• Non ci sono risultati.

Mestre tra post immigrazione, rappresentazioni dell’insicurezza e tensioni sociali

2.1 Caratteristiche della presenza di stranieri residenti nella regione Veneto

2.1.7 Mestre tra post immigrazione, rappresentazioni dell’insicurezza e tensioni sociali

Via Piave è la strada che collega la stazione al centro di Mestre e fa parte della località Piave 1860, area antistante alla stazione compresa inoltre tra Via Trento, Via Carducci, Via Miranese, Via Costa, Via Altobello, Via Kolbe e Via Longhin. Tale area non è considerata quartiere in senso amministrativo, ma è considerata tale dai residenti che la abitano (Mantovan, Ostanel 2015).

Tale località si estende per 14,25 chilometri quadrati e vi risiedono circa 21.000 abitanti di cui circa 5000 stranieri i quali rappresentano quindi al 2010 il 24% della popolazione totale di quest’area.

La composizione della popolazione immigrata per nazionalità in questa zona circoscritta del territorio mestrino vede al primo posto cittadini di origine bengalese (27%) seguiti dalle collettività cinese (19%), moldava (11%), rumena (7%), ucraina (6%), e la cui distribuzione per fasce d’età vede una popolazione mediamente giovante in quanto il 50% del totale delle presenze è composto da persone comprese nella fascia19-40 anni (ibidem).

Inoltre, il 25% degli esercizi commerciali ivi presenti per il 25% è di proprietà di imprenditori di origine immigrata (Bizzarrini 2011).

Alla presenza di una popolazione di origine immigrata mediamente giovane si accompagna invece un trend di progressivo invecchiamento della popolazione con cittadinanza italiana con la classe d’età degli over 65 che si attesta al 32%, seguiti dalla fascia 41-64 che costituisce il 36%. Le ragioni di tale invecchiamento in una delle aree di più antica urbanizzazione del comune di Venezia si inscrivono nella mancata possibilità dei suoi residenti storici di cambiare luogo di residenza dovuta alla svalutazione degli immobili che si intreccia a ragioni di carattere affettivo e logistico (Mantovan, Ostanel 2015).

Tale area della municipalità di Mestre, grazie alle caratteristiche attrattive di quest’ultima di cui abbiamo già parlato nel secondo capitolo della nostra ricerca, è stata teatro di arrivi rapidi e consistenti di popolazione immigrata che non hanno

59 permesso i normali tempi di adattamento da parte del territorio, un territorio che come abbiamo visto sta subendo un processo di invecchiamento, suscitando così nei residenti autoctoni una percezione di invasione ed espropriazione dei propri spazi da parte dei residenti autoctoni.

Questa sensazione di invasione de propri spazi si accompagna ad una conseguente percezione di degradazione dell’area, alimentata dalle narrazioni dei media mainstream e del discorso pubblico.

Nelle rappresentazioni personali della realtà in cui viviamo si gioca quindi una tensione tra le nostre esperienze personali e le narrazioni che ci vengono fornite quotidianamente dai media. Tale tensione si acutizza quando la comprensione di un determinato fenomeno è resa particolarmente difficoltosa dalla mancata possibilità o capacità di uno sguardo ravvicinato su di esso, lasciando quindi un eventuale spazio di rappresentazione ai media ancora più pervasivo (ibidem). Comuni preoccupazioni personali, mancanza di sguardi ravvicinati, difficoltà di comprensione dei cambiamenti della realtà urbana di riferimento si possono intrecciare con particolari rappresentazioni mediatiche che cristallizzano tali difficoltà in messaggi che alimentano diffidenza e paure nei confronti della complessità e dell’ignoto.

Tali paure possono successivamente prestare il fianco alle cosiddette politiche securitarie attivate con strategie appunto mediatiche e quindi culturali, nonché normative e poliziesche, presentandosi come un tentativo da parte dei dispositivi di potere di controllare i cambiamenti sociali legati alle trasformazioni attivate dalla crisi del welfare, l’avvento e sopravvento del modello neoliberista e dei processi di globalizzazione (Beck 2000, Sennet 2001, Castel 2004) in cui si inseriscono i flussi migratori e i loro protagonisti e infine le quotidianità degli autoctoni nelle dimensioni micro rappresentate dagli spazi locali.

Tali politiche securitarie e di controllo necessitano della costruzione di narrazioni che individuino nemici pubblici verso i quali orientare la propria azione e per poter giustificare quindi il loro stesso essere e verso i quali cristallizzare quindi le paure della classe media (e medio bassa), nemici pubblici rappresentati dagli immigrati, la microcriminalità e il degrado dei luoghi dell’abitare e del quotidiano (Wacquant 2006, Bauman 2012).

60 Esempi di tali strategie di controllo dei mutamenti sociali contemporanei da parte dei dispositivi di potere e delle affinità elettive di tali politiche con l’azione dei media mainstream, emergono da differenti ricerche, sulle quali ci soffermeremo brevemente, riguardanti le strategie comunicative e linguistiche dei media italiani negli anni ’90 e 2000.

Maneri (1998, 2001) rileva da un punto di vista quantitativo come nella prima metà degli anni ’90 sul quotidiano nazionale Corriere della Sera le parole microcriminalità e sicurezza comparirono 131 volte, e 362 nella seconda metà degli anni ’90, e l’uso negli anni 2000 di una prospettiva dalla quale rappresentare tali fenomeni in cui viene fatto un uso del noi che definisce i migranti come un loro portatore della genesi di tali elementi devianti (Maneri 2009).

A tali ricerche fa seguito la ricerca qualitativa di Faso (2009) che si sofferma sulle modalità di etnicizzazione dei pericoli e minacce urbane i quali vengono ritratti attraverso la selezione di un lessico specifico che possa suscitare allarme sociale nei lettori quali blitz anticlandestini, retata, guerra allo spaccio e altri.

Tale intreccio di politiche sicuritarie e rappresentazioni mediatiche che si traduce nella produzione di discorsi condivisi e senso comune sul tema dell’insicurezza rivela la natura assolutamente non imparziale delle capacità comunicative e performative di istituzioni e media in grado di produrre opinioni, significati e azioni (Russo Spena 2009).

Anche la zona di Via Piave come riportato precedentemente è stata oggetto di rappresentazioni di insicurezza condivise da una parte dei suoi residenti che si sono tradotte in tensioni sul campo sociale, ma sullo stesso campo di emersione di tensioni sociali ai dispositivi di controllo possono prendere vita delle forme di resistenza cognitiva da parte dei residenti che si presentano come la condizione per l’attivazione di contro-condotte al conflitto innescato dai dispositivi di controllo (Foucault 2004).

Su questo sfondo di rappresentazioni urbane dei fenomeni di rapida trasformazione sociale ivi esistenti e sensibili ad una strumentalizzazione mediatica e politica verso la produzione di tensioni sociali, vede la sua genesi e

61 sviluppo l’esperienza artistico musicale che sarà il secondo caso studio della nostra ricerca.

2.1.8 L’intervento delle trascorse amministrazioni veneziane nella prevenzione del conflitto sociale e promozione della partecipazione: ETAM – Animazione di Comunità e Territorio

Il comune di Venezia sul finire degli anni ’80 inaugura un’esperienza che la rende un laboratorio unico in Italia, ovvero l’avviamento di un servizio interno al comune stesso che animasse e stimolasse la partecipazione dei residenti ed abitanti del territorio alla vita di quartiere (Mantovan, Ostanel 2015). Tale servizio fu denominato inizialmente ETAM – Équipe Territoriale Aggregazione Minorile, trasformandosi negli anni in Animazione di Comunità e Territorio pur mantenendo l’acronimo originario.

Il servizio ETAM assumeva direttamente all’interno del suo organico educatori di strada professionisti, senza esternalizzare l’incarico a soggetti privati e istituzionalizzando quindi la figura dell’educatore, i quali ricevettero l’incarico di lavorare assieme ai cittadini del quartiere di Mestre sulla progettazione, consulenza e sostegno e mediazione rivolti alla risoluzione dei problemi presenti sul territorio (ibidem). In questa prospettiva di incontro e interazione di un servizio interno del comune assieme ai cittadini viene svolto quindi un lavoro educativo attraverso il quale scomporre le criticità, ragionare ed avviare soluzioni condivise. Tali iniziative rientrano nel filone teorico, metodologico e professionale del cosiddetto servizio sociale di comunità.

Nell’intercettare le problematicità legate alla vita nel quartiere ETAM svolge quell’azione che Ferrario (1996) considera la raccolta di segnali provenienti dalla comunità locale da parte delle istituzioni attorno a problemi percepiti od esperiti, che devono poi essere restituiti alla comunità locale, con l’obiettivo di rendere quest’ultima una comunità che pur non sostituendosi alle amministrazioni, si presenti infine come competente (Martini, Sequi 1988).

Queste traiettorie delle azioni degli enti locali vengono suddivise in letteratura in differenti approcci, distinti in base alle prassi attivate ed agli obiettivi perseguiti.

62 Ross (1955) distingue le azioni degli enti locali con i membri delle comunità locali in sviluppo di comunità ed organizzazione di comunità.

L’approccio sviluppo di comunità viene tenuto per perseguire l’obiettivo di promuovere il miglioramento delle condizioni di vita della comunità locale attraverso un incremento delle risorse presenti nella comunità stessa. In tali progettazioni ed azioni la popolazione del territorio di riferimento diviene l’interlocutore principale da attivare per sviluppare reti di solidarietà in una prospettiva di tipo partecipativo, in quanto la comunità viene coinvolta nel processo decisionale prima e nell’implementazione degli interventi poi.

L’approccio organizzazione di comunità invece viene tenuto quando gli obiettivi sono orientati alla coordinazione delle capacità della comunità locale di fronteggiare i problemi presenti al suo interno con un’integrazione di risorse e azioni all’interno delle istituzioni e tra istituzioni le quali si presentano come gli attori principali incaricati sia della progettazione che dell’implementazione degli interventi.

A questa macro-distinzione si affianca una definizione più approfondita dei differenti approcci all’intervento a favore della comunità locale individuata da Twelvetrees (1982).

Lo sviluppo di comunità come approccio di lavoro sociale con la comunità secondo l’autore trova la sua ragione d’essere nel supporto ai gruppi, reti, iniziative già presenti sul territorio di riferimento con l’obiettivo di stimolare nuove azioni e progettualità in modo non direttivo, ovvero evitando il condizionamento dei cittadini rispetto alle iniziative ed azioni che essi potrebbero intraprendere. A questo approccio si accompagna quello di social planning, ovvero il lavoro degli enti locali orientato alla pianificazione di progetti e servizi per il territorio, all’interno della quale la partecipazione dei cittadini si sostanzia in una collaborazione con i decision makers e i servizi istituzionali al fine di sensibilizzarli e aumentarne la consapevolezza in merito alle specifiche esigenze della comunità locale.

È in questi due approcci di intervento che si inserisce il lavoro di ETAM sul territorio di Mestre, in quanto nella sua storia in quanto a partire dall’ascolto attivo

63 dei cittadini svolto dagli educatori di strada del servizio si crea la possibilità di far sperimentare agli abitanti del quartiere un esercizio di potere attraverso il quale permettere alle istituzioni di comprendere che la partecipazione non si ferma solo al momento di divulgazione delle informazioni in una direzione top-down, ma passa attraverso una considerazione concreta della prospettiva e rappresentazione di senso dei cittadini.

Tale sperimentazione di un’esperienza di inclusione nel processo decisionale è resa possibile dalla natura stessa di ETAM in quanto emanazione istituzionale ed istituzione a sua volta, che funge in questo da ponte tra cittadini e decisori politici grazie al sua vocazione al lavoro di strada che permette di consolidare così la sua credibilità politica e superare la contraddizione di essere sia istituzione che porta attraverso la quale i cittadini possono presentare in prima persona alle istituzioni le istanze e le criticità del quartiere (Mantovan, Ostanel 2015).

Un esempio di tale esperienza di inclusione della cittadinanza è costituito da un’assemblea tenutasi nel maggio 2006 tra membri della municipalità e residenti del quartiere di Mestre, in cui il comune decise di incontrare le proteste dei residenti in merito a istanze legate alla percezione del degrado e dell’insicurezza sul territorio e coinvolgerli in iniziative concrete assieme al servizio ETAM che fu incaricato di coordinare tali interventi.

Fu così che nacque il Gruppo di Lavoro Piave, composto da alcuni residenti del quartiere e dagli educatori del servizio ETAM, che si pose l’obiettivo di affrontare il tema della sicurezza attraverso interventi di tipo sociale e culturale, in controtendenza quindi alle politiche securitarie che si avvalgono esclusivamente dell’intervento delle forze dell’ordine (ibidem).

Da qui prese vita una rete di piccoli progetti e micro-azioni, sotto la regia del Comune di Venezia, orientate al contrasto delle tensioni presenti sul campo sociale attraverso la promozione dell’incontro, della reciproca conoscenza e della coesione sociale.

Tale iniziativa dell’ente locale rientra in ciò che Selmini (2014) definisce prevenzione comunitaria, ovvero l’insieme di strategie per promuovere la partecipazione dei cittadini al sostegno sociale della propria comunità locale di riferimento, al miglioramento dell’ambiente e forme di sorveglianza informale (noi

64 preferiamo di nuovo partecipazione) che renda possibile il consolidamento delle relazioni e dei legami tra membri della comunità locale.

Esempi dei microprogetti sviluppati negli anni dal Gruppo di Lavoro Piave si trovano nelle iniziative di riqualificazione urbana e riappropriazione collettiva degli spazi del quartiere come la sistemazione delle aree verdi e la creazione di orti sociali in Via Bassinizza, l’inaugurazione di un mercatino del baratto rivolto agli adolescenti in Piazzetta San Francesco, l’organizzazione di allenamenti podistici serali collettivi ed altri interventi. Tra questi spicca inoltre, un lavoro collettivo sulla comunicazione, percezione e rappresentazione del quartiere che si concretizzò nella fondazione del periodico Le voci di Via Piave, quale atto di riappropriazione di un canale per l’autorappresentazione della propria realtà locale in contrasto con le narrazioni dei mass media sulle criticità del quartiere.

2.2 Caratteristiche della presenza di stranieri residenti nella regione