Indagando sulle pratiche participative dei giovani del nostro campione, un cospicuo numero di giovani cresciuti o nati in Italia, testimoniano di una ricca attività associativa già risalente al periodo del liceo, durante il quale molti di loro sono stati inseriti in varie associazioni a scopo sociale o culturale, riportiamo di seguito il percorso di Rim
Io sono sempre stata impegnata. Non mi sono mai fermata da quando avevo 14 anni circa. Avevo conosciuto il GMI [Giovani Musulmani d’Italia]. E’ stato molto utile ritrovare persone di seconda generazione, nati in Italia, con lo stesso obiettivo, di conoscersi, di mantenere la propria fede, è stato molto illuminante, mi ha aiutato molto a crescere. Adesso non vado più al GMI, non ne condivido più niente, perché è diventato un ambiente un po’ troppo settoriale. Quando facevo il liceo facevo parte della rete degli studenti medi, associazione studentesca, facevamo manifestazioni, eravamo con la CGIL, seguivo le donne partigiane di Reggio Emilia, era molto bello. Poi si è persa perché erano molto anziane, cercavano di coinvolgere i giovani ma eravamo veramente in pochi, attività molto belle… Per questo che sono molto legata a Reggio Emilia, perché l’ho sempre vissuta, sia dal passato, vedendo la sua storia sia vivendola. Poi in quinta ho mollato la rete degli studenti perché dovevo studiare. In prima superiore faccio uno scambio interculturale in Germania, con un’associazione che si chiama UNET. Ho partecipato a tantissime attività. Ho viaggiato molto anche. Sono stata in Belgio con SVDT. Al secondo anno di Università, ho fatto il doposcuola con i bambini, dalle suore. Per i bambini le cui famiglie avevano
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difficoltà socio economiche noi li aiutavamo a fare i compiti. E’ stata una bella esperienza …già in quarta superiore avevo fatto “Gancio Originale”. C’era lo psicologo della scuola e avevo fatto l’assistente allo psicologo, poi c’era del volontariato con la scuola.
[Part. 1, 22 anni, nata in Italia, studentessa in relazioni internazionali]
Al confronto con una posizione dei genitori completamente estranea a dinamiche partecipative, Rim ha intrapreso nell’ambito scolastico e nella società civile un iter formativo che ha segnato l’avvio di un percorso di apprendimento che è durato nel tempo, fino a essere interiorizzato e assimilato e che continua tutt’oggi a caratterizzare il suo modo di porsi a livello locale, nazionale e internazionale. Questa sua conoscenza e il suo impegno sono stati trasferiti nel suo rapporto con la Tunisia dopo il 2011.
Io sinceramente, vivo in Italia da 14 anni e anch’io ho sentito discorsi razzisti e altro ma non li ho mai incontrati. Sono sempre stata attiva dal punto di vista della cittadinanza attiva, dell’educazione civica fin dalle superiori. Io questi problemi, queste cose non li ho mai incontrati. Fondamentalmente riuscivo a far convivere, ancora prima di diventare cittadina italiana, a 16 anni, la parte italiana e il fatto di essere non italiana, perché sono nata in Tunisia e sono tunisina e non ho mai trovato grandi difficoltà a far convivere queste due cose. Un’identità non ha mai escluso l’altra.
[Part. 35, 26 anni, in Italia dall’età di 2 anni, Studentessa in Cooperazione internazionale ]
Nella testimonianza di Sana è emerso un altro aspetto complementare dell’istituzione scolastica come “scudo protettivo” contro dinamiche di esclusione e di discriminazione. Le attività partecipative offerte della scuola hanno quindi permesso a Sana di inserirsi nella collettività e a fare convivere senza intoppi la diversità di
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cui lei è portatrice. In questo senso la sua esperienza partecipativa nell’ambito scolastico ha avuto un carattere principalmente inclusivo.
Un’altra partecipante, Saloua, è arrivata in Italia all’età di un anno e mezzo con la sua famiglia, ed è cresciuta in Italia, “perfettamente
inserita” nella realtà bolognese della sua città di residenza. Saloua
riconosce che negli anni dell’adolescenza e anche dell’infanzia lei ha vissuto una realtà separata, la sua vita tunisina in casa con i genitori e i fratelli e sorelle e una vita da italiana nell’ambiente extra- familiare. Parlando il dialetto tunisino con i genitori e visitando la Tunisia per le vacanze una volta l’anno, il suo legame con la Tunisia era abbastanza superfluo. “Sapevo di essere tunisina ma questo non
corrispondeva a niente nella mia vita di tutti i giorni, di quello che sentivo io” il che è stato fonte di varie tensioni con i suoi genitroi. È al
momento dell’ingresso all’università che Saloua riscopre il lato tunisino della sua identità e della sua appartenenza, e al primo anno di università decide di intraprendere un corso di arabo e di riappropriarsi della sua appartenenza tunisina, tramite vari elementi culturali, tra cui la lingua… “ Parlavo bene il tunisino, abbastanza
bene. Ma non sapevo né scrivere, né leggere l’arabo e avevo sentito questo come una parte troncata di me stessa e quindi ho deciso di studiare l’arabo classico all’università di Urbino”. Questo processo di
riappropiazione della sua tunisianità iniziato tramite l’acquisizione della lingua è evoluto più tardi verso un maggiore impegno per la comunità tunisina. E Saloua ha trovato il modo di connettere le sue due realtà, italiana e tunisina, proprio nell’ambiente universitario in cui la mescolanza delle persone di origine diversa e la presenza di realtà diversificate le ha permesso di far vivere e convivere le sue diverse appartenenze. Una rivendicazione che lei esprime in questi termini “Io non mi sono per niente annullata, anzi ti dico tengo tutte e
due le parti, perché è giusto così. Io ho due cittadinanze e non le voglio solo sulla carta”.
181 sono essenzialmente legate all’ambiente extra-familiare e non sono state mediate dai genitori. Le istituzioni scolastiche e formative sembrano invece aver avuto un ruolo centrale nella socializzazione dei giovani che abbiamo intervistato, precocemente inseriti nel percorso di scolarizzazione. In assenza di una mediazione familiare, scuole e università con le attività che propongono possono fungere da “istanze integrative” di una cittadinanza intesa in opposizione all’esclusione; una cittadinanza che assume il senso di pratiche e processi partecipativi, definita in modo empirico tramite le sue modalità, strategie e non in una prospettiva di Status. L’azione di tali istanze integrative può inoltre compensare l’eventuale debolezza o inadeguatezza delle capacità educative della famiglia ma anche arginare eventuali conflitti che sorgono nei casi in cui i figli assumono criteri di valutazione e aspettative simili ai coetanei autoctoni e rifiutano le diverse forme di integrazione subalterna, nella quali sono rinchiuse alcune categorie di migranti .
Infatti, indagando sull’impegno dei giovani nati in Italia in associazioni di migranti, legati alla Tunisia, abbiamo rilevato una importante
discontinuità tra le modalità partecipative dei genitori e dei loro figli.
Sono sempre stata abbastanza attiva ma devo dire che non ho mai partecipato ad attività di tunisini, forse perché l’integrazione funziona in questo senso…io per integrarmi cerco di avvicinarmi il meno possibile alla situazione da cui provengo e quindi partecipo alle associazioni, ma non a quelle del mio paese di origine per non essere etichettata come la tunisina che partecipa all’associazione tunisina… forse è così… in un modo o nell’altro io l’avevo interpretato così.
[Part. 5, 30 anni, in Italia dall’età di 10 anni, disoccupata] La partecipazione ad associazioni comunitarie legate alla cultura di origine dei genitori appare nelle parole di questi giovani come un’attività stigmatizzante che li rimanda verso un’identità imposta ma che non corrisponde a quello che sono le loro aspirazioni e le loro
182 prospettive di partecipazione. Infatti, secondo un recente report del progetto « Health for all »44, tranne alcune eccezioni, le associazioni
tunisine in Italia soffrono ancora di una marcata fragilità strutturale e funzionale che ne riducono l’arco di azione e la maggior parte intevengono in campi abbastanza limitati, legati alla gestione di procedure amministrative legate alle popolazioni migranti, o in attività culturali di stampo folcloristico. Una connotazione che i giovani tunisini e italo-tunisini nati e cresciuti in Italia vorrebbero superare al fine di accedere a una piena partecipazione nella società nella quale vivono.
In qualche modo ci spingono, per esempio quando ho fatto il servizio civile mi hanno mandato all’ufficio stranieri, e ho avuto solo 10 arabofoni in tutto l’anno ma per loro dovevo essere lì. Capisce…perché in fondo dobbiamo fare tutti i mediatori, è il nostro ruolo naturale secondo alcuni…
[Part.8, 25 anni, in Italia dall’età di 10 anni, studente in Design]
Rinchiusi nel ruolo ormai a loro assegnato di “generazione ponte” alcuni disertano gli spazi partecipativi, non per desinteresse ma proprio per reazione al mancato riconoscimento della loro volontà di essere parte dello stesso universo sociale e della stessa realtà locale, senza necessariamente essere rimandati di continuo alla loro origine straniera.