Capitolo 3 Diagnosi e metodologia clinica della scleros
3.3 Segni e sintomi
E’ proprio dall’emersione dei sintomi del paziente che spesso prende avvio l’iter diagnostico. Il paziente riconosce all’interno del proprio corpo che qualcosa non va come dovrebbe, che si tratti di un lieve disturbo che provoca disagio o un segnale di dolore. Le teorie di diagnosi clinica e di metodologia della diagnosi, a questo proposito, distinguono due termini che si riferiscono a due concetti diversi e che spesso, nel senso comune, vengono utilizzati come sinonimi: segno e sintomo.
Andiamo con ordine: con il termine “sintomatologia” si comprendono tutte le manifestazioni spontanee riferite dal paziente in sede di colloquio clinico, sia i rilievi che il medico effettua sul paziente o direttamente o mediante strumenti o indagini di laboratorio. La sintomatologia può essere distinta di conseguenza in tre categorie: “soggettiva” cioè avvertita dal paziente, “obiettiva” cioè rilevabile e controllabile dal medico senza la necessità di utilizzo di strumenti complessi, e “strumentale” o laboratoristica, che deriva cioè da un’analisi di laboratorio. Sintetizzando quindi, è definita soggettiva la sintomatologia che è riferita dal paziente, mentre obiettiva quella rilevata dal medico. Per indicare i diversi elementi diagnostici vengono quindi usati, fin dai tempi più antichi della medicina, i termini di “sintomo” e di “segno”: la distinzione non è mai stata definita in maniera chiara, anche se la maggior parte degli autori che si sono occupati di questi aspetti, tende ad usare “sintomo” come termine per indicare la sintomatologia detta soggettiva, mentre il termine “segno” per indicare quella detta obiettiva. Come suggerisce Scandellari108, accanto a questa definizione, presente anche sullo Stendman’s Medical Dictionary, è opportuno ricordare anche quella che, secondo il pensiero di F.J. Double, considera il segno come una
108 C. Scandellari, La diagnosi clinica. Principi metodologici del procedimento decisionale,
93 elaborazione concettuale del rilievo obiettivo del clinico, mentre con il termine di sintomo l’autore intende ogni variazione evidenziabile nell’organismo ammalato, sia che possa essere rilevato dal malato sia che esso possa essere oggetto di rilievo da parte del medico, segno è invece tutto ciò che è riconosciuto dall’intelligenza del medico come appartenente alla malattia: “solo l’intelligenza del medico sa convertire il sintomo in segno
(…). Per cogliere i sintomi è sufficiente il solo uso dei sensi, mentre la conoscenza dei segni è il prodotto del pensiero e del ragionamento diretti su questi stessi sintomi (…). L’abilità del medico consiste appunto in questa corretta valutazione dei sintomi da cui vengono dedotte le positive nozioni dei segni. In effetti, i sintomi solo alla portata di tutti, ma solo il medico sa
ricavare dal loro esame la natura dei segni.”109
Federspil a questo proposito ci ricorda che i rilievi anamnestici possono essere enormemente diversi fra di loro in quanto le dichiarazioni anamnestiche riferite dal paziente possono essere di natura molto diversa e che quindi hanno possono avere differenti attendibilità. “Esse sono quasi
sempre costituite da descrizioni oggettive di eventi direttamente osservati dal malato, da descrizioni effettuate dai familiari, da sensazioni interne, a volte precise a volte estremamente vaghe e confuse, dall’esposizione di referti medici e/o giudizi diagnostici complessi. Nella valutazione dei rilievi anamnestici si devono poi tenere presenti altri due elementi: il paziente è spesso animato da sentimenti di timore e di preoccupazione per il proprio stato di salute in generale o per una malattia specifica (…). Continua poi
affermando che le dichiarazioni anamnestiche dei pazienti, quindi, non
possono essere sempre considerate come fatti “obiettivi” ma devono essere
valutate criticamente e sottoposte a controllo in vario modo.”110
109
F.J. Double, Semeiologie general on traitè des signes et de leur valeur dans les malrie, Parigi, 1981, cit in G. Ongaro, La distinzione tra sintomi e segni agli inizi della medicina clinica, Riv. Storia Medicina XI:102, SEU, 1967
110 G. Federspil, Logica clinica. I principi del metodo in medicina, McGraw Hill, Milano
94 Riprendendo ciò che è stato espresso precedentemente nel primo capitolo riguardo le narrazioni, appare piuttosto chiaro che le due tipologie di narrazioni proposte, dal paziente che racconta al medico la sua storia clinica, il suo malessere e i suoi sintomi, e il medico che deve prestare attenzione al fatto che il sofferente non divaghi, non menta, non si confonda e ricordi esattamente gli avvenimenti e i sintomi, sono molto diverse fra loro e mostrano stili narrativi completamente diversi. L’errore in cui non deve cadere il medico non è sicuramente quello di credere ciecamente a ciò che gli racconta il paziente (come sembra suggerire Federspil) ma, come suggerisce invece Bert111, prestare attenzione a non farsi risucchiare all’interno dell’intreccio narrativo che il paziente gli propone e di accettare di muoversi all’interno della trama del narratore malato.
La capacità del medico non dovrebbe stare nell’ascoltare con particolare attenzione e sospetto a ciò che il paziente gli racconta, ma nel saper ricostruire nel modo più sensato e utile possibile al suo obiettivo, facendo emergere dalla narrazione del paziente gli elementi salienti delle sue parole. Bert propone che i medici utilizzino anche e soprattutto in questa fase del rapporto con il paziente la medicina narrativa: “il medico che pratica la
medicina narrativa si comporterà diversamente: anziché restare all’interno della trama proposta dal paziente, sforzandosi al massimo di ristrutturargliela in maniera a suo avviso più sensata, aprirà – e qui sta il punto centrale – una trama nuova, più ampia, che comprenda certo quella del paziente, ma consenta l’emergere di elementi in precedenza ignorati, scartati o non visibili. L’ipotesi è che, per quanto una narrazione possa apparire completa ed esaustiva, essa è pur sempre solo la modesta parziale mappa di un territorio complesso, destinato a restare in gran parte
inesplorato”112
111 Bert G., Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Il pensiero scientifico
editore, Roma, 2007
112 Bert G., Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Il pensiero scientifico
95 Dopo aver aperto una piccola parentesi critica, a parere di chi scrive indispensabile, veniamo ora a trattare quali siano le caratteristiche di utilità dei rilievi clinici che emergono durante il colloquio anamnestico e nelle successive indagini cliniche.
I rilievi clinici, che si tratti si sintomi o di segni (in entrambe le accezioni sopra descritte) vengono utilizzati, nel procedimento diagnostico, in relazione a due caratteristiche fondamentali: il valore segnaletico e il valore probativo.
Il valore segnaletico di un segno è la capacità di quest’ultimo di indicare la possibile presenza della malattia: indica quindi al medico l’opportunità di considerare come ipotesi plausibile la presenza nel paziente della malattia e rappresenta il punto d’inizio della formulazione delle ipotesi diagnostiche: il valore segnaletico del rilievo clinico è tanto maggiore quanto più frequentemente è rilevabile nei soggetti affetti dalla malattia.
Il valore probativo di un segno indica invece la capacità del segno di provare la presenza di una malattia, cioè di affermarne l’esistenza nel paziente. Nella maggior parte dei casi un solo sintomo non è in grado di stabilire o meno l’esistenza di una malattia; questa particolarità è propria solo di alcuni sintomi abbastanza rari detti patognomici. Proprio per questo motivo i clinici vengono addestrati a compiere un’operazione di collegamento dei sintomi secondo un nesso casuale, in complessi
sindromici113.
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