VERSO UN NUOVO DIRITTO ALL’ABORTO.
4. Per una nuova
Alla luce di queste premesse, viene spontaneo chiedersi come, e soprattutto se, è possibile, modificare la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. In particolare, se è ragionevole ipotizzare un ampliamento dei presupposti di accesso all’IVG. Si è visto infatti, come il giudice delle leggi, abbia con la sentenza n. 35/1997, seppure affermando il valore costituzionale della vita prenatale, ribadito, che il pericolo per la salute fisica e psichica della donna, costituisce il motivo valido per ricorrere alla IVG. Verissimo, ovviamente, ma la semplice mancanza di desiderio di maternità? E la sensazione di inadeguatezza della gestante o della coppia? E gli eventuali interessi confliggenti, con una nuova
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gravidanza, di altri figli o del partner? Con uno sguardo onesto, si capisce che tali situazioni rientrano nella ragionevole valutazione che ciascuna individua fa, quando decide sulla prosecuzione o meno della propria gestazione. Forse allora, a meno di non considerare tali situazioni come direttamente incidenti sulla salute psichica della donna, bisognerebbe riconoscere, che l’interruzione volontaria della gravidanza, non riguarda solo il diritto alla salute della gestante, ma anche la sua autodeterminazione. Ad avviso di chi scrive, un ampliamento in tal senso della legge n. 194, non è impensabile. Questa aggiunta, non si porrebbe in contrasto con il contenuto costituzionalmente vincolato della legge. Non si auspica, infatti, un’abrogazione del dettato normativo, laddove prevede la tutela della salute fisica e psichica della donna, anzi, si vuole piuttosto ampliare il novero dei diritti, che permette l’accesso all’IVG, aggiungendo accanto al diritto alla salute, quello all’ autodeterminazione riproduttiva. Come già sottolineato, il giudice delle leggi, non ha invitato il legislatore a porre in essere un modello a tendenza impositiva, né il legislatore del ’78 ha attribuito al medico un qualche potere di veto, sulla scelta della gestante. E questo, già differenzia, l’aborto da un qualunque altro intervento. In generale infatti, si presume che nessun medico pratichi un’operazione se non ne rinviene la necessità medica. In qualche modo quindi, il legislatore, anche se non espressamente, visto probabilmente anche il clima politico di quegli anni, non ha escluso una richiesta d’aborto, basata su motivi diversi, dal pericolo per la propria salute. Un ampliamento a favore del diritto all’autodeterminazione riproduttiva della gestante, non solo sarebbe più onesto, ma soprattutto non tradirebbe la tutela del
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concepito, anzi la rafforzerebbe. Da dove passa infatti la protezione della vita prenatale, se non dal potenziamento dell’autodeterminazione femminile? Non trincerarsi dietro il diritto alla salute fisica e psichica, ma pensare all’interruzione di gravidanza, come a una scelta realmente volontaria, legata a valutazioni di tipo personale ma anche sociale, forse favorirebbe anche un atto di responsabilità da parte del legislatore. A quest’ultimo infatti, spetta porre in essere politiche che rendano la lavoratrice madre ugualmente competitiva, che permettano anche a una famiglia di un ceto medio basso, o a una coppia che non goda dell’aiuto della propria famiglia d’origine, di gestire più di un figlio, o di accogliere un figlio con disabilità. Ora, che l’autodeterminazione femminile nella vicenda abortiva, stia andando gradualmente incontro a un fenomeno di valorizzazione, lo fa sperare la Ley Organica spagnola n. 2/2010166, e forse una nuova giurisprudenza interna. E’ di giugno 2017167, infatti, una sentenza del Tribunale civile di Cagliari, che ha rilevato una violazione della libertà di procreazione. Nello specifico, la vicenda riguarda una donna, già madre di due bambini, che in occasione del parto cesareo del suo secondo figlio, aveva richiesto alla struttura ospedaliera presso cui era ricoverata, un’operazione di sterilizzazione tubarica. Convinta quindi di non poter procreare, la donna ha avuto, nell’anno successivo, rapporti sessuali non protetti con il marito, culminati in una gravidanza indesiderata. Dopo aver interrotto la gravidanza, la donna ha agito in risarcimento, nei confronti della
166Si rimanda al Capitolo II, paragrafo 5. 1. 167Per una lettura sulla vicenda,
http://27esimaora.corriere.it/17_giugno_19/violata-liberta-procreazione- prima-condanna-italia-abfd1438-552b-11e7-8fb7-7977c09f9d70.shtml.
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struttura ospedaliera. Il Tribunale civile di Cagliari, dopo aver appurato che l’aborto non ha comportato un danno alla salute psico-fisica della gestante, ha riconosciuto un danno non patrimoniale per “la sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione: infatti, il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è certamente un diritto, normativamente riconosciuto, che trova riscontri costituzionali sia nell’art. 2 sia nell’art. 13 della Costituzione”. Si vedrà poi, nei successivi gradi di giudizio, o in vicende simili, se la decisione del giudice resterà un unicum o se si sta assistendo a un cambiamento giurisprudenziale, nel modo di pensare alla vita riproduttiva. A voler essere ottimisti poi, il potenziamento dell’autodeterminazione femminile nella vicenda abortiva, potrebbe comportare uno lento abbandono di quella visione avversariale tra donna e concepito, e riportare l’aborto nella giusta dimensione: quella di ipotetica, seppur triste vicenda riproduttiva, che riguarda prima di tutto la donna, il suo corpo i suoi desideri soltanto.
Tornando ora alla legge n. 194, e alle altre eventuali modifiche teorizzabili, si è visto nel Capitolo II, come la percentuale consistente, di obiettori di coscienza, possa rendere difficile l’accesso all’intervento abortivo, incidendo quindi, sull’effettività del diritto all’aborto e dando luogo a potenziali discriminazioni aggravate. Si è anche riconosciuto, il fondamento costituzionale dell’obiezione di coscienza e la sua ineliminabilità. Sulla base di queste valutazioni, si sono teorizzate delle misure che favoriscano l’autenticità della scelta obiettoria, dalla più deterrente interdizione dalla professione
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medica - per l’obiettore che venga sorpreso a praticare una IVG -, fino al, più che ragionevole, obbligo di prestazioni alternative per gli obiettori. Tali opzioni potrebbero tranquillamente, essere inserite all’art. 9 della legge n. 194, perché non incidono sullo spirito del dettato normativo, anzi, rafforzano la tutela della salute della gestante, e l’esercizio autentico dell’obiezione di coscienza del personale sanitario. Numerose, in tal senso, le proposte di riforma della legge n. 194, avanzate in sede parlamentare, da membri del Partito democratico, di Possibile, del recente Articolo 1, che chiedono di modificare l’art. 9, inserendo l’obbligo per la struttura sanitaria di garantire che il 50 o il 70% del personale medico e paramedico non sia obiettore; segno che forse, nonostante la Relazione del Governo sull’attuazione della legge n. 194, sostenga che l’obiezione di coscienza del personale sanitario non ostacoli i diritti delle donne e dei non obiettori, non tutto il mondo politico è cieco davanti al problema. Un’ eventuale apertura poi, alle strutture private, sulla scia dell’esperienza spagnola, si ritiene inoltre ammissibile, se pensata come residuale e a spese dello Stato, laddove le strutture pubbliche non possano garantire il servizio. La semplice liberalizzazione, sostenuta negli anni dal Partito Radicale, non è risolutiva. Non solo perché alla luce della sentenza n. 35/1997, che ha blindato la procedura di cui agli art. 4 e 5, si deve ritenere che la natura pubblica del servizio di IVG sia intangibile; anche laddove non lo fosse, infatti, pensare di affidare il servizio di IVG anche ai privati, in modo alternativo quindi, e non residuale, rischierebbe di favorire esclusivamente le gestanti abbienti, tradendo l’esigenza di giustizia sociale, che ha mosso il legislatore del 1978.
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Si ritiene invece, potenzialmente giusto, il modello discorsivo in generale, predisposto dal legislatore, e preservato dal giudice costituzionale, e presente anche, in forma più o meno accentuata, in altri ordinamenti168. Tale modello conserva però, la sua ragion d’essere, solo se affidato a personale medico, obiettore o meno169, conscio della delicatezza e dell’unicità della relazione di gravidanza. Solo così infatti, esso può rappresentare un momento di sostegno alla gestante e rientrare in quell’ “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, che dovrebbe essere alla base di ogni prestazione o intervento sanitario. Chiaro, che quello che si richiede al personale sanitario, è uno sforzo di sensibilità170, che dovrebbe già, a dirla tutta, essere proprio di chiunque eserciti una professione sanitaria. Il rischio altrimenti, è quello di trasformare la procedura consultiva, da misura a favore della donna, a momento di controllo e ingerenza sociale sulla vita riproduttiva della gestante. L’unico dubbio che si nutre, riguardo alla procedura prevista dal legislatore, è la previsione di una pausa di riflessione di sette giorni, anche laddove la gestante sia pienamente convinta. Considerando infatti, l’incidenza del fattore temporale sulla vicenda abortiva, il limite di novanta giorni previsto per l’aborto non terapeutico, l’alto numero di
168Si è visto il modello fortemente discorsivo del sistema tedesco, e quello
tendenzialmente discorsivo del sistema inglese. Si rimanda rispettivamente al Capitolo I, paragrafo 1.2. e al Capitolo II, paragrafo 2.2.
169 Si accetta, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale, che esclude dalle attività
coperte dall’obiezione di coscienza l’attività consultoriale del personale sanitario. Si rimanda al Capitolo II, paragrafo 2.
170Sul trattamento degradante subito da alcune gestanti nell’iter di accesso
all’IVG, si leggano la testimonianze di molte gestanti, raccolte dal documentario Aborti impossibili, del settimanale L’espresso, http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/10/18/news/aborto-le-
testimonianze-ragazze-madri-e-infermiere-raccontano-chi-calpesta-la- salute-delle-donne-1.138195.
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obiettori che si possono incontrare una volta avanzata la richiesta, e l’ evidenza lampante per cui la gravidanza è un fenomeno di crescita di un essere umano che accade all’interno del corpo di una persona, forse pensare di ridurre, almeno, il periodo di attesa sarebbe non solo più ragionevole, ma anche più rispettoso della capacità della donna di assumere decisioni libere e responsabili.
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Conclusioni.
Le decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali e i dati presentati dalla Relazione annuale del Ministero della Salute sulla attuazione della legge n. 194, hanno reso più che mai evidente come, sul territorio italiano, la percentuale di medici e personale sanitario obiettore di coscienza, abbia raggiunto un livello significativo. Si tratta di un dato non trascurabile, nella misura in cui esso incide non solo, sul diritto delle gestanti ad accedere al servizio di interruzione volontaria di gravidanza, con evidenti ricadute sul diritto alla salute di queste ultime, ma anche sul diritto dei medici non obiettori, a non essere discriminati sul luogo di lavoro. Assodato che l’esercizio dell’obiezione di coscienza, sia da considerare meritevole di protezione costituzionale, rappresentando esso, ad avviso di chi scrive, un momento attuativo della libertà di coscienza, l’indagine si è concentrata sul bilanciamento effettuato dal legislatore del ’78, tra diritto alla salute della donna e diritto a obiettare del personale medico e paramedico. E poiché si è visto, quanto la depenalizzazione e la successiva regolamentazione dell’aborto, sia avvenuta all’interno di un dialogo tra Tribunali Costituzionali e legislatori nazionali, si è ritenuto utile guardare a come gli altri ordinamenti disciplinino, laddove prevista, l’obiezione di coscienza, al fine di individuare possibili assonanze e spunti di riflessione. Premesso che il sistema italiano stabilisce in materia abortiva un modello tendenzialmente permissivo, e guardando a quegli Stati che hanno fatto la stessa scelta legislativa, è emerso come tutti prevedano accanto al diritto all’aborto della gestante, il diritto del personale sanitario di avvalersi di una clausola di coscienza. Per quanto stimabile perché espressione di una
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visione pluralista della realtà, si tratta tuttavia di una facoltà non incondizionata.
Si è osservato, infatti, come nel nostro ordinamento la giurisprudenza penale e amministrativa sia propensa a limitare l’esercizio dell’obiezione, a quelle attività “specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”, escludendo così non solo le attività di consulenza e rilascio del certificato, ma anche quelle preparatorie e immediatamente successive. E che tale trend giurisprudenziale, non sia di esclusivo appannaggio italiano, lo dimostra la posizione della Corte Suprema britannica, che ha fornito alla conscientious refusal of care prevista all’art. 4 dell’Abortion Act, una lettura tutt’altro che estensiva, qualificando come ipoteticamente obiettabili, solo quegli interventi che richiedano un attività di hands on, di partecipazione quindi, concreta e attiva. Ora, la delimitazione dei confini dell’obiezione del personale sanitario, le misure, più volte richiamate, volte a favorire l’autenticità della scelta obiettoria, l’idea - presa in prestito dal sistema britannico - di introdurre l’onere per il medico obiettore di segnalare, alla gestante che faccia richiesta di IVG, un medico non obiettore, sono tutte riflessioni funzionali a garantire non solo una distribuzione maggiormente equa delle funzioni sanitarie, ma soprattutto a tutelare il diritto alla salute della donna. Giova ricordare, che non si tratta di un intento di natura ideologica o morale, ma prima di tutto giuridico. Se si guarda d’altronde, al bilanciamento previsto dalla legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, emerge subito come il contemperamento di interessi modulato, non sia perfettamente equo; il legislatore, infatti, autorizzando il personale medico a
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sottrarsi alla procedura abortiva, ha cura di specificare, allo stesso art. 9, che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate, sono tenuti ad espletare in ogni caso il servizio. Si individua, quindi, nella garanzia di continuità delle prestazioni, il punto di equilibrio tra i valori in gioco, con una evidente prevalenza del diritto alla salute della donna, il che è più che ragionevole, essendo la legge nata soprattutto per rispondere alla tragedia silenziosa dell’aborto clandestino. Non si tratta di una scelta solo italiana; la Ley Organica 2/2010, infatti, quando dopo aver riconosciuto il diritto del personale sanitario a sollevare obiezione di coscienza, prevede all’art. 19, la possibilità per la gestante di richiedere, in via residuale a una struttura privata, l’interruzione volontaria di gravidanza, ponendo la spesa medica dell’intervento a carico dello Stato, sta in modo concreto ed effettivo salvaguardando il diritto alla salute della donna e, nel caso specifico spagnolo, all’autodeterminazione riproduttiva, dimostrando come, ancora una volta, il bilanciamento tra i due diritti in gioco sia risolto dal legislatore nazionale a favore della gestante, tramite la garanzia di continuità del servizio. Si può quindi sostenere che, la tutela del diritto dell’aborto, passi inevitabilmente dalla via “procedurale”.
Tale necessità non è rimasta estranea nemmeno alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Si è visto come, gli interventi della Corte EDU in materia di interruzione volontaria della gravidanza, non siano stati particolarmente creativi e innovatori. Questo nonostante la sua giurisprudenza in materia, abbia riguardato Paesi quali la Polonia o l’Irlanda, che adottano per l’aborto un modello a tendenza impositiva. La scelta dei giudici di Strasburgo, infatti, è quella di lasciare ai singoli ordinamenti
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un ampio margine di apprezzamento in materia, sulla base del fatto che non esiste un consenso generale nel mondo scientifico, su quando possa definirsi iniziata la vita. Ciò non toglie che, una volta ammessa una qualche forma di aborto legale, è obbligo del legislatore predisporre gli strumenti affinché l’accesso al servizio, legalmente introdotto, si presenti come concreto e possibile per tutte le donne. Si tratta di una vera e propria esigenza di effettività del dettato normativo, che non può in alcun modo essere ostacolato nemmeno dall’obiezione di coscienza del personale sanitario. Se questo è il modus operandi della Corte EDU, è legittimo ipotizzare allora, che laddove aditi da una cittadina italiana, i giudici di Strasburgo, possano comminare una sanzione per violazione dell’art. 8 CEDU, nella misura in cui lo Stato italiano, non adempie a quegli obblighi positivi, che dovrebbero portare il sistema sanitario nazionale, a garantire la continuità del servizio, pur in presenza di un significativo numero di obiettori di coscienza. Nella stessa direzione, vanno collocati i moniti del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, che come ampiamente analizzato e ricordato in apertura, si spinge anche più oltre, rilevando come, l’evidente trattamento discriminatorio subito da alcune gestanti, in taluni casi anche aggravato, e dal personale sanitario non obiettore, renda la concreta attuazione della legge n. 194, sempre più urgente. L’esigenza di effettività del diritto all’aborto non risparmia, comunque, nemmeno il sistema statunitense, che fin dal 1973, con quello che viene definito il leading case, Roe v. Wade, ha introdotto per l’interruzione volontaria di gravidanza, una normativa tra le più liberali. La recente sentenza della Corte Suprema, nella controversia Whole Woman’s Health v.
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Hellerstedt, ha riconosciuto, infatti, l’illegittimità della TRAP law texana HB2, in quanto essa poneva a carico delle gestanti un “onere irragionevole”, rendendo complicato e riservato a poche, l’accesso alla procedura abortiva.
Appare evidente allora, come parlare di diritto all’interruzione volontaria di gravidanza includa ad oggi, chiedersi in che modo un diritto riconosciuto, e in teoria ormai acquisito dagli ordinamenti, soprattutto da quelli a tendenza permissiva, sia effettivamente attuato.
La necessità di un’effettiva applicazione della legge, diventa poi, nell’ordinamento italiano ancora più pregnante. Si è visto infatti come, a seguito della richiesta referendaria del Partito Radicale, i giudici della Consulta, con la sentenza n.35/1997, abbiano dichiarato inammissibile la proposta di abrogazione, ritenendo gli art. 1, 4, 5, 9, 12, 13 della legge n. 194 “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Ora, che tale decisione abbia rappresentato un’invasione consistente della discrezionalità legislativa è indubbio, tanto più che in tal modo, è definitivamente tramontata la possibilità di liberalizzare la procedura abortiva nei primi novanta giorni della gravidanza. Tuttavia le va riconosciuto il merito, di aver consacrato il diritto alla salute fisica e psichica della gestante, sottraendo il dettato normativo da generali tentativi di abrogazione e strumentalizzazione politica, pericolosi per i diritti della gestante, soprattutto laddove provengano da un versante conservatore. A ben vedere, è proprio quello che è successo in Spagna in seguito all’approvazione della Ley organica 2/2010. Fortemente voluta dalla maggioranza zapatista, la legge spagnola
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ha stravolto il panorama legislativo europeo, in materia di interruzione volontaria della gravidanza. Fermo il rispetto di una concezione gradualistica della vita, il legislatore iberico ha guardato alla vicenda abortiva dal lato della gestante, rinunciando quindi a quel modello, proprio anche della legislazione italiana, che pone madre potenziale e feto in posizione antagonista. In un’ottica di generale responsabilizzazione della donna, che si spinge fino ad allargare l’accesso libero all’IVG alle gestanti che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, la scelta riproduttiva viene pensata come libera e responsabile, affidata ai desideri della donna. Lo spirito evidentemente innovativo della legislazione, ha però scontentato un certo mondo politico, tanto che due mesi dopo la promulgazione della legge, il Partido Popolar ha presentato ricorso di incostituzionalità al Tribunal Constitucional. Nell’attesa che questo si pronunci, laddove anche quest’organo di giustizia costituzionale dovesse isolare, all’interno della Ley Organica, un nucleo intangibile, ci troveremmo davanti a una duplice evidenza: che la disciplina sull’interruzione volontaria di gravidanza, costituisce un terreno di incontro e di scontro tra poteri dello Stato; che l’aborto ha assunto, dopo una sudata depenalizzazione, un valore giuridico e sociale tale, da impedire qualsiasi forma di regressione legislativa.
D’altra parte, riconoscere, come nel caso italiano, che esiste all’interno della vicenda abortiva un insieme di valori di origine costituzionale che preclude tanto un’abrogazione in senso restrittivo, quanto una totale liberalizzazione, non comporta necessariamente escludere un eventuale mutamento dei termini della vicenda abortiva.
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Si ritiene infatti, che un ripensamento dell’interruzione volontaria di gravidanza, in favore di una valorizzazione dell’autodeterminazione femminile in campo riproduttivo, sia conciliabile con la soluzione proposta dal giudice delle leggi nella sentenza 35/1997. Non si intende, infatti, intaccare il diritto alla salute fisica e psichica della gestante, anzi, esso rappresenta quel parametro intoccabile che genera in capo al legislatore l’obbligo di assicurare la continuità del servizio interruttivo, pena il rischio del ripresentarsi dell’aborto clandestino, seppur, si è visto, sotto nuove forme, ma ancora a discapito delle gestanti meno abbienti.
Si tratterebbe piuttosto di ammettere che la scelta abortiva è influenzata da fattori ulteriori, rispetto all’incidenza della gravidanza sulla salute fisica e psichica, quali l’affidabilità del partner, il sostegno di una famiglia, la stabilità lavorativa, i bisogni di altri eventuali figli, la capacità emotiva e soprattutto