Capitolo 5 – Salute, malattia e cronicità: fra sociologia e
5.3 La malattia cronica
5.3.2 Normalizzazione e adattamento
L’obiettivo della medicina è, senza ombra di dubbio, quello di guarire le malattie, ma il suo obiettivo realistico, concreto, è di fatto quello di controllare, per quanto possibile, la sua evoluzione o almeno i suoi sintomi e le loro conseguenze197. La medicina si pone lo scopo, nel caso in cui non sia in grado di guarire le malattie, di normalizzare le situazioni che non può risolvere. Nel caso in cui la guarigione non sia al momento immaginabile, la scienza bio medica deve incoraggiare le persone affette da malattia cronica a continuare a vivere nel modo più normale possibile.
Come affermano Carricaburi e Menoret, il termine normalizzazione richiede una profonda riflessione in quanto, al di là del senso comune del termine, esso è stato largamente impiegato nell’ambito della medicina da tre gruppi di attori: come strategia delle persone malate, come modello di comportamento da parte dei medici e come concetto analitico da parte dei sociologi198.
Il termine normalizzazione viene legittimato nelle scienze umane quando ancora le malattie croniche non sono oggetto di studio sociologico; sono le malattie mentali infatti, e le loro conseguenze sociali, che gettano le basi per quella che poi sarà la sociologia della malattia. Furono Schwartz e Davis199 che per primi utilizzarono questa nozione in ambito sociologico, focalizzandola soprattutto sulle modalità di gestione familiare della situazione imposta dalla malattia: le strategie impiegate per minimizzare l’impatto della patologia o della disabilità.
197 I. Baszanger, Le maladies chroniques et leur ordre négocié, Revue Francaise de
Sociologie, 1986 XXVIII: 3-27
198
Carricaburu p.127
199 C.G. Schwarts, Perspectives on deviance – Wife’s definitions of their husbands’ mental
illness, in Psychiatry, n. 20, pp. 275-291, 1957
F. Davis, Passage through crisis. Polio victims and their families, Indianapolis, IN, Bobbs- Merrill, 1963.
181 In generale, per i sociologi, normalizzazione non significa mai un ritorno allo stato precedente, ma essa costituisce un insieme di azioni e di interpretazioni che portano alla costruzione di un nuovo atteggiamento. Il nuovo modo di esistenza sarà accettato solo se è in accordo con i valori delle persone coinvolte; dunque, i dispositivi di adattamento alla malattia che si instaurano sono spesso molto fragili e instabili.
La normalizzazione, secondo Schwarz200 e Davis201, comporta una duplice dimensione: cognitiva e concreta allo stesso tempo: la normalizzazione è fondata su una definizione personale o familiare della situazione che la malattia cronica impone. Mentre però per Schwarz la normalizzazione si base su una definizione che è precedente all’insorgenza della malattia e che le persone tentano di conservare, per Davis la nozione di normalizzazione si fonda su una nuova definizione della situazione, che è successiva all’insorgenza della patologia. Successivamente, Goffman202
, ispirandosi all’articolo di Schwartz, aggiunge una dimensione differente alla normalizzazione attraverso il concetto di normificazione. Secondo l’autore la normalizzazione corrisponde alle azioni dei cosiddetti normali che si “sforzano di trattare le persone stigmatizzate come se non lo fossero”; definisce invece “normificazione” gli sforzi di una persona stigmatizzata per presentarsi come una persona come le altre, senza dissimulare la sua condizione di malato. La terminologia suggerita da Goffman però non ha avuto molto successo e la maggior parte degli autori utilizza la nozione di normalizzazione per indicare il lavoro che la persona malata e la sua famiglia effettua su se stessa e agli occhi degli altri per vivere nella maniera più “normale” possibile203
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200 C.G. Schwartz, Perspectives on deviance – Wives’ definitions of theri housbands’
mental illness, 1957, in Psychiatry, 20, pp. 275-291
201 F. Davis, Passage through crisis, Polio victims and their families, Indianapolis, IN,
Bobbs – Merrill 1963
202 E. Goffman, Stigma. L'identità negata. Onde Corte, Verona, 2003 203
182 L’attività principale dei malati cronici, non è quindi solo restare in vita o controllare i propri sintomi, ma anche vivere il più normalmente possibile, a dispetto dei sintomi e della malattia. La caratteristica di invasività dei sintomi e delle cure sono fattori che necessariamente incidono sul difficile equilibrio che le persone malate tendono a creare fra normalizzazione e de- normalizzazione della vita; la normalità non può essere quindi considerata uno stato, ma può essere definita come una valutazione che viene negoziata attraverso le interazioni sociali e le situazioni più diverse con le quali le persone si confrontano204.
Al fine di superare un’ immagine sedimentata del malato cronico inteso come puramente negativa, problematica e passiva, Bury205 ha individuato quali siano le sfide con cui il malato cronico può rispondere alla sua possibilità, evidenziandone tre. L’“adattamento cognitivo” (coping), “strategia” (strategy) e “stile” (style). Nonostante sia empiricamente difficile distinguerli uno dall’altro, l’autore ritiene che siano molto utili a livello analitico in quanto ci aiutano a dirigere l’attenzione verso differenti dimensioni dell’esperienza. La prima è quella che definisce coping, consiste nel complesso di processi cognitivi per mezzo dei quali la persona malata impara come tollerare e opporre resistenza agli effetti della malattia; questo implica mantenere un senso di valore e di significato alla propria vita. L’adattamento cognitivo quindi, comprende lo sforzo delle persone malate per mantenere un sufficiente valore di sé ed un senso di coerenza nella propria esistenza di fronte alla frattura biografica provocata dai sintomi e dai loro effetti.
La strategia si riferisce invece alle azioni che le persone intraprendono o ciò che le persone fanno di fronte alla malattia. Si tratta di una gestione strategica della malattia vista dalla prospettiva del malato, la quale implica
204 Ibidem
205 M. Bury, The sociology of chronic illness: a review of research and prospects, 1991,
183 un controllo dell’ambiente sociale al fine di minimizzare l’impatto della malattia nelle attività e interazioni quotidiane. Dal piano dell’autostima ci si sposta quindi a quello delle azioni concrete e della loro capacità di mobilitare le risorse materiali e non che sono a disposizione.
Lo stile infine si riferisce al modo in cui le persone rispondono e presentano le caratteristiche della loro malattia o della loro terapia. Ciò comprende la considerazione del repertorio culturale dal quale le persone traggono spunti per presentare un’immagine di sé quando si trovano a dover mostrare la propria fisicità alterata.
Coping, strategy e style denotano quindi tre opportunità per il malato cronico di reagire positivamente alla propria esperienza di patologia pur nell’imprevedibilità e nell’incertezza che caratterizza la malattia cronica.