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UNA POSSIBILE RACCOLTA D’AUTORE *

S 4 L BERTALOT, L’antologia di epigrammi di Lorenzo Abstemio nelle tre edizioni Sonciniane,

2. UNA POSSIBILE RACCOLTA D’AUTORE *

Poiché nella maggior parte dei testimoni le poesie del Marsuppini si trovano sparse in zibaldoni e miscellanee umanistiche, isolate o a gruppi di diversa consistenza, tutt’al più costituiti sulla base di un banale criterio di identità del nome del destinatario, in un ordine arbitrario e mai identico, la prima questione che si pone all’editore è la possibilità di individuare una plausibile ‘raccolta d’autore’.

Il candidato più probabile come ‘contenitore’ di tale raccolta pare il codice Strozzi 100 della Biblioteca Medicea Laurenziana (L).

Il Laurenziano è un codice di piccolo formato, di quarantadue carte più due guardie anteriori e due posteriori, membranaceo, in elegante scrittura umanistica, con le iniziali miniate; è un testimone che merita particolare attenzione non solo perché è il più ampio collettore di carmi della tradizione (ne contiene 22 dei 30 che complessivamente ho rilevato), ma anche perché presenta solo ed esclusivamente opere marsuppiniane. L’aspetto di questo testimone è in tutto e per tutto quello di un codice di dedica, ma niente sappiamo su di esso.74 Neppure il piccolo stemma che troviamo inserito nella decorazione a bianchi girari nel margine inferiore del foglio 1 recto ci aiuta, perché eraso (non ne conosciamo il motivo; forse per il cambio di proprietà del manoscritto?). Tutto quello che si riesce malamente a intravedere con la lampada di Wood è una ‘palla’ all’interno di un cerchio (il che esclude che fosse quello della famiglia Strozzi, contraddistinto da tre lune).75 Potrebbe quindi essersi trattato dello stemma della famiglia Medici, con una palla al centro e tutte le altre (non è possibile quantificarne con esattezza il numero) disposte intorno, così ravvicinate l’una all’altra da formare una linea circolare continua.76 È solo un’ipotesi, ma verosimile, dati gli stretti rapporti che il poeta intratteneva con la famiglia e in particolare con Cosimo.77

Nonostante il primo testo che si legge nel codice sia un’epistola metrica indirizzata a Niccolò V, non ci sono elementi concreti per ipotizzare che L possa essere stato pensato dal Marsuppini come codice di dedica per il papa, il quale, tramite il cubicularius Giovanni Tortelli, tanto lo aveva spronato a sobbarcarsi il gravoso incarico di una nuova traduzione di Omero. Come già detto, le tracce superstiti dello stemma eraso sembrano rinviare all’emblema della famiglia Medici piuttosto che a quello papale. Il fatto stesso che il codice sia tutt’oggi conservato nel fondo Strozzi della Bilioteca Medicea Laurenziana lascia inoltre supporre che non abbia mai abbandonato la città di Firenze, in cui verisimilmente si ritiene debba essere stato allestito. L’ipotesi che il Marsuppini abbia originariamente concepito la silloge per il papa e

*Alcune osservazioni sviluppate in questo paragrafo sono state da me anticipate in I. PIERINI, Per l’edizione dei

carmi latini di Carlo Marsuppini. Una possibile raccolta d’autore, relazione tenuta al Seminario Problemi, esperienze e modelli di filologia umanistica, Prato, Centro di Studi sul Classicismo, 26-28 ottobre 2009 (in corso di

stampa).

74

Se non a un codice di dedica, si può pensare alla copia di un codice di dedica.

75

Cfr. R. CIABANI, Le famiglie di Firenze. Testi e ricerche araldiche, con la collaborazione di B. ELLIKER ed i contributi di E. NISTRI, S. BARGELLINI, F. CARDINI, A. BRUSCHI, A. PIERACCINI, 4 voll., Firenze, Bonechi, 1992.

76

Cfr. L. BORGIA, L’insegna araldica medicea: origine ed evoluzione fino all’età laurenziana, «Archivio storico italiano», 150 (1992-II), pp. 609-39; F. CARDINI, Le insegne laurenziane, in Le tems revient. ’L tempo si rinuova.

Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 8 aprile-30 giugno 1992, a cura di P. VENTRONE, Milano, Silvana editoriale, 1992, pp. 55-74; S.R. MC KILLOP, L’ampliamento dello

stemma mediceo e il suo contesto politico, «Archivio storico italiano», 150 (1992-II), pp. 641-713.

77

Ricordo rapidamente che Cosimo affidò al Marsuppini l’istruzione del fratello Lorenzo e del figlio Giovanni e che nel 1430, insieme a Niccolò Niccoli, lo volle al seguito della sua famiglia, costretta a fuggire da Firenze per lo scoppio di una epidemia di peste nelle città del Veneto e della Romagna. Sappiamo inoltre che Lorenzo de’ Medici si adoperò in prima persona nel 1431 perché il suo maestro ricevesse la cattedra di retorica, poesia, greco, filosofia ed etica nello Studio della città a danno di Francesco Filelfo e che lo stesso Cosimo abbe un ruolo fondamentale nel convincere l’umanista ad accettare il gravoso incarico della traduzione di Omero ricevuto da Niccolò V per il tramite di Giovanni Tortelli (cfr. SABBADINI, Briciole umanistiche, p. 214; ZIPPEL, Carlo Marsuppini d’Arezzo, pp. 10-11; G. ZIPPEL, Il Filelfo a Firenze (1429-1434), in ID., Storia e cultura del Rinascimento italiano, pp. 215-53:

quella posseduta dai Medici ne costituisse solo una copia, non può essere esclusa in assoluto, ma è avanzata in questa sede con molti dubbi. Dal censimento, infatti, non risultano codici Vaticani che contengano la stessa silloge del Laurenziano; l’epistola metrica a Niccolò V introduce di fatto la sola traduzione dell’Iliade, senza far alcun riferimento ai componimenti poetici originali o alla ‘raccolta’ nella sua complessità. Al pari di tutti gli altri testi che si leggono nel codice (come si dirà meglio in seguito), si configura come un scritto autonomo e occasionale, pensato per precedere ed accompagnare esclusivamente la pubblicazione delle versioni latine iliadiche contenute nel manoscritto (in calce reca infatti la parola finis). Si potrebbe forse ipotizzare che il codice, ideato fin dal principio dal Marsuppini come un omaggio ai Medici, sia rimasto sprovvisto di una dedica ufficiale alla nobile famiglia fiorentina per disinteresse al progetto o per il sopraggiungere della morte, e che un lettore tardo, rimasto smarrito, nell’aprire il volume, dalla mancata corrispondenza tra il nome del papa che leggeva nella prefazione alle traduzioni (quello di Niccolò V) e la riproduzione dello stemma nel margine inferiore (quello della famiglia Medici), abbia eraso quest’ultimo supponendo un errore del miniaturista.

Ho detto che questo codice Laurenziano contiene esclusivamente opere del Marsuppini, ma devo correggermi e dire, più prudentemente, che almeno così sembra. Ad una più attenta osservazione il codice presenta, infatti, delle anomalie.

La prima: all’interno della raccolta poetica del Marsuppini (a metà circa del codice) si legge un carme dal titolo Ca. ad .M. Tullium. Questo titolo, che in prima istanza induce a intendere

Ca. come abbreviazione di Carolus (un’abbreviazione di per sé sospetta, dal momento che nei

titoli di tutti gli altri carmi il nome del poeta, nei vari casi, nominativo, genitivo o accusativo, è sempre scritto per esteso), o eventualmente come l’abbreviazione di carmen, introduce in realtà il carme XLIX di Catullo.78 L’inserzione di questo testo in una silloge che a prima vista si configura come esclusivamente marsuppiniana appare davvero strana e difficile da motivare. L’editore dei carmi del Marsuppini deve legittimamente porsi il dubbio se possa trattarsi di una interpolazione e se dunque sia opportuno espungere un testo apparentemente estraneo dal corpus delle poesie propriamente originali.

Seconda anomalia: della stessa raccolta fanno parte anche due brevissimi epigrammi, di due esametri ciascuno, che la ricerca delle fonti ha rivelato essere non il risultato di una personale ed originale elaborazione poetica del Marsuppini, bensì citazioni pressoché precise e puntuali di due versi della Tebaide di Stazio e del Bellum civile di Lucano. Ancora una volta l’editore potrebbe ipotizzare delle interpolazioni.

Per quanto mi riguarda, in questi ultimi due casi, l’ipotesi mi è parsa ragionevolmente da respingere: la presenza di titoli che modificano in modo assai significativo i referenti degli epitafi, infatti, mi ha indotto a ritenere che il Marsuppini possa aver estrapolato, isolato e decontestualizzato le due sententiae dai poemi classici proprio con l’intento di risemantizzarle o attualizzarle. Vediamo nel dettaglio i due testi (cito dalla mia edizione):

In N<icolaum> Picininum et Cerpellonem

Ite, truces anime, funestaque Tartara leto polluite et cunctas Erebi consumite penas!

(cfr. STAT. Theb. XI 574-575)

Cornelia in Pompeium

Libera fortuna mors est; rapit omnia tellus que genuit; celo tegitur qui non habet urnam.

(cfr. LVCAN.VII 818-819)

78

«Disertissime Romuli nepotum, / quot sunt quotque fuere, Marce Tulli, / quotque post aliis erunt in annis / gratias tibi maximas Catullus / agit pessimus omnium poeta, / tanto pessimus omnium poeta / quanto tu optimus omnium patronus»: cfr. CATULLI VERONENSIS Liber, edidit W. EISENHUT, Leipzig, B. G. Teubner, 1983, pp. 47-48.

Nel primo epigramma il poeta non interviene sulla fonte latina con intenti di variatio a livello lessicale, stilistico, tematico; si limita piuttosto ad estrapolare una coppia di versi di senso compiuto dal poema classico, decontestualizzandoli e munendoli di un titolo che attribuisca loro una nuova significazione. Nella Tebaide i due esametri sono infatti un’indignata apostrofe del poeta Stazio contro i fratelli Eteocle e Polinice, i figli di Edipo, eroi di una esecrabile guerra che li ha visti nemici e si è conclusa drammaticamente con la morte di entrambi. Una violenta invettiva, dunque, scaturita dall’orrore per il più nefando delitto, che deplora, nel momento culminante dell’uccisione reciproca, un conflitto fratricida giudicato empio e contro natura. I versi staziani, isolati dal contesto originario, in sé privi di un qualsiasi riferimento esplicito al famoso episodio epico del ciclo tebano, si prestano così, con l’aggiunta di un titolo attualizzante, ad essere riferiti dall’umanista a due personaggi coevi, protagonisti di azioni belliche evidentemente ritenute scellerate. La maledizione del Marsuppini scagliata contro i capitani di ventura Niccolò Piccinino e Ciarpellone pare infatti giustificata da ragioni storiche: dalle guerre e dalle scorrerie che i due andavano perpetrando ai quei tempi per le terre d’Italia con i loro soldati, spesso scontrandosi l’uno contro l’altro su fronti opposti.79

Il paragone istituito con chiaro intento denigratorio tra i due contemporanei uomini d’arme e i mitologici ‘eroi’ staziani non sorprende, posto che a Firenze era particolarmente forte il risentimento contro quei condottieri che, oltre ad essersi contraddistinti per una inusitata crudeltà, anche avevano macchiato la loro condotta con vergognose defezioni o subdoli tradimenti per passare al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti (imputazioni, tutte queste, che accomunano il Piccinino e Ciarpellone), e che gli stessi condottieri e i loro ammiratori/denigratori umanisti erano abituati a citare esempi classici e a confrontarvi le loro azioni.80

Resta un dubbio sulla natura effettiva del carme: se si tratti di una sorta di autentico epitafio, per quanto infamante, scritto successivamente alla morte dei due capitani (entrambi morirono nel 1444, a poco più di un mese di distanza l’uno dall’altro); oppure di uno di quei falsi epitafi impertinenti non rari nella produzione letteraria degli umanisti, come l’irriverenza del tono e l’aggressività del contenuto inducono a sospettare. Poiché il principio de mortuis nil nisi bene non trova necessariamente una sua applicazione nei riguardi dei condottieri defunti, certi risentimenti e odi faziosi perdurando anche dopo la loro morte al solo scopo di offuscarne l’immagine,81 potremmo con cautela pronunciarci per la prima ipotesi e proporre il 1444 come possibile datazione del testo. Per il fatto stesso che in quell’anno il Marsuppini ricopriva la carica pubblica di cancelliere, il carme verrebbe dunque ad esprimere (e, nel caso del Piccinino, sicuramente a ribadire) la condanna ufficiale emessa dalla Repubblica fiorentina contro i due mortali nemici.82

79

Per un profilo di Niccolò Piccinino rinvio alla Vita composta da Giovan Battista Bracciolini, di cui è pubblicata la sola versione italiana in L’Historie et vite di Braccio Fortebracci detto da Montone et di Nicolo Piccinino perugini,

scritte in latino, quella da GIO.ANTONIO CAMPANO, & questa da GIOVAMBATTISTA POGGIO FIORENTINO, & tradotte

in volgare da M.POMPEO PELLINI PERUGINO […], Vinegia, appresso Francesco Ziletti, 1572, cc. 142r-172v (in

particolare le cc. 144rv, 146v-147r, 149rv, 154v, 163v-164r) ed anche a Biografie dei capitani venturieri

dell’Umbria scritte ed illustrate con documenti da ARIODANTE FABRETTI, II, Montepulciano, Angiolo Fumi, 1842 – 1846, pp. 3-157 [ristampa anastatica Forni, Bologna, 1969]; C. ARGEGNI, Condottieri, capitani, tribuni, II, Milano, Istituto editoriale italiano Bernardo Carlo Tosi, 1937, pp. 422-24. Sulla figura di Ciarpellone si veda invece ARGEGNI, Condottieri, I, p. 168 e F. PETRUCCI, Ciarpellone (Zerpellone), in Dizionario biografico degli italiani, XXV, Roma, Instituto dell’Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 216-18.

80

Cfr. M. MALLETT, Il condottiero, in P. BURKE ET AL., L’uomo del Rinascimento, a cura di E. GARIN, Bari, Laterza, 1988, p. 68.

81

Il principio è smentito da numerose testimonianze nel caso, ad esempio, di Braccio da Montone, come si ricava da H.Z. TUCCI, La morte del condottiero: Braccio, i Bracceschi e altri, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia

del Rinascimento. Atti del convegno (Lucca, 20-22 maggio 1998), a cura e con un saggio introduttivo di M. DEL TREPPO, Napoli, Liguori, 2001, pp. 143-63:161-62.

82

Il Piccinino, poiché si era dimostrato un condottiero sleale, nel 1428 era stato condannato dalla Repubblica con sentenza capitale e impiccato in effige, ossia raffigurato sui muri di Palazzo della Signoria con tratti caricaturali ed i piedi appesi ad una catena (cfr. M. MALLETT, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 100).

Veniamo al secondo epigramma. Il titolo Cornelia in Pompeium induce il lettore ad interpretare i due versi come una massima di carattere generale sui rapporti tra morte, fortuna e sepoltura, pronunciata da Cornelia dopo la morte del marito, brutalmente trucidato e rimasto insepolto sulla costa d’Egitto. Completamente diverso il significato dei due esametri nel poema latino. Essi esprimono infatti un commento dell’autore contro la scellerata furia di Cesare: sebbene il comandante romano non si vergogni di godere del massacro che si è appena consumato nella battaglia di Farsalo, negando ai valorosi nemici rovinati il diritto di un degno sepolcro, la natura, contro la sua volontà, si riprende tutto ciò che ha generato, il cielo offre copertura ai corpi che contengono in se stessi le cause del proprio annullamento, un rogo universale (l’ε̉̉κπύρωσις della dottrina stoica) è destinato inevitabilmente a coinvolgere la terra ed i mari. Lucano, insomma, biasima il vincitore di Pompeo perché superbo della propria fortuna, ignaro del fatto che essa pure è sottoposta al dominio assoluto della morte. L’epigramma dunque si inserisce a pieno titolo nella trama epica di Lucano; ma la massima, rispetto alla fonte, risulta riferita ad un episodio dei gesta di Pompeo, quello della morte e dei mancati onori funebri resi dalla moglie al suo corpo straziato (poi arso dal ben più modesto rogo allestito da Cordo: LVCAN. VIII-IX), che nel Bellum Civile è narrato posteriormente alla battaglia di Farsalo (LVCAN. VII). Non solo: il poeta è verisimilmente intervenuto sul testo dell’autore classico apportando anche alcune variazioni a livello grammaticale e lessicale. Rispetto ai due esametri di Lucano «libera fortunae mors est; capit omnia tellus / quae genuit; caelo tegitur qui non habet urnam», troviamo infatti sostituito «fortuna » a «fortunae» e il verbo «rapit» a «capit».83

Si potrebbe forse spiegare la presenza del carme catulliano nel codice come l'oggetto di una risemantizzazione analoga a quella operata per i due distici a cui si è appena fatto riferimento. Il Marsuppini, ad esempio, potrebbe aver identificato in Cicerone un personaggio contemporaneo e aver stravolto il tono ironico e irriverente del poeta classico in uno altamente laudativo.84 La poesia immediatamente precedente, un elogio del Bruni (XI), topicamente esaltato come oratore dalle straordinarie virtù, induce il sospetto che alla figura di Cicerone (personaggio della latinità con il quale il defunto Cancelliere è peraltro esplicitamente confrontato a IV 121-122) possa essere stata sostituita dal Marsuppini proprio quella dell’amico Leonardo. Il copista dello Strozzi 100 potrebbe essersi accorto del ‘plagio’ operato dall’Aretino ai danni di Catullo ed averlo palesato nel titolo con un segnale. Si dovrà necessariamente constatare, infatti, che il titolo del carme come non dice Carolus neppure dice Catullus: l’abbreviazione Ca. potrebbe essere volutamente ambivalente. Evidenti, tuttavia, restano i limiti di una tale ipotesi: in primis il fatto che il nome Marcus Tullius è mantenuto nel titolo e a v. 2, così come quello di Catullo è mantenuto a v. 4; quindi, la consapevolezza che autori come Stazio e Lucano non erano meno familiari di Catullo al pubblico dei lettori colti e che anche nelle rubriche dei carmi III e XIII il copista avrebbe potuto indicare il nome dei due autori classici. Pur restando forti dubbi sulla natura del componimento, che potrebbe essere stato erroneamente inserito in L, perché nell’antigrafo annotato senza distinzione sulla stessa carta contenente il carme XI o XIII, si è

83

Tutti i testimoni manoscritti dell’epitafio (i codici L, Naz. II IX 148 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e Grey 3 c 12 della South African Public Library di Cape Town) presentano concordemente le lezioni

fortuna e rapit; ma questo non ci induce a escludere in modo assoluto la possibilità che possa trattarsi di errori di

tradizione (imputabili all’omissione del segno di dittongo nel primo caso e al travisamento grafico di c in r nel secondo). La lezione fortuna inoltre è registrata nella tradizione del Bellum civile, si potrebbe anche pensare che il Marsuppini abbia letto l’opera di Lucano in un codice che eveva la lezione errata (cfr. ad es. M. ANNAEI LUCANI De

bello civili libri X, edizione critica a cura di D.R. SHACKLETON BAILEY, Lipsiae, B. G. Teubner, 1997, p. 223).

84

Sembra suggerire questa ipotesi la collocazione del carme all’interno del codice, prima dell’epitafio Cornelia in

Pompeium (con cui potrebbe intrattenere una relazione per la particolare tipologia di composizione), dopo l’elogio

in strofe saffiche del Bruni (a cui potrebbe forse collegarsi per il comune destinatario). All’eroe della repubblica romana il Bruni è del resto espicitamente paragonato dal Marsuppini anche ai vv. 121-122 della più famosa elegia funebre.

deciso di non escluderlo dalla raccolta del Laurenziano, ritenendo non del tutto impossibile che la sua presenza nel codice possa risalire alla volontà del poeta.85

Il codice Laurenziano pone anche un’altra questione di autenticità e attribuzione. Esso contiene infatti, preceduti dal titolo Epigramma Bracchii, i seguenti versi:

Transivi intrepidus per mille pericula victor: non acies ferri, non vastis menia muris conatus tenuere meos. Domat omnia virtus.

Si tratta di un noto epigramma elogiativo, che ha avuto una straordinaria diffusione, adespoto o con molteplici attribuzioni, sia dell’autore, sia del morto. La tradizione manoscritta lo identifica con l’epitafio di Muzio Attendolo Sforza da Cotignola, ora con l’elogio di Francesco Sforza duca di Milano, di Braccio da Montone, di Niccolò Fortebracci o del mitico Ercole; i nomi in gara per la paternità del carme sono, accanto a quello di Carlo Marsuppini, quelli di Leonardo Bruni e Giannantonio Pandoni.86 Se il contenuto così vago dei versi (impostato sul motivo topico della virtus personale opposta alla fortuna) impedisce di fatto di trovarvi una sicura caratteristica che permetta ragionevolmente di risolvere la questione delle attribuzioni, la sua collocazione all’interno della raccolta di poesie del codice L sembra un valido motivo per pronunciarsi in favore di un Epigramma Bracchii composto dal Marsuppini. Che il poeta nutrisse grande ammirazione per il condottiero perugino Braccio da Montone è del resto confermato da altre due composizioni che gli sono dedicate (XIV e XXIII) ed è inoltre plausibile ipotizzare che l’attribuzione, assai più probabile, allo scrittore meno noto (in questo caso il Marsuppini) sia passata allo scrittore più famoso (il Bruni).87

Se il Laurenziano raccoglie esclusivamente opere del Marsuppini, non ci sono elementi di assoluta e inconfutabile evidenza che inducano alla conclusione che il codice costituisca un libro architettonicamente e sapientemente costruito: la silloge delle poesie non ha un titolo unitario, neanche generico; si legge di seguito alle traduzioni di Omero (Iliade, libri I e IX 308-421 e

Batracomiomachia) senza alcun segno di soluzione di continuità (questo vuol dire che, se il

libro ci presenta una raccolta d’autore, di questa raccolta devono far parte anche le traduzioni: ma su questo torneremo); ogni singolo testo è inoltre siglato dalla parola finis, il che parrebbe indicare che si tratta di elaborazioni autonome, indipendenti l’una dall’altra. Unico ‘macrotesto’ individuabile con certezza la serie di otto distici scritti dall’Aretino in risposta a quelli che gli ha dedicato Maffeo Vegio: la parola finis conclude non i singoli componimenti, bensì l’intero gruppetto di versi che evidentemente deve considerarsi un tutt’uno a sé stante, isolato alla pari degli altri carmi che si leggono nel codice.

Esclusa la possibilità che il Marsuppini abbia predisposto le sue liriche in una struttura compatta e unitaria alla maniera dei poeti senesi del primo Quattrocento (Hermaphroditus del Panormita, Angelinetum del Marrasio, Cinthia del Piccolomini) ed i canzonieri dei successivi poeti fiorentini (Xandra del Landino, Elegiae del Naldi, Flametta del Verino), pare comunque di poter intravedere nel codice Laurenziano la possibile organizzazione di una ‘raccolta’, ossia