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La residenza della Corte

Abbiam detto che il Piemonte è tutto, le altre provincie della monarchia, e specialmente la Sardegna, poco o niente. Il Piemonte è centro di tutti gli uffizi superiori. I Piemontesi s’intascano oltre a 20 milioni in soli stipendi. Chi si arricchisce il primo di telegrafi e di vie ferrate, costino quel che costino, è il Piemonte. Dove fiorisce di preferenza l’istruzione, è in Piemonte. Piemontesi sono sempre quasi tutti i ministri. La maggior parte dei senatori è piemontese. Il senato del regno, la Camera dei deputati ha sede in Piemonte. Piemontesi sono quasi tutti i più grossi impiegati della Sardegna. Sono Piemontesi quasi tutti gli operai spediti a Londra dal governo di Piemonte. La parte più esatta nel Calendario ufficiale del regno è quella che riguarda i Piemontesi. Le maggiori comunicazioni, le più facili e pronte corrispondenze con tutta Europa, le vantano i Piemontesi. Chi si ha formato in casa borsa, banca, camere di commercio? Il Piemonte. Chi maneggia la barca? I Piemontesi. Chi trascura la Sardegna sono i ministri piemontesi. Chi sparla di quelle popolazioni sono tre o quattro impiegati piemontesi che vi andarono assottigliati, e ne ritornaron paffuti.

Chi ha sempre fruito degli immensi capitali che mettono in circolazione le provvigioni, il vestiario, le bardature, le sellerie, l’armamento delle truppe, il vasto arsenale, le altre fabbriche militari e persino gli abiti sfarzosi delle autorità superiori? I soli Piemontesi. E dei settecento milioni di debito che ha la nazione, spesi la maggior parte per la guerra dell’Indipendenza Italiana, chi ne ha sentito vantaggio se non il Piemonte, come giustamente faceva notare la Savoia in una sua protesta alla Camera dei deputati?

Non è il Piemonte che, mentre la Sardegna provvedeva da sé alla manutenzione del suo presidio militare (che pure doveva essere a carico dell’erario piemontese), invece di alimentare le arti e l’industria dell’Isola, ha sempre spedito perfin le scarpe pei soldati dell’Isola lavorate nel continente? Non è il Piemonte (e chi può non fremere, né trasmodare al raccontarlo?) che, mentre languida è fra le altre l’arte tipografica fra i Sardi, esso, che pur poteva in qualche modo somministrarle lavoro ed alimento, ha il coraggio di mandare

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persino gli stampati ad uso degli uffizi dell’Isola, provvisti dal continente, per favorire l’impresa di Torino?

Uomini inqualificabili! è così che intendevate e che intendete tuttora la protezione, l’incoraggiamento alle arti, ai mestieri, all’industria, al benessere dei poveri Sardi?!

Ma non basta. Chi, per tacer d’altri infiniti, gode oggi di tutti i vantaggi, di tutto l’utile che può recare ad una città la residenza sovrana e della Corte sono anche i Piemontesi, la loro capitale, Torino.

Certo che il sovrano e la Corte risiedono ove più a loro talenta. Non vi son norme in proposito, né intendiam noi di dettarne, paghi quali ci dichiariamo che ora a Torino, ora Moncalieri, ora Stupinigi e quello e questa risiedono. Ma coloro cui tale residenza è sorgente di quel movimento, di quello sviluppo e incremento d’industria, di commercio, di lusso che ammirasi tutto di nella capitale; coloro nel cui mezzo si spendono i quattro milioni della corona; il mezzo milione del dovario della regina vedova; le trecento mila lire dell’appannaggio del duca di Genova, e le duegento del principe di Carignano, cessino almeno dal rinfacciare continuamente alla povera Sardegna le poche centinaia di mila lire che riclama per le più urgenti necessità sue.

Chi vuol farsi un’idea del movimento che da qualche tempo anima la capitale del Piemonte e dei vantaggi che oltre all’incentramento politico, amministrativo e militare le procura anche la residenza sovrana e della Corte non ha che a riflettere che:

Nel 1418, sotto Amedeo VIII, primo duca di Savoia, Torino contava appena 64 isolati.

Dal 1615 al 1620, sotto Carlo Emanuele I, fu accresciuta verso Porta Nuova di 17.

Nel 1673, sotto Carlo Emanuele II, fu ampliata a Porta Po di 29.

Nel 1702, sotto Vittorio Amedeo II, verso Porta Susa se ne aggiusero 14. Nel 1755, sotto Carlo Emanuele III, nello stesso senso altri 22.

Dal 1816 al 1841, sotto il regno di Vittorio Emanuele I, di Carlo Felice e di Carlo Alberto, se ne fabbricarono in vari punti 60.

E dopo il 1841, se ne costrussero altri 53. Il che dà presentemente un totale di 259 isolati.

La qual cifra, fatto calcolo degli isolati che già sono in costruzione e di quelli altri che già sono progettati nei piani d’ingrandimento non ha guari approvati, promette di essere fra non molto aumentata di circa altri 40 o 50 isolati, attalché fra quattro o cinque anni Torino avrà circa 320 isolati. Vale a dire Torino nel 1860 sarà sei volte la città di Torino del 1418.

Ora domandiamo noi: Quest’ingrandimento, quest’immenso sviluppo a chi lo devono i Piemontesi? Lo devono alla finanza pubblica di cui assorbirono in ogni tempo la più grande parte.

Lo debbono a tutte le riforme e migliorie che in ogni tempo si procacciarono; all’incoraggiamento, alla protezione che di preferenza sempre accordarono a tutto ciò che era piemontese. Lo devono all’ampliazione di territorio che le politiche vici loro acquistarono. Ne devono buona parte al passaggio, da semplice principato che era lo Stato piemontese, a regno mercè il possedimento dell’Isola di Sardegna, e ne devono tuttavia allo splendore che gelosamente si hanno saputo conservare sempre della residenza sovrana e della Corte, fra loro.

I nostri lettori certamente ricorderanno la tanto famosa quanto fatale quistione sulla capitale, sollevatasi dai Piemontesi al Parlamento nel 48, all’occasione della discussione dell’atto di unione della Lombardia alla monarchia di Savoia.

Perché tanto interessamento, perché tanto calore in quei giorni da parte dei Piemontesi per conservare Torino capitale del regno dell’Alta-Italia? Perché, cessando Torino di essere capitale, di aver tutto, d’assorbir tutto, perdendo la Corte e i vantaggi che l’accompagnano, prevedevano che se i loro isolati da 250 non sarebbero indietreggiati fino al numero di 64 donde partirono, certo non promettevano neppure di ascendere a 320 nel 1860.

Grandi, incommensurabili sono i vantaggi che il Piemonte ritrae dalla presenza eziandio della Corte.

Grandi, incommensurabili sono invece i sagrifizii che l’Isola della Sardegna fa, perché il Piemonte continui ad aver tutto, Corte, Ministeri, Uffizii, Parlamento, splendore. Il Piemonte da qualche anno si va costruendo le sue strade ferrate, e se le continua a forza di milioni, nonostante le poco favorevoli condizioni del tesoro. E la Sardegna tace. Il Piemonte si ha eretto i suoi telegrafi con Genova, con Novara, e va costruendosene dei nuovi colla Savoia e colla Francia. E la Sardegna tace. Il Piemonte ha pensato subito a dotar Torino, Genova, Ciamberi, Novara, Nizza, Voghera, Asti, Alessandria, di collegi-convitti-nazionali di educazione e istruzione. È la Sardegna tacque. Il Piemonte manda al Parlamento i suoi rappresentanti con nissuno o poco dispendio per la vicinanza delle sue provincie, per la facilità delle sue comunicazioni, e la Sardegna deve esporre i suoi sul mare, far loro abbandonare famiglia e interessi; e tace.

Ma il silenzio dei popoli, che soffrono dimenticati, parla eloquente. I ministri del Piemonte dovrebbero capirlo. La Sardegna vuol essere sollevata. E purché la solleviate, non invidierà, né vi molesterà mai nel pacifico godimento dei vostri milioni e degli splendori che li accompagnano.

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I coralli dell’Algeria e della Sardegna Leggiamo nei giornali di Francia:

«Sul litorale dell’Algeria esistono dei banchi di corallo molto ricchi, i quali, ad onta degli sforzi dell’amministrazione per incoraggiare i nazionali, sono ricercati in gran parte da stranieri. Nulladimeno, nello scopo di rivolgere quanto sia possibile questa pesca a profitto della nostra industria, il ministro della guerra ha deciso, che darebbe per la preparazione e l’arrotatura del corallo in Algeria premii di 300, di 200 e di 100 lire con medaglie d’argento e di bronzo».

Le coste occidentali della Sardegna e specialmente il litorale di Alghero, nostra terra natale, abbondano di coralli siffattamente, che a due milioni circa, senza esagerazione, si può far ascendere il prodotto che dalla pesca, in tempi non molto lontani, ne ritraevano annualmente i Napoletani ed i Liguri che vi attendevano. Anche presentemente, che di molto si può dire scemata l’accorrenza dei pescatori, l’annuale prodotto di essa si può affermare che oltrepassa, e di molto, le dugento mila lire.

Riputatissimi quali sempre si mantennero e per la quantità e per la qualità loro i coralli sardi, sovra ogni altro del Mediterraneo e d’altri mari, la pescagione e la manifattura di essi di grandissima risorsa già da tempo sarebbe tornata alla popolazione algherese ed alla finanza, se per poco il governo piemontese avesse pensato in qualche suo lucido intervallo a favorirla ed incoraggiarla. Ma come potevano occuparsi dei coralli dell’Isola quei ministri, che, in cento trent’anni di loro dominazione, appena appena dispensarono il benefizio indispensabile dell’istruzione elementare a trenta mila cinquecento sessantanove di quei poveri isolani; per cui di mezzo milione quarantasei mila ottocento e dodici che essi sono, appena trenta mila cinquecento sessantanove circa sono quelli di loro che sanno leggere e scrivere?

Eppure forma la pesca di sì pregevole zoofito uno dei rami di commercio ben coltivato dei Marsigliesi, che corrono a pescarlo nella Provenza. Esiste a Marsiglia, fra le altre, una compagnia allo scopo di promuovere la pescagione sulle coste di Barberia. Compagnia che somministra ai pescatori di corallo la barca e quanto è a loro necessario, per quindi dividere i prodotti della pescagione in tredici parti: di cui 4 vanno a favore del capo della barca, 2 per lo slanciatore (1), una per caduno dei sei marinai di cui ordinariamente la barca si compone, ed una (la tredicesima) per la compagnia.

Chi direbbe che, mentre il governo piemontese soltanto trascurò sempre e continua a trascurar tuttavia ogni sorta d’industria nella Sardegna, fin dal 1372 proteggevano invece ed incoraggiavano i re di Aragona la pesca del corallo nell’Isola, concedendo ai pescatori algheresi la franchigia ossia l’esenzione del dritto del ventesimo imposto sulla pesca e sull’estrazion del

corallo a tutti i Provenzali, Catalani ed altro qualunque che abitante non fosse della città di Alghero?...

Noi manchiamo dalla diletta patria nostra presto dieci anni. Non abbiam quindi alla memoria tutti i dati che a provare fino all’evidenza ci servono, essere la pesca dei coralli non spregevol risorsa pei Sardi. Ma nell’atto che ci riserviamo di tornare altra volta sull’argomento, non possiamo fin d’ora che lamentare, anche per questo verso, la colpevole spensieratezza e non curanza degli uomini del Piemonte che ci governano. I quali, mentre da apposite commissioni fanno studiare lo scalo del Valdocco e di Porta Susa, la piaga del cretinismo e del gozzo che invade qualche provincia continentale, non ha mai pensato né pensa di nominarne una, composta delle più riputate specialità nostrali, affine di studiare e di suggerire quali rami principali di nazionali commercii e industrie meriti in Sardegna in modo speciale tutte le cure, tutta la protezione e l’incoraggiamento del governo. `

(1) Slanciatore. Così chiamasi il marinaro della filuca o barca corallina più esercitato nel gettare l’ordegno delle reti in mare.

Rose giornalistiche

Un altro giornale dello Stato, che vorrebbe il monopolio della pubblica opinione, riservato solo per le sue esagerazioni, ed al quale per conseguenza non va a versi l’Eco della Sardegna, mi domanda ingenuamente: Dove sia il mio mandato? Io alla mia volta rivolgo a lui ingenuamente la dimanda stessa: Ed il mandato vostro, di grazia, dov’è?

Quando l’onorevole interpellante si compiacerà comunicarmi la copia autentica dell’atto con cui lo nominavano i Sardi a loro procuratore generale dell’Isola; allora sarò in dovere di presentare io al pubblico la mia. Succeduto questo scambio d’atti o di credenziali, che abbiamo entrambi, allora sarà anche il caso di esaminare quale delle due procure contenga maggiori titoli e più ampie facoltà a rappresentare gl’interessi della Sardegna, se la mia, o quella del nuovo Caio Gracco di Palabanda.

Per ora il mio mandato lo tengo forte in cinquecento abbonati d’ogni ceto e d’ogni colore, i quali, non ostante le passate mie opinioni, il mio nome, nonostante il vitupero con che dagli stessi miei connazionali e fratelli si tentò lordarmi, risposero unanimi al solo primo numero di quell’Eco che comincia a turbare il sonno e la borsa dei ciarlatani da carrettoni e da impiastri. Atto solenne! che mentre mi attesta che i rappresentanti dell’opinione pubblica della mia patria non sono soltanto i vili pescatori, mi prova altresi, che disparità di opinioni, nomi, colori, persone, tutto scompare laddove uno è il grido fiero e concorde: Siamo Sardi e siamo oppressi!

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Lo so che taluni de’ miei connazionali medesimi sono i primi a raccogliere scrupolosamente ed a tosto riprodurre sulle loro colonne il fango di che essi sono lordati. Ma i miserabili ed invidi hanno dimenticato troppo presto, che il direttore dell’Eco della Sardegna ride e non si umilia, egli che primo raccoglieva le invettive notturne dei vigliacchi e codardi suoi avversari scarabocchiate sui muri di Torino, per stamparle a grossi caratteri sul defunto suo giornale, e cosi farle conoscere a chi non le conosceva.

Meglio è, mascherati impostori, appartenere ad un partito, nero sia o bianco, che tradire la propria patria, fare i tribuni del popolo in piazza, affettare liberalismo nei circoli, indipendenza nei caffè e sui giornali, e poi venire a Torino e apertamente o sotto mano cercare l’appoggio del partito e degli uomini dello Smascheratore per chieder croci, ottenere impieghi, conseguire pensioni, quando per conto proprio, e quando per altrui. Meglio avere il coraggio delle proprie opinioni, qualunque sieno, che cercar di essere deputato, e poi alla Camera star mutolo, o far guerra ai propri concittadini, e non rifiutare persino trecento lire da un povero giudice di mandamento dell’Isola per solo appoggiare ad un ministro una di lui supplica, una petizione...

Si ricordino (e finisco) gli uomini che ora tentano di screditar l’Eco della Sardegna, che il Direttore è pur Sardo, che da nove anni domiciliato a Torino ebbe più d’una volta occasione, agio e tal fiata anche mano in pasta, per scoprire raggiri, per conoscere viltà, per sentire vergogne.

E che finalmente il Direttore dell’Eco della Sardegna ha documenti in mano, e molti, da far arrossire più d’uno dei suoi detrattori, più di uno di coloro che oggi forse carezzano il pio desiderio (soltanto) di vederlo morto.

Fortuna! che due o tre buffoni non sono la maggioranza della mia patria. I ministri del Piemonte non si ringalluzzino.

Sampol

Movimento commerciale in Francia

Il Dèbats così ragiona del prospetto sul commercio esterno della Francia nel 1851, venuto non ha guari in luce a Parigi per opera dell’amministrazione generale di quelle dogane.

L’amministrazione delle dogane ha testè pubblicato il suo prospetto annuo, lavoro voluminoso di presso a 500 pagine, ove non pertanto ogni cosa viene esposta e classata col più intelligente metodo, e che, per tutti quelli che i loro studii o i loro affari richiamano a consultare i documenti di statistica commerciale, è certamente la migliore pubblicazione di questo genere. Un

grande miglioramento anzitutto gli dà pregio da qualche anno: ed è la riduzione in valori attuali o reali dell’antico valore officiale cui la dogana applica alle mercanzie da venticinque anni in qua. Si ha dunque ad un tempo, pel confronto col passato, il valore officiale permanente, e, per espressione esatta dell’importanza de’ nostri cambi, il valore attuale, che fissa tutti gli anni, per ciascuna mercanzia, una commissione formata, al ministero dell’interno e del commercio, del fiore de’ nostri industriali.

Ecco primamente come s’è composta la somma generale e officiale de’ nostri cambi nel 1851:

Importazione Esportazione Totale

(milioni) (milioni) (milioni)

Coll’esterno 1,077 1,439 2,516

Colle nostre colonie 81 190 271

TOTALE 1,158 1,629 2,787

Queste cifre generali dicono molto: esse denotano dapprima la povertà delle transazioni coloniali nel commercio d’un paese che fa circa 3 miliardi d’affari; non è più del 9 per cento. Non bisogna tuttavia perdere di vista l’importanza delle nostre colonie sotto il doppio rapporto dell’interesse marittimo e dello smercio nazionale, ed è a notarsi in oltre che i loro cambi colla capitale si sono accresciuti nel 1851 di 50 milioni circa. Un’altra osservazione che fa nascere l’esame di queste cifre si è l’enorme superiorità dell’esportazione sull’importazione. La prima sorpassa la seconda di quasi che la metà. Ciò può spiegarsi: noi compriamo all’estero molte materie greggie che gli rispediamo dopo aver dato loro un alto valore di fabbricazione. La differenza, del resto, può trovarsi colmata in parte dai movimenti del numerario che, rappresentato da carta, sfugge necessariamente al controllo della dogana.

Ora se si riconducono le cifre generali; che si sono citate al valore che avevano gli oggetti scambiati nel 1851, al loro valore reale, si vedono abbassare per l’importazione a 1 miliardo 94 milioni, e per l’esportazione a 1 miliardo 520 milioni. Il totale generale in valori reali rimonta adunque a 2 miliardi 614 milioni, vera cifra del nostro commercio esterno. Comparati i due valori, si trova un divario di 173 milioni, che può dare l’espressione abbastanza esatta del ribasso che hanno subito nel loro insieme le mercanzie da circa 25 anni. Ell’è una valutazione di cui dovrassi tener conto ne’ dati numerici che seguono.

Sui 2 miliardi 788 milioni di mercanzie che noi scambiamo al di fuori, 767 milioni, vale a dire 28 per 100 circa, appartengono al transito, alla riesportazione, e rappresentano quindi la parte che viene a prendere la

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mercanzia estera nel nostro commercio nazionale propriamente detto, o commercio speciale, il quale è stato, nel 1851, di 2 miliardi 20 milioni, ossia, in valori attuali, 1 miliardo 923 milioni, di cui 765 milioni all’importazione e 1 miliardo 158 milioni all’esportazione. Là, può vedersi, si ritrova e anche più marcata la superiorità che ottengono all’estero le nostre vendite sulle nostre compre; ma quello che è notevole, si è che questa superiorità esiste soltanto per il commercio per mare. quanto ad operazioni per terra, è tutto l’opposto. Se ne giudicherà dalle cifre seguenti:

Commercio per mare: importazione, 734 milioni; esportazione, 1 miliardo 265 milioni. – Totale, 1 miliardo 999 milioni.

Commercio per terra: importazione, 423 milioni; esportazione, 365 milioni. – Totale 788 milioni.

Sicché il nostro commercio marittimo mette in moto circa due miliardi di mercanzie, il terzo circa del commercio britannico. Sul tal somma la bandiera nazionale concorre per 953 milioni ossia 48 per 100. Resta dunque, per la bandiera estera, 1 miliardo 46 milioni ossia 52 per 100. La sua parte è, come vedesi, un po’ più considerabile della nostra; ma, nella somma dei trasporti, vale a dire del tonnellaggio, la proporzione è ad essa anche molto più favorevole; la bandiera estera, che ci arreca quasi tutti i prodotti voluminosi, ha 2 milioni 389.000 tonnellate contro 1 milione 699.000; vale a dire che essa ottiene 58, 4 per 100, mentre noi non abbiamo che 41, 6 per 100. E di più quest’ultima proporzione è diminuita: essa era di 43, 5 per 100 nel 1850. Il nostro commercio marittimo è dunque lungi dall’essere in via di miglioramento, e la sua situazione, in mezzo al progresso generale degli altri paesi, ci sembra richiamare la più seria attenzione del governo.

Affine di completare l’opinione generale che abbiamo tracciata del commercio esterno della Francia, ci rimane a far conoscere le variazioni ch’esso ha subite nel 1851. In valori, s’è accresciuto, nel suo complesso, di 82 milioni, di cui 76 sui nostri propri cambi e 6 sul transito. Nel 1850, il nostro commercio era aumentato di 140 milioni; nel 1849, di 550, dopo esser diminuito di 600 nel 1848. L’accrescimento del 1851, quantunque assai notevole, è dunque lungi dal corrispondere a quel che era stato anteriormente. L’aumento d’altronde non ha avuto luogo che sull’esportazione; all’importazione, si trova perfino una diminuzione di 16 milioni. In conclusione, l’esercizio del 1851 può considerarsi come una delle buone annate commerciali della Francia.

L’ECO DELLA SARDEGNA

Anno I - Numero 7