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Numero 11 Torino, 24 ottobre

I manicomii del continente e i manicomii in Sardegna

«Gli spedali de’ pazzi, scrive un anonimo, erano una volta prigioni crudeli. Essi non rimbombavano che di urli, di suon di percosse, e di stridor di catene. Non si curava la pazzia come infermità, ma si puniva come delitto. Oh quanto terribili a’quei meschini, privi del bene dell’intelletto, dovevan riuscire quelli intervalli, in cui la ragione tornava in loro a risplendere!

Levossi finalmente la voce della ragione e disse, che i pazzi anche nei loro furori sono innocenti, e il castigo dato agli innocenti è colpevole; che il rigore verso gl’insani non può mai eccedere i più stretti limiti della necessità in cui siamo d’impedir loro di nuocere a se stessi o ad altrui; che la lor guarigione e non la detenzione loro è lo scopo dei pii ricoveri; e che la guarigione della mente, per quanto è sperabile in loro, viene agevolata dalla dolcezza, allontanata dalla durezza, fatta impossibile dalla crudeltà.

La verità di queste massime e la felice esperienza di qualche istituto governato a tenore di esse, come quello di Aversa operò una rivoluzione nel trattamento dei miseri, pei quali il turbamento dell’intelletto giustificava la grave determinazione di segregarli dalla società, e di rinchiuderli nei ricoveri a ciò destinati. Si edificarono nuovi e spaziosi spedali ben collocati, ottimamente forniti; la mondizia succedette al succidume; la luce alla tetraggine, l’aere fresco all’aere viziato; si proposero al governo di quelli asili uomini illuminati e gentili; i ministri dei dementi cessarono di essere aguzzini per diventare infermieri; e l’arte curativa cercò nel blandimento le efficaci vie di risanare, che non avea potuto trovare nell’acerbezza. Una sola cosa si desidera ancora nella maggior parte di tali benefiche instituzioni, ed è lo spazio e i modi d’impiegare, di esercitare, di far lavorare i pazzarelli all’aria aperta, ogni volta che riesce praticabile, è, secondo il Trichard e il Conolly, uno dei più importanti requisiti per la felice cura dell’insania (1).

Questa cura si risolve in due parti, la medica e la morale. Quali progressi abbia fatto la parte medica noi nol sappiamo, solo ci sembra che nel adopramento degli antiflogistici tuttor regni ne’diversi paesi molta discrepanza. Immensi ne ha fatti la parte morale. n pazzo, per lo innanzi, era guardato con orrore, come un essere che avea perduto ogni relazione co’suoi simili, e veniva trattato quasi fosse una bestia selvaggia. Ora viene esso

governato con umanità, ed il potere delle influenze morali, a ristorare la mente nello stato sano, è riconosciuto come un fondamentale principio.

Il dottor Pinel in Francia, ed i Quaccheri in Inghilterra vengono risguardati per i primi che promuovessero quest’utilissimo miglioramento. Ma una lode forse maggiore èdovuta al cav. Linguiti che lo ridusse in pratica nello spedale di Aversa (2). Milano si segnalò poscia sopra tutte le città d’Italia per la felice applicazione della cura morale nelle alienazioni mentali».

Il paese in cui si ravvisano più negletti gl’infelici pazzi, ove il malo trattamento di essi più strazia l’anima, è oggi l’Isola di Sardegna. Gettati in fondo a due o tre cameraccie umide, sordide, senza luce; costretti a sdraiarsi sovra un mucchio di paglia, o tutto al più, su ruvide panche, stretti da catene, esposti alla derisione, all’insulto, talvolta anche alle pietre della ragazzaglia, battuti spietatamente nei loro furori e nei loro mancamenti da due o tre frati spedaglieri, o per meglio dire aguzzini... in questo deplorabile stato lasciammo noi nel 1842 quattro o cinque rinchiusi nello spedale di Cagliari; ed al momento che scriviamo lo stato di quelli esseri infelici non si può dire che sia cambiato.

Giunsero in diversi tempi al Govemo pienontese lagni e preghiere perché provvedesse in qualche modo a tanta necessità dell’Isola abbandonata. Ma sordi i ministri del Piemonte, siccome a tutti gli altri, così ancora per questo lagrimato bisogno de’ poveri isolani, sapete eome risposero? Risposero accogliendo le istanze sull’oggetto medesimo di due città del continente, Genova e Torino, e questa segnatamente decorando d’un magnifico spedale, che per molti lati riscuote la lode degli stranieri. Il manicomio di Torino trovasi oggi, difatti, colloeato in ampio ed appropriato fabbricato, diviso in due quartieri, uno per gli uomini e l’altro per le femmine, il cui numero è ragguagliato a 485 ricoverati al giorno. L’uso delle catene e di altri rigori vi è onninamente abbandonato, e gl’infelici vi sono curati con le migliori regole della dolcezza, procurando ai medesimi, con tutte le maniere, distrazioni, passatempi piacevoli, passeggiate in carrozza, divertimenti di musica, e simili. Del grandioso manicomio di Genova, pel quale seppe pure il Governo piemontese trovare mezzi d’incoraggiamento e di protezione, non diciam nulla. Fermiamoci invece a quello che onora la città di Ciamberì.

Ciamberì è la capitale della Savoia, come Cagliari della Sardegna. Ciamberi ha un ospizio pe’pazzarelli, detto del Beton, che ricovera circa 125 maniaci d’ambo i sessi. L’esperienza di questi ultimi anni avendo dimostrato, che l’antico locale del Beton non era più sufficiente né adatto ai crescenti bisogni, ed ai nuovi metodi di cura richiesti, che fece il Governo piemontese? Autorizzò il traslocamento di quel manicomio in un locale più conveniente e vicino alla città, quindi, in vista delle ingenti spese a tal fine occorrenti, trovò di dovergli assegnare, sino ad ulteriore determinazione e senza carico di sorta,

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la porzione delle multe già finora godute, e che sarebbe devoluta agli altri istituti di carità della Savoia, e di obbligare inoltre i comuni e le provincie a concorrere nella spesa dei rispettivi loro mentecatti poveri, a seconda del sistema vigente per gli altri stabilimenti di tal natura del regno.

Con questo mezzo, e mercè le caritatevoli sollecitudini di quel consiglio di beneficenza, l’ospizio de’ pazzerelli di Ciamberì dà oggi un conveniente ricovero ai maniaci di tutto il ducato, che prima del 1827 od erravano abbandonati al misero loro destino, o tutto al più si rinchiudevano in carcere. Cosa che oggi si pratica coi poveri pazzi della Sardegna, i quali o si abbandonano ludibrio del popolo sulle vie, o quando non si gettino nelle tetre cave di S. Antonio, s’imprigionano.

Si imprigionano, si, i poveri mentecatti dell’Isola, mentre i loro fratelli del continente, da eguale sventura colpiti, si fanno, per cura del Governo istesso, passeggiare in vettura, distrarre da canti e suoni.

Queste generosità del Govemo piemontese verso la Sardegna, il giornale torinese, che da qualche giorno va rinfaciandole i benefizii dal Piemonte ricevuti, perché non le numera, perché non le magnifica?

Esiste a Cagliari, per una popolazione di 106,388 anime, un miserabile spedale. Diteci se da quel Governo che ha sussidii per la società filodrammatica, per la società filarmonica di Torino, ha mai potuto la città di Cagliari ottenere di vedere accresciuto il misero numero de’ venticinque miseri letti del suo spedale! Sono 10 o 12 anni dacché nella stessa città di Cagliari si gettarono le fondamenta per un più vasto spedale e più corrispondente ai cresciuti bisogni di quella popolazione, e sono presto otto o nove anni dacché, per deficienza di mezzi, giace quell’opera sospesa ed abbandonata. Come giaccion sospesi ed abbandonati già da gran tempo i lavori che per simile più ampio nosocomio imprendeva la città di Sassari. Da quel Governo che sa trovare e spendere milioni quando si tratta d’opere utili alle città del continente, diteci se hanno fin qui potuto conseguire un qualche assegnamento le due città di Sassari e di Cagliari per la prosecuzione di que’ loro importanti lavori? Ne ottennero e ne ottengono sempre vistosi sussidii tutte le altre provincie della monarchia, quando per ponti, quando per strade, quando per scuole e simili; ma non ne ottengono le provincie della Sardegna. Cosi fu sempre, così è, e cosi sempre sarà: avea ragione il nostro pastore gallurese di cantare che:

Pa noi non v’ha middori, O sia Filippu Chintu, O sia l’Imperadori! Egli era profeta! S.

(1) Tra le migliori opere straniere intomo alla pazzia han da porsi le seguenti: Pinel, Sur

l’alienation mentale – Esquirol, Sur les maladies mentales; – Georget, Sur la folie –

Heinroth, Die störungen des seelenlebens; – Jacori, Prichard, Conolly, Burrows, Haslam,

On insanity ecc.

(2) Il rinomato spedale dei pazzi in Aversa, città posta 7 miglia ad occidente di Napoli, è divenuto oggetto di comune ammirazione e modello di simili benefiche istituzioni. Il cav. Linguiti ha per esso ottenuto la benedizione di tutti i popoli.

Esagerazioni dei Continentali sulle cose della Sardegna.

(Communicato)

Le cose della Sardegna furono e saranno sempre travvisate dai continentali. Non dal giornalismo soltanto che sputa sentenze, regala accuse e rimprocci continuamente, che è una meraviglia. Ma eziandio da uomini altronde commendevoli per senno, per dottrina, per sociale collocamento stimabili. A chi volesse raccoglierle, per confutarle tutte, le false accuse, i rimproveri irritanti, gli avventati giudizii che ora alla Camera dei Deputati, ora alla Camera dei Senatori si pronunciano su quella sventurata nazione, certo non basterebbero le colonne d’un giornale.

A provare con quanta leggierezza, con quanta poca cognizione, e con quanto maggiore insistenza, e diremo quasi audacia, si trinciano giudizii spesso falsati sul conto dei sardi, scegliamo oggi il discorso del conte Di Pollone letto nel Senato del Regno, sulla Sardegna, all’occasione delle interpellanze Musio al Ministero (1).

Viva ed alquanto clamorosa discussione, come i nostri lettori ricordano, sostenevasi alla Camera senatoria del Regno, nei giorni 2, 3 e 4 del mese di dicembre ultimo scorso, dal senatore Musio col Ministero, circa il modo col quale fu amministrata l’isola di Sardegna dacché spontaneamente fondevasi cogli Stati del continente.

Agli spettatori medesimi, che in folla e silenziosi (fatto raro) accorsero e stettero in que’ giorni alle tornate del Senato, pareva che il Ministero dovesse soccombere sotto la grave accusa di niente aver fatto (di bene) a pro della Sardegna. Però l’esito rispose diversamente; e noi che non possiamo intrattenerci sulla moralità di quel voto e sulle cause che possono averlo consigliato, diremo solamente come a noi sembri che il Senato abbia votato sotto l’impressione prodottagli dalla serie dei fatti esposti dal senatore Pollone, a favore degli uomini del potere.

Il silenzio in materia di cosi alta importanza per il paese potrebbe per avventura considerarsi come implicita conferma degli esposti fatti e come

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accettazione delle conseguenze che ne ha dedotto il sig. Di Pollone: ma essendo noi da ciò ben lontani, ci proveremo di svestirli del carattere di cui egli gli ha adornati, acciò, rimessi nella loro nudità, se ne possa riconoscere la natura e l’indole.

Diceva il sig. Di Pollone:

1. Che tolta la linea doganale frapposta fra l’Isola ed il continente, quella dopo la fusione vantaggiava d’un milione e cinquecento mila lire all’anno, che producevano in meno alle finanze le dogane dell’Isola stessa.

Noi che non abbiamo tuttora visto il conto consuntivo, che il Ministero era in obbligo di rendere, dei bilanci votati per gli anni trascorsi, dopo la fusione, non siamo in grado di accettare o di rifiutare la proposizione, in quanto riguarda la somma: però possiamo osservare che in addietro tutti gli articoli coloniali e le manifatture estere, da qualunque piazza provenissero, assoggettavansi ai diritti d’entrata nella loro importazione: dopo però vi giungevano per la massima parte naturalizzate nel continente, ove per altro pagavano i dritti doganali d’introduzione. Se gli articoli e manifatture cosi naturalizzate s’introducevano in Sardegna liberamente, si consumavano però daziate nel continente, e quindi i consumatori nessun vantaggio poteano trarre dallo spostamento del punto daziario, dalla Sardegna trasportato alle frontiere del continente stesso, per cui la somma qualunque che abbiano prodotto in meno le dogane dell’Isola, l’hanno dovuta rendere in più le dogane di terraferma. Che se mai ciò non si fosse verificato esattamente è da ripetersi da altre cause estranee affatto alla fusione.

2. Che le derrate provenienti dall’isola pagavano LL. 800 m. all’anno alla loro introduzione in Genova, ed ora vi si introducono liberamente: epperciò che l’Isola medesima profittava di quella somma che non pagavano le sue derrate. Ove quest’argomento non fosse combattuto dal principio universalmente ammesso, che il dazio colpisce i consumatori e non i produttori, altra ragione potrebbe distruggere la sentenza pronunziata dal signor Di Pollone. La Sardegna, sempre contrariata nello sviluppo dei suoi elementi di prosperità, anzi respinta dalla via del progresso in cui sarebbesi sempre voluta lanciare, non ha mai potuto dare sfogo alle sue produzioni nelle piazze estere per proprio suo conto, bensì ha dovuto attendere gli avventori, dai quali ha pur dovuto ricevere la legge dei prezzi. La fusione non ebbe la virtù di migliorare le cose del paese, ed il commercio di Genova impossessavasi dell’esportazio- ne dei prodotti di esso, senza conceder loro porzione almeno del dritto da cui vennero liberati all’introduzione nella riviera. Nelle casse quindi dei commercianti di Genova, oppure in quelle dei consumatori continentali possono rinvenirsi le 800 m. lire che le provenienze dall’Isola non più pagano alla loro entrata in Genova, ma un obolo non si potrà rinvenire nelle borse dei produttori per conseguenza della soppressione degli accennati dritti doganali.

3. Che essendosi pareggiate al continente le amministrazioni dell’isola, gli impieghi e gli stipendi, si è per conseguenza migliorata la condizione degli impiegati e quindi ha aumentato la generale agiatezza in Sardegna.

Se i precedenti del signor Di Pollone ci permettessero di dubitare di sua buona fede, non potremmo che come grave insulto ad un infelice paese considerare la proposizione colla sua conseguenza. Però, tenendogliela buona in quanto riguarda l’intenzione, permetterà che gli diciamo, che egli ha ciò affermato non per constargli di essere le cose seguite come le ha egli esposte, bensì come sarebbero dovute succedere. Egli verosimilmente credeva che il Ministero nella distribuzione degli impieghi si fosse lasciato inspirare dal sentimento di giustizia, che a riguardo degli impiegati dell’Isola si fosse usata l’istessa misura colla quale si accordano gli impieghi ai continentali; che a riguardo di quelli si fossero tenuti a calcolo i servigi prestati anteriormente alla fusione; che se il bisogno di famigliarizzare gli uni cogli altri, oppure quello del servizio avesse imposto di spedire in Sardegna impiegati del continente, fossero stati anche destinati dall’Isola altri impiegati per applicarli agli ufficii del continente stesso; che l’anzianità di servizio e di grado, la capacità, il zelo e l’attività fossero mai sempre stati i veri titoli ai quali si fosse solamente avuto riguardo nella colazione degli impieghi; che se per purificare le amministrazioni si dovettero sopprimere diversi uffizii in Sardegna, gli impiegati che ne facevano parte e che furono messi in aspettativa, fossero stati piazzati convenientemente o nei nuovi che si stabilirono, oppure in altri del continente; credeva infine che non si fosse fatta odiosa eccezione dei Sardi, e che di fatto fossero stati chiamati a partecipazione dei vantaggi che offrono gli impieghi dello Stato.

Però il sig. Di Pollone ha preso il diritto per il fatto, e non ha nemmeno sospettato che dall’uno all’altro passavi qualche distanza. Quindi si rende necessario che rettifichi l’errore ed esamini l’aggiatezza della Sardegna pro- mossa dalla migliorata condizione degli impiegati qual è in realtà. Noi gliene abbozzeremo un quadro, che se manca di contorni o difetta di bellezze, non manca di verità. Dagli impieghi brillanti ed insiem lucrosi sono stati esclusi affatto i Sardi insulari per applicarvi continentali che non potevano reggere al paragone con quelli, né per anzianità di servizio, né per superiorità di grado, né per corredo di cognizioni utili, né per attività e per zelo nel servizio.

Gli impiegati distaccati dagli uffizii del continente, destinati a quelli dell’isola, vi passarono non già col grado di cui erano provvisti o tutto al più coll’immediato, bensì con aumento di due o tre gradi, per cui rimanevano gravati e pregiudicati non solo gli impiegati sardi conservati in attività di servizio, ma pur anche gli altri impiegati del continente, i quali perciò, o benché più anziani o più benemeriti, si videro da quelli sorpassati e lasciati addietro. Degli impiegati addetti agli uffizi riformati nell’Isola una porzione

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fu conservata in servizio, altra messa in aspettativa ed altra messa in strada, come se mai avesse servito lo Stato. Se la prima categoria dovette lamentare le traverse dei favoriti continentali, l’altra deve perpetuamente piangere la sventura d’esserle, senza fatto proprio, mancate le prospettive che avea avanti di sé, mentre il paese era isolato; e l’ultima deve rimproverarsi l’imprudenza d’essersi abbandonata alla lusinga, che i sagrifizii consumati per sostenere un lungo volontariato e per reggersi con tenui assegnamenti nei primi toccati impieghi, non sarebbero disconosciuti dal Governo, che amministrerebbe l’isola fusa già negli Stati del continente. Per riempire le piante degli uffizii di terraferma, generalmente ampliate, non si utilizzarono gli impiegati messi in aspettativa o riformati dell’isola, bensì; si chiamarono altri favoriti, ai quali era affatto estraneo il servizio dello Stato. Degli impiegati sardi, il di cui numero è ben limitato, destinati ad impieghi del continente, una piccola fazione passò con grado immediato, altri coll’istesso grado che avevano, ed altri facendo passi retrogradi. Epperò tutti, oltre al danno dello spostamento e stabilimento in paese, ove i bisogni sono maggiori ed il soddisfarli costa il doppio che in Sardegna, dovettero subire un’ingiusta stazionarietà, non essendo mai stati considerati nei moltissimi movimenti che occorsero. Anzi per rendere più angustiata la loro condizione, non lasciò loro gustare la soddisfazione di dimostrare quanta istruzione avessero acquistato per rimeritarsi quelle promo-zioni che non furono loro accordate. L’isola da due o tre anni in quà è popola-ta da uomini che sembrano di specie diversa. Negli uni vedesi scolpito in faccia il cordoglio, l’abbattimento d’animo, la miseria; negli altri la contentezza, la prosperità, l’agiatezza. I primi sono indigeni, gli altri non lo sono che per il tempo che basti a formarsi un patrimonio, e fino a presentarsi un apertura negli impieghi del continente. Molti degli insulari vedonsi, massime nella dominante degli Stati Sardi, bensì non plaudentisi della migliorata loro condizione, ma stanchi dal richiamare la giustizia in lor favore.

A specchiarsi in questo quadro noi invitiamo il sig. Di Pollone e poi, se il cor gli regge, lo lasciamo in libertà di ritornar in Senato od avunque a magnificare l’agiatezza dell’Isola come conseguenza della migliorata condizione degli impiegati insulari.

(Continua)

(1) Le presenti osservazioni sarebbero state assai prima d’oggi pubblicate, se per tema di andare errati non avessimo creduto opportuno, di consultare alcuni documenti, che dimostrano irrefragabilmente l’esattezza delle cifre e la veridicità dei fatti in esse esposti.

L’Autore.

Niente ancora di positivo sulla crisi ministeriale. Il conte Cavour, incaricato della formazione del nuovo Gabinetto, dicesi non sia potuto riuscirvi. Si parla di Collegno o di Pollone agli Esteri, di S. Martino agli Interni, di Cavour alla Presidenza ed alle Finanze, di Rattazzi a Grazia e Giustizia. Ma sono voci. Il giornale ufficiale tace sempre.

Si parla di conferenze del Re coll’arcivescovo di Genova, monsignor Chavraz, giunto da Roma; e di andarivieni, in conseguenza di ministri e di altissimi personaggi, da Torino a Stupinigi e da Stupinigi a Torino.

La notizia d’una energica nota del governo francese al nostro, sulle esorbitanze della stampa si dà per certa, e il non averla smentita la Gazzetta Piemontese, pare la confermi.

È morto d’appoplessia fulminante, a Parigi, l’illustre Abate Vincenzo Gioberti.

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L’ECO DELLA SARDEGNA

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