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Capitolo 5 – Salute, malattia e cronicità: fra sociologia e

5.1 Salute e malattia

5.1.1. Una dicotomia inevitabile?

Nelle due definizioni appena enunciate vediamo che queste due entità, la salute da una parte e la malattia dall’altra, sono opposte l’una all’altra, non comunicanti. A ben vedere, la salute è creata a partire dalla patologia: la salute non si manifesta, non si tocca e non si vede, resta silenziosa fino a che non è la malattia a costituire un parametro per la definizione dei confini della salute. Il nodo cruciale del ragionamento è che è la malattia e non la salute a manifestarsi come ciò che si oggettiva da sé e che ci viene incontro, che ci invade143.

142 Churchill, Churchill’s Medical Dictionary, Menarini, Torino, 1994

143 G. Pizza, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma,

156 Come afferma Pizza144, una concezione diadica di salute e malattia proposta in questo modo appare come una vera e propria tautologia: l’una viene definita attraverso la negazione dell’altra, portando ad una classificazione che oggettivizza e naturalizza la malattia e che esclude la percezione soggettiva del malessere. Secondo l’analisi dell’autore, se si cerca quindi di superare i confini rigidamente segnati di salute e malattia che sono molto

ben custoditi da una serie variegata di ruoli sociali, di poteri e di istruzioni), ci si rende conto che le implicazioni di tale dicotomia e le

motivazioni che la promuovono si reggono a loro volta su di un ulteriore paradigma oppositivo: normale/anormale e normale/patologico.

La biomedicina, infatti, non definisce la salute in base al benessere percepito dalle delle persone ma in base alla definizione di dati prodotti secondo procedure scientifiche e per questo ritenuti oggettivi, quindi validi. Un esempio in questo senso sono i risultati delle analisi di laboratorio che, interpretati in base a dei parametri di normalità, sanciscono il passaggio dallo stadio di persona sana a quello di persona malata; Gadamer145, in questo senso, suggerisce l’esistenza del primato metodologico della malattia. Una critica alla scelta della medicina di definire la malattia in riferimento alle norme oggettive è stata avanzata dal filosofo Canguilhem nel 1966, nel suo celebre studio Il normale e il patologico. Secondo il filosofo è necessario uscire dalla dicotomia ed elaborare nuovi paradigmi concettuali in grado di cogliere il senso del malessere nell’esperienza della persona che lo vive, dicotomia che tenta di sottrarre la malattia alla persona che la vive.

Una modalità per superare la contrapposizione dicotomica fra salute e malattia sta’ nel relativizzare tali concetti a partire da variabili storiche, culturali e sociali all’interno delle quali si inseriscono. Emile

144 Ibidem 145

157 Durkheimiani146 già nel 1985 affrontò la questione nel terzo capitolo de Le

regole del metodo sociologico dedicato alle “Regole per la distinzione del

normale e del patologico”. L’autore afferma che anche quando scegliamo come tratti salienti della malattia il dolore e la sofferenza e come tratti distintivi della salute il piacere e il godimento, questi si rivelano inutili in quanto non aiutano a chiarire la differenza tra le due.

“Di solito la differenza è guardata come il segnale della malattia, In generale esiste certamente una relazione fra questi due fatti. Ma è una relazione che manca di costanza e di precisione. Delle gravi diatesi sono indolori. Invece disturbi senza importanza, come quello provocato dall’introduzione di una granello di carbone nell’occhio, causano un autentico supplizio. In certi casi è proprio la mancanza di dolore o addirittura il piacere stesso a essere i sintomi della malattia. Esiste una certa vulnerabilità che è patologica. (…) Il dolore invece accompagna molti stati come la fame, la fatica, il parto, che sono fenomeni del tutto fisiologici.” (Durkheim, 1996,61)

Durkheim afferma che tali forme possono essere di due tipi: sono normali i fatti che presentano le forme più generali e diffuse all’interno della propria specie sociale, mentre gli altri sono fatti morbosi o patologici. La normalità e l’anormalità non vanno intese però come entità immutabili, ma come norme prestabilite all’interno di un preciso contesto; per questo, dice Durkheim, il tipo normale tende a confondersi con il tipo medio, ovvero con

146 É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Editori Riuniti, Roma, 1996, (p. 65)

158 la condizione ideale media della maggioranza dei membri di un gruppo sociale.

Nello specifico, la malattia non può essere definita a priori in modo definitivo e a questo proposito Durkheim scrive:

«Solo per una ragione un avvenimento può essere ritenuto funesto. Ed è quando esso disturba il gioco normale delle funzioni. Un simile argomento però suppone che il problema sia già risolto.

Non è infatti formulabile se prima non è stato precisato in che cosa consista lo stato normale e sulla base di quali segni esso può essere riconosciuto. Si cercherà di costruirlo tutto

nuovo e a priori».147

Ciò che separa la salute dalla malattia è relativo alla società e alla cultura oltre che agli individui stessi, ed è di fondamentale importanza comprendere le dinamiche attraverso le quali tale soglia si afferma come norma dominante; solo attraverso tale comprensione è possibile svincolarsi dalla dicotomia normale/ patologico.

Dall’osservazione di Durkheim deriva la consapevolezza che normalità e anormalità sono norme socialmente costruite, pertanto non si può stabilire a priori l’evento malattia se non si comprende prima attraverso quali processi sia stata stabilita la norma. Per Durkheim quindi da una lato la malattia “ci costringe soltanto ad adattarci in modo diverso dalla maggior parte dei nostri simili, dall’altro la salute è una condizione fisiologica ideale,

147 É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Editori Riuniti, Roma, 1996, (p. 65)

159 identificata con la norma costruita nella maggioranza della specie sociale a cui si appartiene”148

.

La variabilità sociale e culturale della soglia che separa la salute dalla malattie è in sostanza un dato fondamentale al fine di rendere la distinzione più dialettica.

Ma chi definisce le soglie di separazione fra la salute e la malattia? Fra normalità e patologia (anormalità) nei diversi contesti sociali? Come avviene che tali separazioni si affermino e diventino oggettive e naturali? In questo ci viene in aiuto lo psichiatra Franco Basaglia, la cui analisi parte proprio dalla constatazione sul fatto che la soglia che separa salute e malattia non è fissa e avanza la sua ipotesi sul fatto che siano i rapporti di forza a definire normalità e patologia. Lo psichiatra mette in guardia dal considerare ovvia e naturale la distinzione fra salute e malattia e considera l’incapacità di problematizzare la distinzione considerandolo non solo una atteggiamento culturale ma fondato anche su motivazioni politico economiche.

“Le definizioni sembrano apparentemente

riferirsi a una realtà tangibile e

inequivocabile; com’è tangibile e

inequivocabile l’acqua che bagna o il sole che scalda o come lo è la differenza tra l’una e l’altro. Ma se si tenta di approfondire il discorso parlando di salute e malattia in relazione al significato e alla funzione si trovano ad assumere nell’insieme dei valori che costituiscono la nostra cultura e l’ossatura dell’organizzazione sociale di cui essa è il

148 G. Pizza, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma,

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supporto, la malattia diventa ciò per cui si ricorre al medico e all’ospedale e, di conseguenza, ciò che determina la sospensione dalla “vita normale”, cioè dall’attività e dal lavoro; e la salute il segno del mantenimento dell’individuo nel proprio ruolo, nel proprio posto di lavoro, secondo il grado di efficienza

richiesto”149

Secondo Basaglia, quindi, la norma si colloca nel rapporto fra salute ed efficienza e in sostanza tutto avviene come se ci fosse un’equivalenza diretta, obiettiva ed oggettiva, fra essere in salute e lavorare; salute quindi intesa come “necessità produttiva” e non come un bisogno degli individui. Le intuizioni di Basaglia segnalano la necessità di costruire ponti analitici, interpretativi e al tempo stesso operativi che connettano l’esperienza del benessere e del malessere al contesto sociale ed economico. In questo modo l’opposizione salute/malattia è resa come una dialettica molto problematica e il concetto di malattia assume, oltre che un significato culturale, la fisionomia di un processo sociopolitico150.

Un ulteriore punto di vista interessante nell’analisi della dicotomia fra salute e malattia, e contemporaneo a quello di Basaglia, è quello di Ernesto de Martino che, analizzando la dicotomia concettuale di salute/malattia, avverte del rischio di rimanere intrappolati nel gioco di rimandi tra le due definizioni; secondo De Martino infatti l’opposizione fra salute e malattia è una

“doppia menzogna, che introduce

nell’antropologia una serie di equivoci, di

149 F. Basaglia, Scritti II, 1968-1958, Dall’apertura del manicomio alla nuova legge

sull’assistenza psichiatrica, Einaudi, Torino

150 G. Pizza, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma,

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deformazioni e di interpretazioni errate (…). Non si tratta di “spiegare il sano e il malato”: un tentativo del genere sarebbe già malattia. (…) Il giudizio di sanità o malattia è un giudizio storico, e non può prescindere dalla considerazione storica del rapporto fra

comportamento e ambiente storico” 151

Egli ritiene che per affrontare le esperienze umane di salute e di malattia non sia sufficiente una sola riflessione culturale, seppur utile, ma l’operazione indispensabile da fare è di demolire la distinzione stessa. Senza questa condizione preliminare, le scienze sociali, rimarrebbero subalterne ad una visione naturalista e biologista.

Una delle ulteriori tesi di fondo di de Martino è che le etichette che definiscono gli stati di malattia e di salute dovrebbero essere analizzate processualmente come forme di oggettivazione dell’esperienza incorporata. Egli suggerisce di considerare la salute e la malattia come processi storico- culturali e sociopolitici per cercare di cogliere la complessità delle forme di incorporazione della storia, ovvero dei diversi modi di stare al mondo. Il giudizio di sanità o malattia non può prescindere dalla considerazione del rapporto tra comportamento e ambiente storico. Secondo il medico e antropologo Taussig152 inoltre, la biomedicina opera una vera e propria reificazione delle persone malate e delle loro esperienze, riproducendo una realtà sociale funzionale alla conservazione di uno specifico assetto politico. L’oggettività biologica e fisica della patologia e della cura è solo illusoria e nega le relazioni umane incorporate nei sintomi, nei segni e nella terapia; la scienza medica, secondo tale prospettiva, spiega il “come” della malattia,

151 E.de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Gallini

C., (a cura di), Einaudi, Torino, 1977, p.18

152 M. T. Taussig, Reification and the consciousness of the patient, in Social Science and

162 ma è incapace di pronunciarsi proprio lì dove dovrebbe risultare decisiva: sul “perché” ci si ammala in un preciso momento della propria vita.