
L'omologazione dell'accordo tra i coniugi da parte del giudice è necessaria affinchè esso produca i suoi effetti.
Affinchè il giudicante dia il suo placet è necessario che dalla verifica dei contenuti dell'accordo questo non risulti contrario agli interessi dei
figli o del coniuge più debole.
Nel caso in cui ci sia un effettivo contrasto con gli interessi della prole, il presidente del Tribunale riconvoca i coniugi e indica le modificazioni da adottare.
Se i coniugi non accettano la proposta del giudice o non giungono ad un'altra idonea soluzione, il Tribunale rifiuta, allo stato, l'omologazione ex art.158, 2 comma, c.c..
Bisogna notare che l'organo giudicante, in ogni caso, non può mai esercitare alcun sindacato nè sulle ragioni che inducono i coniugi alla separazione, né sulla regolamentazione adottata con riguardo ai reciproci obblighi di mantenimento.
Fino al momento di emanazione del decreto di omologazione ciascun coniuge può revocare il proprio consenso alla separazione .
Volendosi soffermare sulla natura giuridica dell'accordo di separazione, merita un necessario approfondimento l'individuazione dei rapporti intercorrenti tra accordo coniugale e omologazione, ovvero tra aspetto privatistico e aspetto pubblicistico della separazione consensuale. Un primo orientamento tendeva a valorizzare l'aspetto pubblicistico, così l'accordo tra i coniugi non sarebbe stato altro che un mero presupposto del provvedimento giurisdizionale di omologazione, a cui solo la legge collega gli effetti modificativi dello status dei coniugi.19
Un successivo orientamento dottrinale poneva invece l'attenzione sul carattere progressivo che connotava la fattispecie in esame: in questo modo l'accordo e l'omologazione venivano a rappresentare elementi necessari e inscindibili per l'ottenimento dello status di coniugi separati20.
Per l'orientamento maggioritario, al centro della fattispecie si collocherebbe invece l'accordo tra i coniugi e il provvedimento giudiziale di omologazione assurgerebbe a condizione legale di efficacia del medesimo accordo21 .
La separazione troverebbe quindi la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi davanti al presidente del Tribunale .
La successiva omologazione attribuirebbe semplicemente efficacia dall'esterno all'accordo di separazione, svolgendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizione intercorse tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo.
La Cassazione stessa chiarì che l'accordo di separazione si configura come “ un atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente22” tanto da essere
20 D' Antonio, Irrevocabilità del consenso dei coniugi alla separazione, in Riv. dir. Civ., 1959, II, pag. 459 ss.
21 G.Chinè, M.Fratini, A.Zoppini, Manuale di diritto civile, Nel diritto Editore, 2015, pag. 291 ss.
definito, riprendendo un'efficace espressione della dottrina,“come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia”.
La dottrina, dal canto suo, era giunta ad escludere la natura contrattuale dell'accordo di separazione e a ritenere che ad esso non fossero applicabili le norme del contratto senza però escludere ex se l'applicazione, nei limiti della loro compatibilità, delle norme del regime contrattuale che concernono in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell'ordinamento, prime tra tutte quelle riguardanti i vizi del consenso e di capacità delle parti.
Meritano sicuramente attenzione anche gli accordi conclusi a latere della separazione, che non vengono trasfusi nel verbale di omologazione.
La Cassazione, già a partire dagli anni '90, ha intrapreso la via del pieno riconoscimento della validità di tali accordi, senza che si rendesse necessario un preventivo controllo sulla loro giuridica esistenza .
Ben presto venne, in materia, a realizzarsi una distinzione tra due tipologie di accordi: il discrimen era dato dal momento in cui gli stessi venivano conclusi .
all'omologazione da quelli conclusi precedentemente o contemporaneamente alla stessa.
La ratio della distinzione riguardava soprattutto la volontà di mediare, per gli accordi conclusi successivamente all'omologazione, tra la salvaguardia del momento istituzionale del controllo giudiziale e la valorizzazione dell'autonomia privata dei coniugi.
Gli accordi successivi trovano il loro fondamento nel principio del consenso tra coniugi, immanente al diritto di famiglia, e nell'art. 1322 c.c., fermo restando il rispetto dei limiti imposti dall'art. 160 c.c..
Tali pattuizioni, volte a migliorare o specificare le intese omologate, si pongono rispetto alla precedente omologazione come legittimate alla luce delle norme generali in materia contrattuale.
Se le parti, successivamente alla conclusione delle pattuizioni aggiuntive, non ne rispettano il contenuto od entrano in disaccordo, possono adire l'autorità giudiziaria ordinaria, davanti a cui non è possibile far valere la mera diversità rispetto all'intesa omologata ma deve essere fornita la prova che tali accordi abbiano superato i limiti posti dall'art.160 c.c..
Per quanto concerne gli accordi coevi o precedenti all'omologazione la ratio era invece individuata nell'esigenza di non privare di fondamento giuridico l'atto dell'omologazione23 .
23G.Chinè , M.Fratini, A.Zoppini, Manuale di diritto civile, VI edizione, Nel diritto Editore, 2015, pag.292 ss.
Questi devono infatti porsi in rapporto di “non interferenza” con le pattuizioni presenti nell'accordo omologato, devono cioè venire a costituire una specificazione dell'accordo omologat, ovvero una disciplina secondaria, che deve mantenere la sostanza e gli equilibri dei patti richiamati24 .
L'unico caso in cui il principio di non interferenza sembra poter essere superato si ha quando l'accordo coevo o precedente assicuri, rispetto a quello omologato, un'incontestabile maggiore rispondenza rispetto all'interesse tutelato.25
1.2 La separazione giudiziale.
Si definisce giudiziale la separazione personale che è pronunciata dal giudice con sentenza all'esito di un procedimento contenzioso instaurato con ricorso da uno dei due coniugi26.
La separazione giudiziale è regolata dall'art.151 c.c., il quale afferma che essa può essere richiesta al giudice “quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla prole”.
24 Cass., 28 luglio 1997 n.7029, in Foro.it 25 Cass., 22 gennaio 1994, n.657, in Giur.it
Ciascun coniuge, per l'attuale quadro normativo, ha diritto di richiedere la separazione (anche quando sia stato egli stesso la causa dell'intollerabilità della convivenza).
Ad oggi ci troviamo di fronte ad una progressiva “privatizzazione” 27dei rapporti familiari come emerge con tutta evidenza anche dal fatto che il legislatore del '75 non abbia voluto tipizzare i singoli casi in cui possa essere chiesta la separazione ma abbia preferito inserire una clausola aperta.
La colpa del coniuge, a differenza della formulazione antecedente alla riforma del '75, non è più requisito necessario per la domanda di separazione. Tale elemento torna di nuovo in gioco solo nel caso in cui venga richiesto al giudice di pronunciarsi sull'addebito.
Abbiamo quindi assistito ad una trasformazione della natura dell'istituto della separazione giudiziale che da strumento sanzionatorio della colpa del coniuge, è divenuto vero e proprio rimedio nel caso di crisi coniugale.
Quello che resta da indagare è la declinazione nel concreto dei singoli presupposti previsti dall'art. 151, 1 comma, c.c., a cui è ancorato il ricorso al rimedio in esame, e cioè l'intollerabilità della convivenza e il grave pregiudizio dei figli.
La nozione di “intollerabilità della convivenza” resta in dottrina e in 27 Zatti , Familia familiae -Declinazione di un'idea:la privatizzazione del diritto di
giurisprudenza fortemente controversa.
Possiamo individuare principalmente due correnti di pensiero tra le quali se ne interpone una intermedia e che si basano su una diversa visione del ruolo che l'autodeterminazione può giocare nel momento della crisi coniugale.
Secondo la prima tesi, che potremmo dire soggettivistica, al giudice sarebbe precluso ogni sindacato di merito riguardo alle ragioni a cui uno o entrambi i coniugi abbiano attribuito valenza di cause ostative alla prosecuzione della convivenza28 .
La volontà dei coniugi troverebbe quindi massima valorizzazione. Secondo un'altra tesi, per taluni versi opposta a quella sopra citata e che potremmo definire come oggettiva (o ermeneutica), il giudice dovrebbe valutare l'oggettiva rilevanza, alla stregua del parametro del comune sentimento sociale, del fatto addotto dalla parte come impeditivo della normale prosecuzione del rapporto coniugale.
Soltanto nel caso in cui i fatti addotti dal coniuge ricorrente vengano ad integrare situazioni che appaiono superare la “media tollerabilità” potrà farsi luogo all'accertamento dell'intollerabilità della convivenza. Così, per esempio, la violazione occasionale del dovere di fedeltà potrebbe non giustificare di per se il rimedio della separazione, a fronte della rinnovata presa di coscienza, da parte del coniuge infedele, della 28 Autori vari, Diritto privato, Tomo terzo, seconda edizione, Utet., 2010 , pag.1123
serietà e inderogabilità dei doveri coniugali.
La tesi intermedia pone invece l'accento sull'accordo stipulato dai coniugi sull'indirizzo della vita familiare ex art.144 c.c.: sarebbe infatti a questo che il giudice dovrebbe guardare in sede di valutazione giudiziale dell'intollerabilità della convivenza.
Secondo questa corrente di pensiero sarebbe necessario dare rilevanza anche a quei valori appartenenti ad uno o entrambi i coniugi che, pur in contrasto con il comune sentire sociale, siano stati posti alla base dell'accordo coniugale.
Così, per riprendere l'esempio di cui prima, anche l'infedeltà occasionale assumerebbe il valore di fatto impeditivo della prosecuzione della convivenza nel caso in cui i coniugi avessero espressamente sancito, nell'accordo sull'indirizzo della vita familiare, il valore della fedeltà assoluta e inviolabile.
In giurisprudenza29, pur costituendo principio consolidato che l'intollerabilità debba essere valutata in termini oggettivi, tale principio viene poi declinato, in concreto, in termini soggettivi, tenendo conto di qualsivoglia comportamento che crei un contrasto tra i coniugi.
Come notato dalla Suprema Corte “La formula adottata dal nuovo art. 151 c.c. si presta ad un'interpretazione di natura strettamente oggettivistica, che fonda il diritto alla separazione sull'accertamento
di fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della convivenza coniugale. Ma si presta anche ad un'interpretazione aperta a valorizzare elementi di carattere soggettivo, costituendo l'“intollerabilità” un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi” 30. Lo spettro dell' intollerabilità, nell'interpretazione giurisprudenziale, risulta amplissimo: si oscilla dalla violazione dei doveri coniugali, all'incompatibilità caratteriale .
Sicuramente preponderante è la violazione dell'obbligo di fedeltà ma immediatamente dopo a questa viene in evidenza l'allontanamento dalla casa coniugale, se unilaterale e protratto anche a seguito di specifica richiesta dell'altro coniuge di ritornarvici, e i maltrattamenti, sia fisici che morali, i quali oltre a legittimare la dichiarazione di addebito, costituiscono ex se giusta causa per la separazione.
Anche la decisione di un coniuge di mutare la propria fede religiosa può giustificare la separazione, nel caso in cui tale scelta- pur astrattamente munita di copertura costituzionale nell'art.19 Cost. - porti all'allontanamento dalla casa coniugale e all'interruzione della convivenza.
Accanto alla violazione degli obblighi coniugali assume rilievo anche la categoria delle cause di separazione comprendenti i fatti moralmente o materialmente impeditivi della convivenza come, ad esempio, una condanna del coniuge per un reato che comporti una pena detentiva lunga che renderebbe impossibile la stessa continuazione della convivenza.
Più delicato, per i problemi relativi all'addebito della separazione, si presenta il caso della decisione della moglie di interrompere ex lege n.194/78 la gravidanza, senza consenso o in presenza di espresso dissenso del marito.
La moglie in questo caso, pur esercitando un diritto espressamente riconosciutole dalla legge, può compromettere irreparabilmente la communio coniugalis.
Ugualmente valutabile è la malattia (fisica o psichica) del coniuge. Se per un lato rientra tra i doveri coniugali quello della reciproca assistenza, dall'altro non può chiedersi che tale assistenza venga prestata anche nel caso in cui la malattia, per le sue forme di manifestazione, renda oggettivamente impossibile la prosecuzione della convivenza, a causa dell'alterazione che comporta sia nell'equilibrio coniugale, sia nella vita degli altri componenti della famiglia.
assistenziale morale e materiale minimo al di là del quale opera esclusivamente la coscienza del coniuge, al quale di certo la legge non può imporre un comportamento che risulti per lo stesso insostenibile. Nella separazione giudiaziale l'opposizione di uno dei due coniugi non vale ad impedire la separazione ma può tutto al più rilevare in sede di valutazione dell'imputabilità della crisi coniugale.
Anche la Cassazione, segnatamente nella sentenza 9 ottobre 2007, n . 21099, ha specificato come pur dovendo la separazione trovare fondamento ex art.151 c.c. in situazioni di intollerabilità della convivenza oggettivamente apprezzabili e giuridicamente controllabili, per la sua pronuncia non è necessario rilevare una situazione conflittuale riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi.
E' infatti sufficiente una frattura dipendente dalla condizione di distacco spirituale e disaffezione di una sola delle parti.
A questa conclusione, la Suprema Corte, è arrivata anche facendo leva sui principi costituzionali di cui gli artt. 2 e 29 Cost., entrambi riconoscono infatti, se pur con declinazioni diverse, i diritti fondamentali dell'individuo: l'art. 2 afferma i diritti fondamentali dell' uomo “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ”, l'art. 29 riconosce invece “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
abbia il diritto di ottenere la separazione e interrompere la convivenza ove, per fatti oggettivi, anche indipendenti dalla colpa dell'altro coniuge o propria, tale convivenza sia per lui diventata inaccettabile rendendo impossibile lo svolgimento della propria personalità in quella società naturale costituita con il matrimonio che è la famiglia. L'altro presupposto a cui si ancora l'esperibilità del rimedio della separazione giudiziale e individuato dall'art.151, comma 1 ,c.c., fa riferimento a fatti che arrecano “grave pregiudizio alla prole ”.
In realtà tale requisito ha animato fortemente il dibattito in dottrina. La discussione verteva infatti sulla formulazione letterale e sull'interpretazione da dare all'articolo in questione che collega i presupposti della separazione- ovverosia l'intollerabilità della convivenza e i fatti tali da arrecare un grave pregiudizio alla prole- con una “o” disgiuntiva.
Questo faceva pensare che il pregiudizio della prole non dovesse essere un derivato dell'intollerabilità della convivenza ma un'alternativa a questa, venendo sennò a perdere di significato l'individuazione autonoma di questo secondo requisito.
Si riteneva dunque che la disposizione codicistica facesse riferimento al caso in cui vi fosse un pregiudizio all'educazione della prole ma non un'intollerabilità della convivenza.
sarebbero entrati in gioco i rimedi a tutela dei figli previsti dagli artt.330 ss. c.c..
In conclusione, il presupposto in esame non sembra avere un'autonoma rilevanza, venendo a costituire nient'altro che una manifestazione indiretta dell'intollerabilità della convivenza31.
In ogni caso, come dimostra la mancanza di specifici riscontri giurisprudenziali, la questione non appare avere concrete ricadute applicative.
1.2.1 L'addebito della separazione.
Un'altro punto focale nella disciplina codicistica della separazione giudiziale è rappresentato dall'addebito della separazione regolato dall'art.151,comma 2, c.c.
Esso prevede che, su richiesta di uno dei coniugi il giudice possa, qualora ne ricorrano le circostanze (cioè qualora ci sia stato un comportamento contrario ai doveri del matrimonio), addebitare la separazione all'altro.
La pronuncia di addebito comporta effetti sfavolevoli per il coniuge che in modo volontario e cosciente abbia violato gravemente gli obblighi matrimoniali causando un'intollerabilità della convivenza per 31 Grassetti, Commento all'art.151 c.c., in comm.carraro,oppo,trabucchi,
l'altro.
Nel valutare la richiesta di addebito il giudicante deve tener conto non solo del comportameto della parte che ha violato i suddetti obblighi ma anche della situazione globale che nel momento della violazione esisteva tra i coniugi.
In tal modo non sarà ad esempio addebitabile la violazione degli obblighi matrimoniali consumata in un contesto di convivenza già intollerabile32.
Bisogna sottolineare come la violazione commessa da una parte non legittimi la violazione degli obblighi matrimoniali da parte dell'altra. Così, ad esempio, la giurisprudenza esclude che l'infedeltà possa essere “giustificata” quale reazione a comportamenti dell'altro coniuge.
Risulta invece legittimo l'abbandono della casa familiare come reazione ad un comportamento illecito dell'altro coniuge.
I casi che possono essere alla base dell'addebito della separazione sono molto vasti.
Bisogna precisare che ci sono dei fatti addebitabili ai coniugi in cui il dolo-cioè la volontarietà della condotta ed il proposito e la consapevolezza di violare il dovere coniugale- appare di chiara evidenza (si pensi all'adulterio), ma ve ne sono altri in cui i contorni sono meno precisi ed in cui ben difficilmente potrebbe ravvisarsi un
comportamento doloso anche se la condotta può apparire come colpevole.
Infine ci sono alcune ipotesi dove appare difficile ravvisare anche una semplice condotta colpevole, (si pensi alle minacce).
E' necessario precisare che la condotta del coniuge può sostanziarsi non solo in un comportamento attivo (es. minacce) ma anche passivo (es. rifiuto del rapporto sessuale33).
Rientrano perciò tra i casi più comuni di addebito della separazione i maltrattamenti del coniuge o della prole, le ripetute ingiurie o denigrazioni, l'infedeltà reiterata, l'abbandono ingiustificato della casa familiare ecc.
I principali effetti derivanti dall'addebito della seprazione sono costituiti dalla perdita dei diritti successori nei confronti dell'altro coniuge e al mantenimento del solo diritto all' assegno vitalizio se, al momento dell'apertura della successione, il coniuge a cui è stato imputato l'addebito godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.
L'assegno in tal caso sarà proporzionato alle sostanze ereditarie e alla qualità e numero degli eredi legittimi. In ogni caso non potrà mai essere superiore alla prestazione alimentare goduta ex art.548,comma 2, c.c..
33 Francesco Scardulla, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Quinta edizione, Giuffrè Editore , pag.79
Un'altro effetto è quello della perdita del diritto al mantenimento ex art.156 c.c., del coniuge a cui sia stata addebitata la separazione e che non abbia adeguati redditi propri.
Egli conserva solo il diritto agli alimenti, qualora ne ricorrano i presupposti.
La tassatività degli effetti dell'addebito ha fatto si che nella pratica il coniuge economicamente più debole e quindi non obbligato al mantenimento dell'altro, non domandasse l'addebito della separazione se pur in presenza di gravi violazioni degli obblighi coniugali commesse dal patner, preferendo la via più breve della separazione consensuale.
In tempi recenti, una parte della giurisprudenza ha riconosciuto la possibilità, di fronte a violazioni di obblighi coniugali che integrino lesioni a diritti fondamentali della persona, di domandare oltre che all'addebito della separazione anche il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.34
1.3 Gli effetti derivanti dalla separazione personale dei coniugi.
L'art. 37 della l.19 maggio 1975 n.151 ha modificato il testo originario
dell'art.156 c.c., limitandone i contenuti.
Ciò è evidente anche solo guardando alla rubrica dell'articolo che è stata mutata da “Effetti della separazione” in “Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi”.
Anteriormente alla novella, il primo comma stabiliva che “Il coniuge che non ha colpa nella separazione personale, conserva i diritti inerenti alla sua qualità di coniuge che non sono incompatibili con lo stato di separazione”.
All'ultimo comma si prevedeva inoltre la possibilità di vietare alla moglie l'uso del cognome del marito.
Dopo la riforma, tuttavia, la dottrina ha messo in evidenza come il codice disciplini solo gli effetti patrimoniali della separazione escludendo così che tra i coniugi possano permanere obblighi diversi da quelli espressamente considerati.
Così, gli unici obblighi che non si estinguono con la separazione, sono quelli inerenti all'assistenza materiale mentre gli altri, individuati dall'art.143 c.c., vanno necessariamente dissolvendosi35 .
Questa tesi era già stata sostenuta con vemenza in passato da Azzolina 36 che si basava sulla considerazione percui “cessando l'obbligo di coabitazione, sembra logico ritenere che venga meno anche il dovere di assistenza” in quanto “l'assistenza presuppone la coabitazione e 35 Bessone, Alpa, D'Angelo,Ferrando, La famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 1991. 36 Vedi la sua opera , Separazione personale dei coniugi , Torino, 1996.
venendo meno questa non si comprende come potrebbe essere esercitata quella; secondariamente, l'assistenza postula il permanere nella loro integrità dei normali vincoli affettivi, che devono invece presumersi allentati- seppure non del tutto scomparsi- inseguito alla separazione ed ai fatti determinati dalla stessa”.
Nella stessa direzione di Azzolina si pone, in tempi più recenti, anche Gazzoni il quale ritiene l'obbligo di assistenza morale e di collaborazione manifestazioni di affectio coniugalis incompatibili con lo stato di separazione, salvo che tali obblighi non coinvolgano i figli.37 Di contrario avviso invece, F.Scardulla che ha notato che così leggendo la novella del '75 in realtà si arriva a dare un interpretazione riduttiva del dovere di assistenza trascurando di considerare che i coniugi sono tenuti, fin quando non interviene una pronuncia di scioglimento del matrimonio, a darsi non soltanto l'assistenza economica (quando essa si riveli necessaria) ma anche l'assistenza spirituale che anzi, sembrerebbe prevalere sulla prima38 in forza del fatto che i coniugi separati non possono in alcun modo considerarsi estranei l'uno all'altro, in ragione del sentimento affettivo che li ha spinti al matrimonio (e ciò sia quando essi auspichino ad una riconciliazione, sia quando si propongano di addivenire allo scioglimento del matrimonio), specie in
37 Gazzoni, Manuale di diritto Privato, Edizioni scientifiche italiane, pag 382. 38 F.Scardulla, Separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Quinta edizione,
presenza di figli.
Una posizione intermedia a quelle sopra dette è invece sostenuta da Zatti il quale evidenzia come “la permanenza del vincolo determina e qualifica l'interesse di ciascuno ad una condotta dell'altro tale da preservare, da un lato, valori di riserbo e dignità personale, dall'altro condizioni di lealtà e correttezza nello svolgimento dei residui rapporti, infine un minimo di solidarietà connesso alla situazione di non estraneità delle due parti”39 e giunge così alla conclusione di escludere “la permanenza di elementi di assistenza morale se non sotto il profilo del reciproco rispetto, o in evenienze particolari, nelle quali sembra inaccettabile il rifiuto di una solidarietà residua, minima, ma non riferibile a comuni doveri di soccorso” 40.
A prescindere dalle varie interpretazioni dell'art.156 c.c. proposte dalla dottrina, il legislatore ha esplicitato alcuni effetti derivanti dalla cessazione della coabitazione dei coniugi che si riverberano sui loro rapporti personali.
Tra questi, particolarmente importante è il venir meno della presunzione di paternità del marito rispetto al figlio nato oltre trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla omologazione di separazione consensuale.
Rispetto all'articolato precedente alla novella del '75, inoltre, non si 39 Zatti, La separazione personale, op.cit. pag.205
impedisce più alla moglie di far uso del cognome del marito salvo quando ciò risulti gravemente pregiudizievole al marito stesso che pertanto faccia richiesta all 'organo giudicante per impedirlo.
Degna di nota è anche la previsione per cui non si applicherebbe la causa di non punibilità, prevista dall'art. 649 c.p. con riguardo ai delitti contro il patrimonio: la separazione personale rende punibili tali reati a querela del coniuge offeso ex art. 649, 2 comma, c.p..
In merito a quelli che sono gli effetti derivanti dalla separazione che si riverberano sui rapporti patrimoniali tra i coniugi, bisogna sottolineare come la separazione faccia venir meno la comunione legale mentre non ha alcun effetto sul fondo patrimoniale, sull'impresa familiare e sulla tutela previdenziale (posto che il coniuge separato, se titolare del diritto all'assegno di mantenimento, ha diritto alla pensione di reversibilità nonché al trattamento di fine rapporto e all'indennità per il caso di morte41).
Tra gli effetti patrimoniali, particolarmente rilevante appare l'obbligo di un coniuge di corrispondere all'altro, a cui non sia stata addebitata la separazione e che abbia un reddito inadeguato al proprio sostentamento, una somma di denaro, detta assegno, a volte integrata dal conferimento di beni in natura (ad esempio da prodotti agricoli, derrate, ecc.) e dal godimento di beni immobili o mobili in ragione
della situazione economica delle parti.
Tale assegno può prendere il nome di assegno provvisorio, se corrisposto in ragione del provvedimento presidenziale, di assegno di mantenimento ,se fissato con la sentenza che afferma l'addebitabilità della separazione al coniuge tenuto al mantenimento o di assegno alimentare se fissato con la sentenza che afferma l'addebitabilità della separazione al coniuge alimentando o ad entrambi.
Anche quello convenuto tra i coniugi in sede di separazione consensuale è detto assegno di mantenimento.
Il presupposto, (necessario per accedere all'assegno), dell' “inadeguatezza del reddito proprio” deve essere valutato rispetto al tenore di vita goduto dai coniugi durante la coabitazione.
Questo vuol dire che sarà riconosciuto solo quando tra i coniugi esista una disparità economica tale da far si che la separazione impedisca ad uno di essi di mantenere, sulla base dei suoi soli redditi, il tenore di vita matrimoniale.
Molte discussioni sono sorte in dottrina a causa della poco felice dicitura dell'art. 156 c.c., che dispone (come appena detto) che il giudicante, pronunciando la separazione giudiziale dei coniugi deve stabilire a vantaggio di quello cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora non abbia redditi propri .
Non c'è stata concordia nello stabilire i casi da cui deriva il diritto alla corresponsione dell'assegno di mantenimento.
E' pacifico che il coniuge a cui è stata addebitata la separazione ha diritto a vedersi solamente corrisposti gli alimenti, qualora ne ricorrano i presupposti e, al contrario, il coniuge cui è stata addebitata la separazione deve corrispondere all'altro, privo di adeguati redditi propri, l'assegno di mantenimento, sempre che ne sia stata fatta espressa richiesta.
La dottrina appare invece contrariata sul riconoscere il diritto del coniuge (privo di redditi propri) al mantenimento qualora la separazione sia stata pronunciata esclusivamente perchè si erano verificati fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole, nel caso in cui detto coniuge non abbia chiesto una pronuncia dell'addebito o la domanda al riguardo spiegata non sia stata accolta, essendosi ritenute non provate le circostanze addotte a sostegno della stessa. Sul punto Barbiera, ha osservato che alla fattispecie normale di separazione configurata nella separazione senza addebito, intesa come “separazione senza questione di addebitabilità, corrisponde l'effetto normale del diritto agli alimenti” mentre “ alla separazione speciale, per l'avvenuta introduzione della questione di addebito, corrisponde l'effetto speciale del diritto al mantenimento che non compete al
richiedente cui sia addebitabile (anche congiuntamente all'altro) la separazione42”.
In senso contrario si pone invece Santosuosso, il quale ha osservato che anche se nell'art.156 c.c. “non sono ben distinti i due tipi di separazione, non c'è motivo per non ritenere applicabile la norma del primo comma anche nel caso in cui il giudice si limita a pronunciare la mera separazione senza addebito, per intollerabilità della convivenza o per pregiudizio all'educazione della prole” 43 .
La giurisprudenza si è trovata in linea con questa seconda tesi ed è venuta a sostenere che in linea di massima “la separazione non si colora di elementi di riprovevolezza a carico di uno dei coniugi, ed in questa situazione di fondo si è voluto assicurare a ciascuno di essi il diritto al mantenimento” con la conseguenza che non sarebbe “esatto ritenere che in caso di separazione senza addebitabilità ciascuno dei coniugi è tenuto a mantenersi con i suoi mezzi e soltanto in caso di bisogno può attivare l'obbligo alimentare a carico dell'altro, ma deve all'opposto affermarsi che il mantenimento può essere richiesto dal coniuge cui non sia addebitata la separazione, a prescindere dall'addebitabilità all'onerato44.”
Il concetto, concludendo, è quindi che il coniuge incolpevole che si
42 Vedi Barbiera, Il divorzio dopo la riforma del diritto di famiglia , Bologna, 1979. 43 Vedi Santosuosso, Il matrimonio, Utet giuridica, cit. pag. 1052.
trovi nella situazione descritta dall'art. 151, comma 1, del c.c., deve continuare a godere della stessa situazione goduta in costanza di matrimonio come proiezione della persistenza del vincolo coniugale e del dovere di assistenza che lo accompagna.
2. Il divorzio : profili storici ed evolutivi.
Il divorzio è l'istituto giuridico introdotto con la l. n. 898/1970, che permette lo scioglimento, nel caso in cui il matrimonio sia stato contratto con rito civile, o la cessazione degli effetti civili, nel caso in cui sia stato celebrato un matrimonio concordatario, del vincolo matrimoniale.
Esso rappresenta uno dei momenti più importanti nell'evoluzione che la disciplina della famiglia, sostanzialmente immutata dall'epoca delle grandi codificazioni, ha subito negli anni '70.
Con la legge sul divorzio si attua il passaggio dalla famiglia intesa come istituzione alla famiglia intesa come formazione sociale. Nella considerazione che il legislatore aveva della famiglia era divenuta preminente la garanzia dei diritti individuali e il rispetto della personalità dei suoi membri.
La famiglia passa così dall'essere “il fondamento dell'ordine sociale” all'essere “il luogo dove le persone realizzano insieme un insostituibile
esperienza di vita”. 45
E' proprio con la legge del 1970 che prende avvio il procedimento di “privatizzazione” del diritto di famiglia destinato a toccare il suo apice nella riforma del 1975.
L'italia arriva relativamente tardi alla scelta divorzista.
Le leggi della rivoluzione francese, che introducono in Francia il divorzio, hanno una vita effimera in quella parte di Italia che per breve tempo vi è soggetta.
Il codice civile del 1865, se pur ispirandosi ad una concezione laica dello Stato e del matrimonio, fa proprio il principio di indissolubilità. Tale modello non viene intaccato dalla stipula del Concordato lateranense del 1929 e dalla redazione del nuovo codice del 1942 che, al contrario, danno ancora più respiro alla concezione pubblicistica della famiglia46.
Solo grazie a pochissimi voti, in assemblea costituente, il principio di indissolubilità non entra a far parte del testo costituzionale.
Le iniziative parlamentari per introdurre il divorzio in Italia, già presenti nell'800,47riprendono con fervore nel secondo dopoguerra e, dopo un dibattito molto acceso in Parlamento e nella società civile, si
45 G.Ferrando, op. cit. pag.127.
46 Si pensi all'opera di Antonio Cicu “ Il diritto di famiglia. Teoria generale.”, Roma, 1914.
47 Galoppini, Profilo storico del divorzio in Italia, Commentario sul divorzio, Milano, 1980.
arriva, nel dicembre del 1970, all'approvazione della legge Fortuna-Baslini (dai nomi dei suoi proponenti).
Con questa legge il diritto fa un passo indietro e si limita a verificare l'irrimediabilità della frattura all'unità della famiglia e a disciplinarne le conseguenze.
Il modello di divorzio accolto dalla legge del 1970 è quello del c.d. “divorzio-rimedio”, comune a gran parte delle legislazioni europee, e ha come fondamento il venir meno della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, comunione che non può essere ricostituita a causa del verificarsi di alcune ipotesi tassative previste dal legislatore stesso all'art. 3 della suddetta legge.
Ad un principio generale si va affiancando quindi un'elencazione tassativa di circostanze molto eterogenee tra di loro e, tra le quali, difficilmente si riesce a trovare un fil rouge.
La tassatività in realtà è però più apparente che reale: dall'esperienza applicativa emerge infatti come la causa preponderante di divorzio sia costituita per il 90% dalla protrazione per tre anni della separazione che porta a considerare irrimediabile il fallimento dell'unione.
La scelta del legislatore italiano del divorzio come rimedio al fallimento dell'unione, (e del conseguente rifiuto di un divorzio meramente consensuale), si spiega nell'esigenza di voler stabilire un punto di equilibrio tra libertà delle persone- che deve essere
valorizzata- e stabilità del vincolo- che non deve essere sminuita.
La legge n. 898/1970 è successivamente modificata dalle leggi n.436/1978 e 74/1987, che vanno a valorizzare i profili di autonomia e di libertà dei coniugi e, allo stesso tempo, ad accentuare quelli di responsabilità nei confronti del coniuge debole e dei figli.
Si va infatti ad eliminare da prima la facoltà del coniuge, contro il quale la domanda di divorzio è rivolta, di proporre opposizione verso la stessa, e poi, con la novella del 1987 si diminuisce il tempo di separazione utile per chiedere il divorzio da 5 anni a 3 anni.
Si introduce inoltre la previsione del divorzio a domanda congiunta. All'ampliarsi della libertà e dell'autonomia delle parti, fa però da contrappunto una disciplina delle conseguenze del divorzio che va rafforzando la solidarietà post coniugale con garanzie più forti per il coniuge che sul matrimonio ha costruito il proprio progetto di vita, ridimensionando o rinunciando ad autonome prospettive di affermazione personale. Così nell' intento del legislatore della riforma, l'assegno a carico dell'eredità, la pensione di reversibilità, il diritto all'indennità di una quota di fine rapporto rappresentano i punti salienti di una più intensa tutela del coniuge debole.
Con la novella del 1987 si vanno a fare delle modifiche alla previgente normativa introducendo una visione dell'assegno spiccatamente assistenziale, un adeguamento automatico dell'assegno per il coniuge e
la prole, più incisivi poteri di indagine sui redditi delle parti riconosciuti al giudice e una maggiore snellezza ed agilità per la corresponsione diretta dell'assegno da parte del datore di lavoro.
Allo stesso tempo si accentuano i profili di disponibilità dei diritti riconosciuti al coniuge, come attesta da una parte il rilievo che ha l'accordo in sede di divorzio congiunto e dall'altro la possibilità di regolare in un unica soluzione, mediante corresponsione una tantum, le reciproche pendenze, evitando che si prolunghi sul piano patrimoniale un rapporto esaurito sul piano personale, e dando un assetto definitivo ai reciproci interessi, insensibile rispetto al sopravvenire di circostanze nuove.
2.1 Le cause di divorzio.
Come accenato nel paragrafo precedente, l'art. 3 della legge n. 898/1970 contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui i coniugi possono fare domanda di divorzio.
Le c.d. cause di divorzio legislativamente previste sono cinque, cioè: • La separazione personale dei coniugi per un periodo di tempo
non inferiore a tre anni (art.3, n.2 , lett.b).
Si tratta di un lasso di tempo minimo calcolato a far data dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale, trascorso
il quale, si può presumere la non reversibilità della crisi coniugale con conseguente potere dei coniugi di far domanda di divorzio.
La separazione in oggetto deve essere di tipo legale, in quanto nell'esperienza italiana, non rileva la separazione di fatto (ad eccezione del caso, ormai del tutto residuale, in cui essa fosse iniziata due anni prima del 18 dicembre 1970, data di entrata in vigore della legge). Occorre inoltre, in caso di separazione giudiziale, che la sentenza sia passata in giudicato.
Inidonee a costituire presupposto per il divorzio sono anche le separazioni provvisorie disposte dal presidente del Tribunale nel corso dell'udienza presidenziale del procedimento di separazione (che conservano la loro efficacia anche inseguito all'estinzione del procedimento), e la separazione temporanea, disposta in sede di annullamento del matrimonio ex art. 126 c.c.
• Il fatto che l'altro coniuge cittadino straniero abbia ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all'estero nuovo matrimonio (art. 3, n.2 , lett.e). Prima della legge del 1970 il cittadino/a che avesse sposato una straniera/o non solo non poteva ottenere, secondo la legge italiana, il divorzio, ma neppure poteva ottenere la delibazione della sentenza straniera di divorzio, restando così legato/a a un matrimonio ormai privo di effetti per l'altro coniuge. Per sanare questa situazione di
disparità (tra lo straniero, libero di crearsi all'estero una nuova famiglia e l'italiano, privato ormai della regolare convivenza familiare ma ancora giuridicamente coniugato rispetto all'ordinamento interno), si introdusse con la suddetta legge, una specifica causa di divorzio che trovava attuazione tutte le volte in cui il coniuge, cittadino straniero, avesse ottenuto l'annullamento all'estero, lo scioglimento del matrimonio o avesse contratto nuovo matrimonio fuori dall'Italia. In questi casi il coniuge italiano non è più costretto ad aspettare, per riottenere la libertà di stato, il trascorrere del periodo previsto per la separazione personale ma può direttamente chiedere il divorzio.
• L'inconsumazione del matrimonio (art.3 ,n.2 , lett.f).
Questa causa di divorzio trova la sua origine nel diritto canonico ove il matrimonio era considerato volto prevalentemente alla generazione di figli (bonum prolis).
In quell'ordinamento il matrimonio rato e non consummato48 poteva essere oggetto di dispensa ecclesiastica che, a sua volta poteva essere resa efficace nell'ordinamento statuale inseguito a delibazione della Corte d'Appello (questo almeno fino alla sent. della Corte Costituzionale dell'aprile del 1982, che ha dichiarato illegittima la norma sull'esecutività della dispensa super rato).
La previsione di questa causa di divorzio voleva quindi sopperire alle