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Uno dei grandi esiti del Minimalismo fu gettare le basi per un’evoluzione degli

environments e delle sculture minimal in un nuovo genere d’arte, ancora oggi molto

controverso, chiamato Installation Art32.

Nonostante sia stata così chiamata molti anni a seguire, la storia dell’installazione ha avuto origine proprio nei fermenti artistici degli anni Sessanta. Alla fine degli anni Sessanta, l’installazione fu spesso confusa con l’arte ambientale, da cui ad ogni modo, assorbì molti spunti. Così andò anche per la prima mostra istituzionale organizzata al Museum of Modern Art di New York nel 1969, dopo le forti pressioni esercitate da parte dell’Art Workers’ Coalition33. La mostra, che inizialmente doveva chiamarsi “Environments”, si chiamò infine “Spaces” (a cura di Jennifer Licht), anche alla luce delle nuove scoperte astronomiche del tempo34. L’aspetto indubbiamente più importante fu che, per la prima volta, le installazioni venivano esposte in un luogo istituzionalizzato, come il museo. Fino ad allora, gli artisti avevano esposto le loro installazioni fuori dai circuiti commerciali e istituzionali, precisamente in spazi “alternativi”, sia per scelta sia perché spesso furono boicottati dal sistema ufficiale.

Alla fine degli Sessanta, fiorirono a New York questi spazi “alternativi”, la cui originale funzione fu riconvertita ad espositiva per rispondere ad una radicale necessità, da parte degli artisti, di uscire dai luoghi convenzionali. Questa volontà di uscire dagli schemi portò alcuni artisti a scegliere luoghi poco raggiungibili e incontaminati, sviluppando così la Land

Art, mentre altri scelsero di rimanere in città, esponendo in spazi normalmente non

deputati all’esibizione artistica. Questa nuova tendenza affondava le sue radici nella dichiarata necessità di indipendenza dal sistema, che molti artisti all’epoca reclamavano. Spesso i musei si dimostrarono non ancora pronti ad effettuare un atto di fede nei

32 Molti autori non sono ancora concordi nel definire l’Installation Art come genere artistico.

33 Influente gruppo di artisti, registi, musicisti, attivo a New York dal gennaio 1969. Il loro scopo era di fare

pressione sulle istituzioni, in particolare sul Museum of Modern Art, affinché gli artisti fossero inclusi in misura maggiore nel sistema dell’arte, attraverso processi democratici e trasparenti.

34 Il 1969 fu anche l’anno del primo sbarco dell’uomo sulla luna. La navicella statunitense con gli astronauti

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confronti dell’artista, la cui opera non più selezionata ante tempo, veniva montata e allestita direttamente sul luogo espositivo a pochi giorni dall’inaugurazione. Così facendo, l’artista e la sua installazione rischiavano di mettere in dubbio alcuni fondamenti del museo, spostando il fulcro del potere decisionale dalla curatela alla produzione artistica, giungendo in questo modo, quasi a trasformare l’istituzione in un laboratorio creativo. In seconda battuta, esporre in un luoghi non neutrali - come lo erano edifici inizialmente nati per altre funzioni - implicava nuove relazioni semantiche e al tempo stesso, non imponeva quella forzata ricezione dell’arte distante dalla realtà, di cui i musei erano i fautori. Gli artisti ebbero la possibilità di sperimentare lontano da ogni limite fisico - facendo buchi sul pavimento, tagliando gli angoli dei muri - e dal peso storico- critico che un’istituzione museo imponeva in ogni confronto. Inoltre, questi luoghi “alternativi” offrirono spazi talmente ampi che un museo spesso non poteva permettersi, nei quali le installazioni potevano interagire liberamente con lo spettatore. Non furono soltanto motivazioni di stampo artistico ma anche di carattere politico, che fecero allontanare gli artisti dai “templi” dell’arte, rei di intrattenere notevoli relazioni con i magnati della guerra in Vietnam, in corso a fine anni Sessanta. Un ruolo di primo piano fu giocato dalla volontà degli artisti, di spezzare la catena del capitalismo e della mercificazione dell’arte, per i quali, installazioni create specificatamente per un luogo, risultavano impossibili da commerciare.

Dopo la mostra del 1969 (“Spaces”), al Museum of Modern Art non ci fu nessuna esposizione dedicata alle installazioni per una ventina d’anni ma solo dei Project Series, che avevano lo scopo di ribadire una sorta di carattere sperimentale del museo, che cercava di proporsi come laboratorio estetico contemporaneo.

Pur non essendo ancora stato accettato ufficialmente nelle collezioni e nelle esposizioni dei circuiti istituzionali, negli anni Settanta l’installazione trovò ospitalità nelle gallerie più attente alla nuove ricerche.

Gli anni Ottanta videro invece, un ritorno ai generi più tradizionali, in particolare a quello della pittura. Nonostante questo leggero affievolimento della tendenza, le installazioni non scomparirono mai del tutto, per fare ritorno in grande stile dalla seconda metà degli

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anni Ottanta. Questa nuova linfa vitale fu alimentata infine dal riconoscimento da parte delle istituzioni di questo genere d’arte, con l’affidamento a Jenny Holzernel 1990, della rappresentanza del Padiglione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia, grazie anche alla presenza massiccia di installazioni a Documenta 9, del 1992 a Kassel in Germania. Oltre a ciò, si aggiunse il fatto che il MoMA (Museum of Modern Art, New York) nel 1991 organizzò la mostra “Dislocations” (a cura di Robert Storr), la prima con installazioni dal lontano 1969, anno di “Spaces”.

Si può affermare che l’installazione fondò un nuovo tipo di arte, perché non risultava incasellabile in nessun altro genere conosciuto precedentemente. E’ evidente che un’installazione non si possa considerare una scultura, giacché fortemente caratterizzata dalla tridimensionalità e dal fatto che, almeno inizialmente, fu pensata per essere un connubio con il suo luogo di creazione. Infatti, il concetto di installazione è sempre stato legato a quello di Site Specificity. Questo termine indica che un’opera è realizzata specificatamente per un luogo, dal quale non può essere rimossa, se non per essere distrutta, come infatti affermò Robert Barry in un’intervista del 1969:

“[l’installazione è stata] fatta per soddisfare il luogo per cui è realizzata. Non possono essere rimosse, se non per essere distrutte”35.

Il concetto di Site Specificity fu chiaramente ripreso dal Minimalismo che, influenzò non poco la relazione dell’opera con lo spazio. Sempre dall’arte minimal e in genere dall’arte ambientale, fu ripresa la concezione del legame d’interazione tra lo spettatore e l’installazione la quale, a sua volta, ha ragione d’esistere se può entrare in contatto con il pubblico. L’interazione a volte crea le condizioni ideali per una trasformazione nell’installazione, elemento che ci trasmette l’idea della quarta dimensione, già preannunciata dagli Happening. Molte sono quindi, le differenze con la scultura

35 R. Deutsche, Evictions: Art and Spatial Politics, MIT Press, Cambridge 1996, XI.

Trad. della scrivente da: “[installation was] made to suit the place in which it was installed. They cannot be moved without being destroyed”.

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tradizionale, oltre ovviamente ai materiali utilizzati sempre più eterogenei e quasi sempre prelevati dalla realtà.

L’installazione e il concetto di Site Specificity si sono evoluti negli anni, in maniera considerevole. Già negli anni Settanta, il concetto si era trasformato gradualmente verso quello di expanded site36, ossia quando un’opera è relazionata al luogo non nel senso fisico ma da un punto di vista contestuale e culturale, rappresentato dal sito. Così avvenne per la Critica Istituzionale effettuata da parte di artisti come Hans Haacke e Daniel Buren.

Se negli anni Settanta, l’inamovibilità dell’opera era parte essenziale del prodotto artistico stesso, oggi questo aspetto viene spesso arginato dagli artisti contemporanei che considerano la loro opera creata, non per un luogo ma in relazione ad un contesto intertestuale. L’autrice Miwon Know individua nel suo libro tre tipologie di site specific:

“nelle pratiche artistiche avanzate negli ultimi trent'anni, la definizione operativa del sito è stata trasformata da un luogo fisico, legato al suolo, fisso, effettivo ad una discorsivo, fluido, virtuale. [...] Così, i tre paradigmi del site specific che ho schematizzato qui - fenomenologico, sociale/istituzionale e discorsivo - anche se presentati in modo cronologico, non sono tappe ordinate di una traiettoria lineare di sviluppi storici”37.

Riguardo al “sito discorsivo”, l’autore James Meyer ne parla chiamandolo functional site, partendo dall’idea che il sito fisico sia solo funzionale ad altri significati:

“In contrasto, il sito funzionale può o non può comportare un luogo fisico. Lo fa non certo

privilegiando il posto [corsivo dell'autore]. Invece, è un procedere, un’operazione che si

verifica tra i siti, una mappatura delle filiazioni istituzionali e testuali degli organismi che si

36 Cfr. J. Meyer, “The Functional Site; or, The Transformation of Site Specificity”, E. Sudeburg (a cura di), in

Space, SITE, Intervention. Situating Installation Art, University of Minnesota Press, Minnesota 2000, p.27

37 K. Miwon, One Place after Another: Site-Specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge,

Massachusetts, London 2004, p. 30

Trad. della scrivente da: “[…]In advanced art practices of the past thirty years the operative definition of the site has been transformed from a physical location- grounded, fixed, actual- to a discursive vector- ungrounded, fluid, virtual. […]Thus, the three paradigms of site specificity I have schematized here- phenomenological, social/institutional, and discursive- although presented somewhat chronologically, are not stages in a neat linear trajectory of historical development”

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muovono tra di loro. Si tratta di un sito informativo, un palinsesto di testi, fotografie e registrazioni video, luoghi fisici e cose: un sito allegorico”38.

Negli anni quindi, il concetto di Site Specificity è progressivamente cambiato fino a perdere quasi totalmente il suo iniziale significato. Rispetto alla riflessione sul riutilizzo di edifici industriali come luoghi per l'esposizione contemporanea, ritengo che molti degli artisti che spesso lavorarono in questi spazi così particolari, abbiano risentito e tutt’ora risentano dell'influenza di sedi così espressive e poco neutre. Perciò, penso che il concetto di Site Specificity così come era stato inizialmente formulato negli anni Sessanta- Settanta, sia per alcune occasioni ancora valido, sopratutto in quei luoghi così caratterizzati da imporre un confronto quasi inevitabile tra l'opera e l'architettura.

38 J. Meyer, “The Functional Site; or, The Transformation of Site Specificity”, cit., p.25

Trad. della scrivente da: “In contrast, the functional site may or may not incorporate a physical place. It certainly does not privilege this place [corsivo dell’autore]. Instead, it is a proceed, an operation occurring between sites, a mapping of institutional and textual filiations and the bodies that move between them. It is an informational site, a palimpsest of text, photographs and video recordings, physical places, and things: an allegorical site”.

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CAPITOLO 2

L’istituzione museale e l’artista contemporaneo

egli anni Cinquanta del Novecento, il rapporto tra artista e museo si incrinò criticamente, mettendo in discussione la definizione delle istituzioni nel campo culturale. La collaborazione tra artista e spazio espositivo, sembrò essere messa in crisi. Specie negli Stati Uniti, gli artisti sentirono il bisogno di poter scegliere e intuirono la possibilità di evolvere la loro posizione, spesso succube nei confronti delle istituzioni. L’artista si emancipò dal potere delle lobby museali, per riprendersi il controllo dell’esposizione delle proprie opere. Negli Stati Uniti, rispetto a questa rinnovata indipendenza espositiva, Donald Judd fu colui che ha seppe dare forma alle sue idee, concretizzandole nel progetto delle Fondazione Chinati a Marfa.

In un rapporto dialettico e contrapposto tra artisti e museo si situa invece, il gruppo della Critica Istituzionale, ramo dell’Arte Concettuale, che fece del confronto critico con le istituzioni, il proprio soggetto artistico.

Nell’economia della mia ricerca, questa visione contrapposta tra artisti e i musei, aiuta a comprendere quali siano le basi storiche e culturali per “un’uscita dai musei” degli artisti, verso realtà alternative per l’esposizione d’arte contemporanea. Grazie alle ricerche e alle battaglie condotte ancor’oggi, ma soprattutto negli anni Sessanta e Settanta dagli artisti di cui si parlerà, si sono potute esplorare strade non convenzionali, che hanno permesso ad edifici nati per tutt’altro scopo di essere considerati sedi ideali per esporre l’arte dei nostri giorni.

31 Fondazione Chinati, Marfa, U.S.A.

I. L’idea dello spazio espositivo per Donald Judd e la Chinati Foundation