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Nazione e nazionalità per via del loro carico di identificazione istaurano un rapporto di inclusione e esclusione incompatibile con il potenziale universalistico contenuto nella cittadinanza. Sovvertire la cittadinanza ha rotto sia il principio egualitario sia l'agire comune universale come libera scelta. La nazionalità esacerba l’identità come base del diritto. Pertanto, le scelte di solidarietà non operano più verso una dinamica di estensione universale, ma a partire dalla nascita: “quel momento delle nostra vite che sfugge alle nostre libertà” (Chemillier-Gendreau, 2005. p. 172 trad. nostra). Anziché un universalismo “intensivo” che coltiva l'uguaglianza, gli stati nazionali europei hanno optato per un universalismo “estensivo” attraverso le conquiste coloniali, allentandosi teorizzando e legittimando la disuguaglianza e l’oppressione delle popolazioni colonizzate.

Il caso italiano esemplifica perfettamente questa tendenza. Fino al 1919, gli indigeni nelle colonie Africane italiane avevano lo status di “sudditi coloniali”. Il loro progressivo accesso a una cittadinanza coloniale rappresentava un grado intermedio tra la condizione di cittadino italiano e quella di straniero. Lungi dell’essere il segno del riconoscimento dei diritti dell’indigeno, tale status rappresentava invece l’inizio di una gerarchizzazione da un lato tra colonie – tale privilegio era riservato alla Tripolitania e alla Cirenaica ma fu negato all’Eritrea e alla Somalia- e dall’altro tra i vari gruppi nelle colonie13.

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All’apice di questa gerarchia si trovavano, se si prende in considerazione soltanto i nativi italiani, i cittadini libici denominati prima « cittadini italiani di Tripolitania e di Cirenaica » (1919), poi « cittadini italiani libici »

58 La cittadinanza coloniale, quanto in Italia che in Francia14, non era

altro che una chiara affermazione del dominio intellettuale e morale del colonizzatore che discriminava tra i sudditi e concedeva ai più civilizzati e i più meritevoli diritti politici. La politica giuridica fascista in Libia, si caratterizza essenzialmente a partire dagli anni Trenta con un netta tendenza a cristallizzare l’alterità coloniale fuori dai diritti cittadini, diminuendo drasticamente i diritti legati alla cittadinanza coloniale e isolando il nativo all’interno del proprio status (Renucci, 2005).

Le crisi della cittadinanza che caratterizzano molti paesi africani e che hanno accompagnato la nascita degli Stati-Nazionali dopo le loro indipendenze sono strettamente connesse al retaggio coloniale (Manby, 2011). In particolar modo, la costruzione della comunità di

destino nazionale si è dovuta confrontare con la grande

eterogeneità delle popolazioni frutto delle ondate di migrazioni forzate e delle sistematiche espropriazioni delle terre compiute dalle forze coloniali (Anderson, 2006). La grande mobilità che ha animato il continente africano per lunghi periodi, ha avuto molteplici ripercussioni e reso particolarmente difficile la costruzione di nazioni autonome (Anderson, 2006; Bakewell, 2009). Molti paesi africani, per scongiurare il pericolo di essere nuovamente invasi e sfruttati da altre popolazioni, hanno disposto delle leggi particolarmente rigide in materia di diritto di nazionalità. I criteri di appartenenza in alcuni casi erano addirittura riferiti alla razza, come nel caso della Sierra Leone o all’appartenenza etnica e linguistica come in Nigeria. Altri paesi nel Nord-Africa, come l’Egitto e il Marocco, hanno disposto leggi discriminatorie in funzione dell’appartenenza religiosa. La Storia dell’Africa post-coloniale dimostra la grande difficoltà a esportare il

(1927) e infine « cittadini italiani libici speciali » (decreto‐legge del 9 gennaio 1939 n°70). Nella continuità di una politica filomusulmana e soprattutto antesimita i governi liberali e di seguito il governo fascista ha mantenuto una distinzione tra sudditi israeliti e sudditi musulmani.

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V. F. Renucci in un’analisi comparativa, stabilisce chiaramente la forte somiglianza tra la legge francese del 4 febbraio 1919 sulla cittadinanza in Algeria e i primi decreti italiani dei 1° giugno e 31 ottobre 1919, entrambi volti all’applicazione del principio dell’assimilazione. V. F. RENUCCI, L’accession des indigènes à la citoyenneté entre assimilation et réformisme : les mesures légales prises par l’Italie et la France en 1919, in Actes du colloque « Sujet et citoyen » (P.U.A.M.), 2004, pp. 393‐420.

59 modello stato-nazionale e applicarlo a popolazioni fortemente eterogenee (Manby, 2011). Non si può tuttavia ignorare che parte di questa difficoltà va imputata al sistema di cittadinanza differenziata ereditato dai coloni occidentali. Nell’epoca coloniale, infatti, la discriminazione razziale determinava i diritti politici, la libertà di circolazione e anche il diritto di proprietà. Dopo le indipendenze, il termine “nativo” o “indigeno” si è mutato in un forte simbolo di appartenenza, mentre il termine “settler” ha acquisito una connotazione negativa (Mamdani, 1996). Tutti gli altri gruppi “spostati” dalle imprese coloniali ma non considerati come nativi furono esclusi dal sistema di nazionalità, creando milioni di “apolidi”, individui senza nazione quindi senza diritti (Manby, 2011). Il concetto di cittadinanza ha mantenuto quindi il suo carattere differenziato, selettivo, nella continuità dell’esperienza coloniale.

Tornando in Occidente, si nota che il rafforzamento della cittadinanza si è sviluppato trasferendo l’alterità oltre i confini delle città e ha dato vita a forme di esclusione e sfruttamento extra- territoriali. L’”altro” era personificato nell’orientale e nell’africano simboli del “Selvaggio”, “inferiore”, concetti centrali delle teorie del razzismo scientifico del periodo coloniale. Questa costruzione teorica dell’alterità ha legittimato l’esclusione e lo sfruttamento di esseri umani proprio mentre il pensiero illuministico si radicava nelle società occidentali.

Forse l’errore era, come lo rammenta Monique Chemillier-Gendreau (2005) “che lo Stato doveva essere più repubblicano che nazionale,

ma non lo è stato da nessuna parte, nemmeno in Francia” (p. 174).

La fabbricazione dell’alterità non ha agito soltanto fuori dai confini territoriali delle nazioni ma ha operato anche all’interno delle democrazie. Le differenze antropologiche hanno relegato il diverso alla frontiera della cittadinanza: la differenza sessuale, la differenza di corpo e mente (che determina la divisione tra “pazzo” e sano di mente e ne legittima l’internamento; oppure la differenziazione tra lavoro manuale e quello intellettuale), le differenze culturali. Queste differenze antropologiche motivano minoranze politiche (il

60 movimento delle donne femministe, il movimento gay e lesbiche, il movimento anti-psichiatrico, i movimenti antirazzisti pregiudicato razze "inferiori" o dei movimenti di decolonizzazione) che sono delle lotte proprie della post-modernità, movimenti per la decostruzione dei limiti antropologici della cittadinanza (Mezzadra, 2004).