• Non ci sono risultati.

4.1.1 “Spiritual” e Cerchi Sciamanic

Capitolo 5. Analisi dei dati e prospettive di Ricerca

5.1 Forme di Appropriazione

5.1.1 New Age, Sciamanesimo e Eco-Villagg

Innanzitutto, la prospettiva dalla quale sono partita per analizzare l’appropriazione è quella della New Age e dello sciamanesimo, inizialmente convinta di avere ben chiaro cosa cercare per scovare processi di appropriazione culturale da parte di finti sciamani bianchi nei confronti della cultura dei nativi americani. Tuttavia, alla luce di quanto si è detto sin qui appare chiaro quanto fossi lontana dalla realtà delle cose, in quanto è impossibile etichettare

a priori una pratica, una performance o un oggetto come New Age. Ciò che rende tali, infatti,

non è l’appropriazione in sé, ma il modo in cui il tratto culturale viene assimilato all’interno della cultura “dominante”. Ne è un esempio la pratica della Capanna del Sudore, che alcuni dei siti online analizzati – come Nemeton – hanno accostato alle saune nordiche, alle irish

sweathouse e alle temazcal sudamericane. Un’altra modalità di appropriazione spirituale riguarda

113

Samuele ed il suo seguito, ma anche Meco. Persino negli eco-villaggi, come quello dei Nativi della Terra o lo Yurt Paradise, esiste una commistione di filosofie e religioni che vanno a formare un pantheon costituito da entità soprannaturali come gli angeli, o native americane come il Wakan, profeti cristiani, guru indiani e maestri spirituali di qualsiasi provenienza.

In particolare, è risultato interessante osservare lo stile di vita di Meco all’interno del suo Villaggio di Aquila Chiazzata al Lago Lungo, in quanto è possibile accostarlo ad un moderno “bodhisattva”. Una guida spirituale che ha ricevuto l’Illuminazione, diventando quello che Izthak (2015) per esempio, definisce neo-sciamano, e che non abbandona il piano terreno dell’esistenza perché ha la missione – quasi evangelica – di aiutare altri a raggiungere la “Verità”. Sia Meco che Gualtiero, infatti, mi hanno parlato di cosa significhi per loro vivere in natura, quanto sia liberatorio e appagante seguire i ritmi degli animali e delle piante, cosa si provi ad addormentarsi cullati dal vento tra le foglie. Allo stesso modo, hanno definito “shock percettivo e sensoriale” il tornare a dormire dentro a quattro mura di cemento. Gualtiero, in particolare, ha ammesso di essersi sentito privato della capacità di percepire, di sentire, o di udire. Per questo, il ritorno alla natura, soprattutto nel caso di Meco, diventa un

habitus improntato all’essere presente, a quello che in filosofia si descrive con “Dasein”. Un

esserci-nel-mondo, presenti a se stessi e a ciò che sta attorno, con le parole dello stesso Meco, un “ascoltare” il mondo e le persone per poter capire le connessioni e i messaggi celati sotto al velo della quotidianità. Per dirla con Bird-David, invece, accostandosi anche alle sensazioni di Gualtiero, il vivere in natura diventa il luogo del feeling-thinking, dove il cosiddetto dividuo si plasma attraverso le relazioni con la Natura.

In quest’ottica si colloca anche il motto di Gualtiero del “lavorare per vivere, non vivere per lavorare”. Questa visione del mondo è importante perché rende comprensibili motivazioni e modalità della fuga dalla mondanità. Innanzitutto, non vi è un totale abbandono del capitalismo, né tantomeno della tecnologia. Infatti, sia Meco che Gualtiero, ma anche lo Yurt Paradise e i Nativi della Terra, mantengono un certo contatto con il mondo virtuale e soprattutto social, che permette loro di creare e rafforzare la rete di contatti. Il “lavorare per vivere”, in particolare, mostra anche una certa consapevolezza della necessità di rimanere appunto presenti nel mondo, per poter continuare a viverci.

In questo modo si confuta, in un certo senso, quanto Heelas (1999) afferma riguardo al rifiuto del capitalismo da parte della maggior parte dei movimenti New Age. Nessuno dei gruppi

114

analizzati, infatti, rifiuta completamente la mondanità, piuttosto si può affermare che, dopo un allontanamento ideologico, vi sia un ritorno, una sorta di riappropriazione dei tratti ritenuti più utili.

Per contro, la seconda parte del motto, il “non vivere per lavorare”, conferma l’atteggiamento di negazione nei confronti di una società vista come annichilente, una macchina compattatrice di individualità che va allontanata per ritrovare se stessi. Questa visione è effettivamente in linea con quanto Heelas afferma, oltre che figlia del postmodernismo vigente ancora negli anni Novanta, quando l’autore scrive, e quando gli interlocutori hanno fondato le loro associazioni e iniziato le loro nuove vite.

Per concludere, in linea con Heelas e Pels, si giunge al nocciolo dell’ambiguità della New Age, e cioè che essa non rifiuta la contemporaneità, la sacralizza. In altre parole, nel rifuggire la modernità e cercando risposte altrove, in realtà si utilizzano necessariamente le categorie tassonomiche della stessa per assimilare ed appropriare pratiche Altre. Andando ancora oltre, la sacralizzazione della modernità si configura come una forma di standardizzazione della tradizione o, citando parzialmente Hobsbawm (1994), una sua re-invenzione.

La sacralizzazione della modernità, o la sua re-invenzione, avviene attraverso degli attori, che con Heelas si potrebbero chiamare “newager”, per indicare tutti coloro che partecipano attivamente a movimenti definiti New Age. Anche sulla definizione di New Age è stata necessaria una prospettiva trasversale, per analizzare più punti di vista e descrizioni. Per esempio, secondo Mulcock (2001), New Age è ormai diventato un termine con accezione negativa, e pertanto è sempre meglio utilizzare la perifrasi «alternative health and spirituality movements». Se la utilizziamo per definire tutto ciò che è New Age, allora l’argomento della presente ricerca rientra in un certo grado dentro a questa perifrasi. Movimenti per la ricerca di spiritualità e modi di guarigione alternativi sono infatti anche i Cerchi Sciamanici tenuti da Munira, o i rituali stagionali e neopagani di Samuele. I primi, in particolare, hanno lo scopo di trovare una risposta ai propri problemi, attraverso l’ascolto dei segnali che lo “sciamano interiore” ci trasmette nella vita di tutti i giorni. I secondi, ufficialmente celebrano il passaggio delle stagioni e la gratitudine per la Madre Terra, ma andando più in profondità l’intento è simile ai Cerchi Sciamanici, trovare le risposte alle proprie domande tramite dei segnali esterni. In breve, queste pratiche hanno come scopo la sacralizzazione del sé attraverso la guida e l’accompagnamento di una persona esterna, che può essere un “operatore olistico certificato”, come Munira.

115

Può essere però anche un Illuminato spirituale, come Samuele, o nei casi peggiori, quello che si definisce un “plastic shaman”. Lo sciamano di plastica è qualcuno che, citando Alessandro, “gioca a fare l’indiano”, spacciandosi per un guru spirituale di discendenza nativa americana, o adottato da qualche Capo tribù rinomato, per ottenere cospicue somme di denaro da persone in cerca di risposte. In quest’ottica, gli sciamani di plastica rispondono allo stereotipo dello “stregone” indiano proposto dalla cultura pop, attraverso film e libri, molto meglio di quanto non abbiano fatto i nativi americani stessi in passato. L’atto di giocare a fare l’indiano, però, non deve necessariamente essere così estremo e assoluto, e anzi ho voluto intitolare in questo modo l’etnografia proprio per far comprendere le sfumature e gradazioni in atto. Giocare a fare l’indiano, quindi, è sicuramente sinonimo di appropriazione culturale, ma non necessariamente indica uno sciamano di plastica, e quindi un atteggiamento fraudolento a scopo di lucro. Per fortuna, soprattutto negli ultimi due decenni, i nativi americani si sono attivati per riappropriarsi di ciò che era stato loro sottratto, come si è visto, nella forma di educatori culturali e danzatori, sia in America che in Italia.

Lo sciamano di plastica, infine, può essere guardato anche da un punto di vista turistico, proprio in quanto fa di sé un oggetto di marketing finalizzato al turismo spirituale. In questo senso, è possibile applicare alla celebrazione del sé anche la sacralizzazione del Sight di cui parla MacCannell. Lo sciamano, oltre che riferimento spirituale, diventa anche un’attrazione turistica. Ciò però non è, di nuovo, forzatamente un aspetto negativo, dato che anche in Zola (2012) e in Bunten (2008) vengono mostrati nativi sciamani “polivalenti” che fungono anche da guide turistiche, oppure attraggono semplicemente flussi di persone che vogliono partecipare alle loro performance culturali.

In ogni caso, comunque, lo sciamano vero o “di plastica” che sia, necessita di un riconoscimento sociale e comunitario per essere tale. Per esempio, Zola parla di capi tribù come primi sciamani bianchi, proprio in quanto godevano del rispetto della propria comunità. Anche Alessandro, nei suoi appassionati discorsi contro gli impostori, ribadisce più volte che uno sciamano o uomo-medicina non si definisce mai in quanto tale, perché è la comunità in cui vive che gli riconosce un ruolo di guaritore e guida. Pertanto, nel momento in cui un sedicente guru spirituale si presenta in quanto sciamano, è necessario prestare sempre attenzione.

Le ragioni per cui la figura dello sciamano, e soprattutto del neo-sciamano, suscita un tale fascino nelle persone mi sono diventate chiare nel momento in cui ho confrontato i miei dati di campo con l’analisi di Itzhak (2015). Io avevo espresso il parere, nelle note di campo, per

116

cui le persone fossero alla ricerca di una risposta sul piano spirituale, in quanto non si riconoscevano in quella più mainstream che la società di provenienza forniva loro. In modo più tecnico, Itzhak parla di efficacia simbolica come criterio di selezione di pratiche e rituali spirituali. Perciò ecco il motivo per cui una persona è disposta ad investire tempo, risorse e salute psicologica nella figura di un guru spirituale – sedicente o meno – che sembra fornire risposte alternative rispetto al conosciuto. Per questo motivo, infine, si ricerca altrove l’autenticità, finendo per appropriarsi, volenti o nolenti, di tratti culturali altrui.