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muscipule] musipule; 6 cupit] tulit [non dà senso; la facilità dell’errore potrebbe essere indizio di poligenia]; IV 26 tua] tuum L, suum N C (derivano da una medesima forma corrotta);

45 ast] est (potrebbe essere poligenetico); 69 iudicet] indicet (fraintendimento paleografico della vocale u con la consonante n); 87 vocem] vitam (l’ipotesi che la lezione vitam, accettabile nel verso per prosodia e significato, possa costituire una variante mi pare ragionevolmente da respingere, non solo perché graficamente vicina alla forma vocem, ma anche perché banalizzante. La possibilità che il poeta nel revisionare il testo in vista dell’organizzazione di una raccolta poetica abbia corretto vocem con vitam per evitare la ripetizione del termine citato poco dopo a v. 92 non è convincente. Vox è infatti il termine chiave dell’argomentazione svolta ai vv. 87-96 ed una sua enfatica ripetizione è poeticamente efficace: il poeta intende dimostrare come la morte possa appropriarsi dei corpi mortali dei grandi scrittori antichi, ma non del loro pensiero, della loro “voce” che continua a riecheggiare attraverso la lettura che i moderni fanno delle loro opere. Che vocem sia la lezione corretta da mettere a testo lo confermano del resto inequivocabilmente il sostantivo spiritus e il verbo sonat che si leggono nel verso successivo.

Sonat in particolare, suggerisce di tradurre spiritus con “voce” e di interpretare l’affermazione

del v. 88 come una puntuale smentita di quella precedente: la voce personale del poeta Pindaro si è spenta nell’abbraccio dell’amato Teosseno, ma quella del suo ingegno continua a risuonare nella contemporaneità per mezzo delle sue opere. Il verbo resonat non avrebbe senso se traducessimo spiritus con “anima”); 153 hic] his (l’avverbio di luogo, ripetuto enfaticamente ai vv. 155 e 161, è trasformato in un aggettivo dimostrativo da concordare al sostantivo patribus); 167 hec] ergo (considero la lezione ergo un’anticipazione della congiunzione che si legge in posizione incipitaria a v. 173, che significativamente è seguita dallo stesso sostantivo omnes che si legge anche a v. 167. L’ipotesi che hec possa essere errore in luogo di ergo per ripetizione dei pronomi precedenti, pare da escludere perché ergo introduce una conclusione nell’argomentazione del poeta ed è improbabile che essa possa essere ripetuta nell’explicit del carme due volte. Anche l’ipotesi che i versi 167 e 173 costituiscano due varianti dello stesso verso pare da escludere. Se è vero che i due versi sono molto simili e ripetono gli stessi termini (v. 167: hec omnes laudant merito mage, sed mage laudant; 173: ergo omnes dicam meritam te

et carmine laudent), di fatto si sviluppano in due riflessioni distinte: l’eccezionalità di Firenze di

concedere premi agli uomini dotti e l’opportunità che essa venga celebrata dagli uomini di cultura, oltre che in prosa, anche in versi); 174 certe] certa (errore prosodico); V 34 et] est (errore di ripetizione di est a v. 33); VI 13 Cous] Cocus (errore prosodico e banalizzante. Ritengo il riferimento all’isola di Cos una colta allusione al poeta elegiaco greco Fileta, autore del quale il Marsuppini avrà verisimilmente conosciuto soltanto il nome attraverso le citazioni di

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A fronte dell’accordo in errore dei tre codici si è accolta nel testo la lezione corretta trasmessa dai testimoni della tradizione extravagante.

Properzio (III 1, 1) e di Ovidio (Ars III 329; il passo è modello per i versi di questa elegia).104 La menzione di Fileta, del resto, è nel verso assolutamente plausibile: il Marsuppini espone un suo personale conone elegiaco, citando i maggiori esponenti del genere in ambito sia latino (Properzio, Tibullo, Gallo, Ovidio, Calvo, Catullo, Varrone Atacino) sia greco (Callimaco, Alceo, Saffo, Anacreonte). Un riferimento a Marziale (Cocus infatti è il tradizionale appellativo con il quale il celebre epigrammista latino è appellato nel Medioevo) non è pertinente, perché rompe l’omogeneità dell’elenco dei poeti elegiaci);105 14 que om.; 25 decipis] deicis (decipere è il verbo che indica l’inganno dell’arte, concetto sottolineato nel verso anche dall’aggettivo falsis riferito a uvis); 31 Praxitelesque] Praxiteles (omissione della congiunzione enclitica); 47 tunc] tum (fraintendimento paleografico del nesso nc con la consonante m; tunc continua la serie anaforica dei vv. 45 e 49); 51 est om.; VII 42 calamos] talamos (fraintendimento paleografico della consonante c con t); VIII 1 disicit] dissicit; 35 est om.; 41 errare] narrare (non dà senso);

56 nam] nunc (confusione tra abbreviature); 66 Rhetei] Rhetaci L, Rethaici N C (derivano da una medesima forma corrotta); 105 gnatam] gnatum (l’errore potrebbe essere dovuto alla ripetizione del termine natum che si legge a v. 101. Che gnatam sia la lezione migliore lo si deduce dallo svolgimento del periodo che inizia a v. 101 e termina a v. 106. Il poeta presenta le atrocità ed i dolori che la guerra arreca al nucleo familiare con dei versi bipartiti, retoricamente elaborati con chiasmi e poliptoti, in cui i soggetti sono ripetuti in ruoli invertiti: a v. 101 il genitore vede il figlio ucciso e il figlio vede il padre ucciso (genitor : natum – natus :

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Fileta (o Filita) di Cos, vissuto tra il IV ed il III secolo a. C., precede cronologicamente Callimaco e ne è il diretto precursore. Chiamato alla corte di Alessandria da Tolomeo I Sotèr come precettore del figlio (il futuro Filadelfo), assunse grande prestigio dopo l’ascesa al trono di quest’ultimo e divenne esponente di punta della nuova cultura, inaugurando la stagione dei poeti-filologi. Si ricorda di lui un perduto volume di (Glosse miscellanee), raccolta di termini tecnici e di vocaboli rari, di cui i poeti potevano servirsi per rendere più grazioso il loro stile, mentre della sua produzione poetica, che secondo la Suda comprendeva «epigrammi, elegie ed altri scritti», possediamo solo alcuni titoli e qualche esiguo frammento. A una donna di nome Bittide (o Battide) pare fosse intitolata, sul modello della Nannò di Mimnermo, una raccolta di elegie, e in metro elegiaco era scritto pure il poemetto mitologico Demetra (menzionato nel proemio degli Àitia), di cui ci restano una dozzina di versi; in esametri era invece il poemetto Hermès, in cui si narravano gli amori di Odisseo e di Polimena, figlia di Eolo, mentre ancora in distici elegiaci erano i (Scherzi), di cui si sono coservati due frammenti (cfr. G. MONACO – M. CASERTANO – G. NUZZO, L’attività letteraria nell’antica Grecia.

Storia della letteratura greca, Palermo, Palumbo, 1998, pp. 540-41).

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Apprezzato dal Boccaccio, Marziale conobbe nell’Umanesimo e nel Rinascimento un largo successo: ne furono infatti curate edizioni e commenti (celebre quello di Domizio Calderini e Poliziano, prima e seconda centuria dei

Miscellanea). Nel Medioevo fu conosciuto prevalentemente attraverso florilegi, che ne isolavano soprattutto i versi

sentenziosi e passi di carattere morale, e con lo strano appellativo Cocus. Le origini del soprannome non sono ancor’oggi del tutto chiare. Il Soverini ritiene che il curioso nomignolo possa derivare da certi elementi e spunti presenti nel poeta che potevano suggerire l’idea di una sua predilezione per la culinaria (P. SOVERINI, Note su Ael.

Spart. Ael. 5, 9 e sui rapporti tra la Historia augusta e Apicio, «Studi italiani di filologia classica», n. s., 49 (1977),

pp. 231-54: 236). Altri studiosi pensano ad una cattiva interpretazione di Epigr. IV (VI), 60, 8 (carmina dicta coci). Una spiegazione fantasiosa ne riporta il Reynolds (L.D. REYNOLDS, Texts and Transmission. A survey of the Latin

Classics, Oxford, Clarendon press, 1982). Già Guglielmo da Pastrengo (prima metà del sec. XIV) lo cita con due

diversi titoli, senza però averlo visto; Geremia Montagnone (primo Trecento) possiede invece due Marziali: uno, il vero, col nome Martialis Cocus, un secondo di un suo imitatore, Godfrey of Winchester (secc. XI-XII), autore di un

Liber Proverbiorum col titolo Martialis Cocus liber undique suscepto (R. WEISS, Il primo secolo dell’Umanesimo.

Studi e testi, Roma, edizioni di Storia e Letteratura, 1949, p. 38; V.ZACCARIA, Ancora qualche riflessione sulle

edizioni delle tre opere latine maggiori del Boccaccio, «Studi sul Boccaccio», 33 (2005), pp. 143-63: 157). Anche

il Petrarca crede a questo nome di Marziale, così citato nella Historia Augusta (Alex. Sev. 38, 1; l’Epigr. V 29,

Contra Gelliam è così introdotto «ut Martialis Cochi etiam epigramma significat») e da lui segnato in margine al

Par. lat. 5816: Martialis Cocus. L’appellativo che accompagnava il nome di Marziale il Petrarca lo aveva del resto incontrato molte volte nelle opere medioevali, tra le quali si può ricordare lo Speculum doctrinale del Bellovacense, un opera in cui lo strano nome dell’epigrammista latino compare un infinito numero di volte. Si tenga tuttavia presente che nell’altro codice della Historia Augusta posseduto dal Petrarca, il Vat. Palat. Lat. 899, allo stesso luogo si legge regolarmente Martialis e non Martialis Cochi (G. MARTELLOTTI, Petrarca e Marziale, in Scritti

petrarcheschi, a cura di M. FEO – S. RIZZO, Padova, Editrice Antenore, 1983, pp. 277-84: 283-84). Il Norcio ritiene che l’invenzione del nomignolo Martianus (cioè Martialis) cocus, che sia stato attribuito a Marziale nel Medioevo da Rodolfo di Diceto, un dotto del sec. XII, che studiò a Parigi, ma visse a Londra (M. V. MARZIALE, Epigrammi, a cura di G. NORCIO, Torino, Utet, 1980, pp. 46-61: 50).

parentem); a v. 103 la sorella piange il fratello e il fratello piange la sorella (soror : fratem – frater : sororem); a v. 104 il marito piange la moglie e la moglie piange il marito (vir : uxorem – illa : virum). Poiché nel secondo emistichio del v. 105 è la figlia a piangere al funerale della

madre (filia : matris), nel primo emistichio dovrà necessariamente essere la madre a piangere a quello della figlia); IX 4 seculi] secli (errore prosodico); 20 bileque] vilique (errore prosodico); 39 longo] longa (errore proodico; l’aggettivo deve concordare con il sostantivo ordine del verso precedente e non con facta che segue dopo); 75 fucus] ficus (non dà senso; fucus è contrapposto all’operosa ape citata a v. 74 per l’inerzia che lo contraddistingue); 78 tum] cum (fraintendimento paleografico della consonante t con c); 83 sit] sic (fraintendimento paleografico della consonante t con c); 91 et om.; tu] te (il pronome è soggetto); XI 1 deferit

con.] deserit (fraintendimento paleografico della consonante f con s), XIX 2 tibi] mihi.

A questa serie di errori ritengo si possa aggiungere anche la variante grafica gnatus per natus di IV 28, che attestata concordemente, tra i molti testimoni del carme, solo da L N C, ha un valore indicativo, anche se certamente non probante, dello stretto rapporto che lega i tre testimoni.

Procedendo nell’analisi dell’apparato di tradizione, notiamo che due soli errori, così banali da far pensare alla possibilità di una poligenesi, accomunano L C contro N:

IV 26 ruraque et] ruraque (errore prosodico); VI 29 iterumque] iterum (omissione della congiunzione enclitica -que); VIII 91 coniunx] coniux (omissione del compendio nasale). Tre, e poco significativi, gli errori che accomunano L N contro C:

IV 22 percoluisse] procoluisse (confusione tra abbreviature); 41 decurrat] decurrant (il soggetto