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L'interruzione volontaria di gravidanza tra esigenze di bilanciamento ancora aperte e possibili suggerimenti attraverso una prospettiva comparata.

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

L’interruzione volontaria di gravidanza tra

esigenze di bilanciamento ancora aperte e

possibili suggerimenti attraverso una prospettiva

comparata.

La candidata Il relatore

Cristina Luzzi Prof. Giuseppe Campanelli

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A mia nonna Vera, bellissima, per l’intelligenza e il coraggio fino alla fine.

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L’interruzione volontaria di gravidanza tra

esigenze di bilanciamento ancora aperte e

possibili suggerimenti attraverso una prospettiva

comparata.

Capitolo I

Fuori dal buio: il fondamentale contributo delle Corti

per la depenalizzazione dell’aborto. La scelta italiana.

1. Prima del diritto all’aborto: dal Codice Rocco ai

movimenti femministi. ...……… 6

1.1 Le radici di una legge: la sentenza 27/1975 della Corte

Costituzionale. ...……… 8

1.2 La strada in salita del Tribunale Federale tedesco. …. 11

1. 3 Il leading case: Roe v. Wade. ……… 15

1.3.1 Gli effetti del movimento pro life: dal South Dakota

Task Force to Study Abortion al caso Carhart. ………….. 18

1.3.2 Superare Roe: dalla privacy alla Equal protection

clause? ……….. 21

2. La legge 194/1978: il conflitto tra i diritti della gestante e

i diritti del concepito. ……… 23

3. L’aborto: non solo una questione privata. ………. 26

4. L’ aborto terapeutico. ……… 31

Capitolo II

Una questione irrisolta. L’obiezione di coscienza del

personale sanitario nell’interruzione volontaria di

gravidanza: esercizio di libertà o ostruzionismo legale?

1. L’articolo 9 della legge 194/1978: le ragioni di un

permesso. ……… 34

(4)

4

2. L’art.9 nella giurisprudenza penale e amministrativa:

un’interpretazione restrittiva. ………... 39

2.1 Il particolare caso del giudice tutelare. ………... 45

2. 2 Il problema dell’obiezione di coscienza in altri

ordinamenti: il caso Doogan e Wood nel Regno Unito. …48

3. Quanti sono gli obiettori? Quando l’obiezione diventa

“ambientale”. ………51

4. CGIL c. Italia: la decisione del comitato Europeo dei

diritti sociali. ……….55

5. Abrogare l’art. 9, la soluzione giusta? Possibili

alternative. ……… 61

5.1 I suggerimenti dell’esperienza spagnola sullo specifico

profilo dell’obiezione di coscienza ……….. 73

Capitolo III

L’aborto in Europa: un dialogo sull’effettività.” Tra

giurisprudenza “mite” della Corte EDU e nuovi spunti

del Comitato Europeo dei Diritti sociali.

1.

L’apporto della Corte Europea dei diritti dell’Uomo

al tema dell’aborto: da Tysiac v. Polonia a A, B, C v. Irlanda.

………. 78

1.1

I dubbi sull’uso del margine di apprezzamento in

materia di interruzione volontaria di gravidanza. ………. 93

1.2

P. e S. v. Polonia: un nuovo inizio? ………... 96

2.

Sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia: l’aborto

come servizio. ……… 102

3.

Ancora sull’effettività: l’orientamento del Comitato

Europeo dei diritti sociali e il parallelismo con la

giurisprudenza della Corte EDU. …..……….. 104

4.

Whole Woman’s Health v. Hellerstedt: se l’effettività

si abbina al dato scientifico. ……… 108

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5

Capitolo IV

Verso un nuovo diritto all’aborto.

1. I limiti del bilanciamento in materia di interruzione

volontaria di gravidanza. ……….... 112

1.1.Il paradossale caso Vo c. Francia. ……… 114

2. Il ruolo del padre del concepito. ……… 117

3. Se l’aborto è ineliminabile. ………... 122

4. Per una nuova 194. ……… 128

Conclusioni ………...… 135

Bibliografia ………... 145

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6

CAPITOLO I

FUORI DAL BUIO: IL FONDAMENTALE CONTRIBUTO DELLE CORTI NELLA DEPENALIZZAZIONE

DELL’ABORTO E LA SCELTA ITALIANA.

1. Prima del diritto all’aborto: dal codice Rocco ai movimenti femministi.

Delitti contro l’integrità della stirpe, così viene rubricato il reato di aborto volontario nel 1930 con la promulgazione del Codice Rocco. Con questa criminalizzazione non si intende garantire il concepito e il valore della vita in sé nel rispetto dei tradizionali valori religiosi, ma come confermato dallo stesso Alfredo Rocco nella Relazione al Re che accompagna l’introduzione del codice, assicurare protezione a un interesse nuovo: quello demografico. Alla luce dell’ondata nazionalista e delle nuove politiche coloniali che si diffondono in tutta Europa, l’incremento demografico rappresenta, infatti, la condizione indispensabile per affermare la forza dello Stato. Ecco dunque che l’aborto volontario non può che configurarsi come delitto, pericoloso per “la continuità della stirpe”, da reprimere con pene severe che vanno, come stabilito dall’art. 546 del suddetto codice, da 2 a 5 anni non solo per colui o colei che abbia provocato l’aborto, ma per la stessa donna che abbia prestato il suo consenso all’intervento1.

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7

Tale concezione, comune alla maggior parte dei paesi europei dell’epoca, va incontro a un cambiamento graduale che si avvia il 6 agosto del 1945, il giorno in cui su Hiroshima viene sganciata la bomba atomica uccidendo in un solo istante 100.000 persone, “si comprende che il modo di fare guerra è cambiato, il dato quantitativo non è più rilevante ai fini militari”2, l’incremento demografico non è più essenziale per affermare la supremazia di un paese. A questo si aggiunge il mutamento sociale del dopoguerra con l’aumento della scolarizzazione, nuovi ritmi lavorativi, il progressivo abbandono delle rigide pratiche religiose, un nuovo modo di vivere la sessualità slegato dal vincolo del matrimonio. Rilevante per l’emancipazione femminile nello specifico è l’ingresso sul mercato nel 1960 della prima pillola anticoncezionale Enovid, poiché in tal senso, diventa possibile anche per le donne come da sempre per l’uomo, controllare la propria sfera riproduttiva. In questo quadro sorgono le prime rivendicazioni femministe affidate a gruppi eterogenei e spesso in contrapposizione tra loro, che trovano nella lotta per la liberalizzazione dell’aborto un elemento di forte unificazione. In Germania nel 1971, 375 donne molto famose si espongono pubblicamente, dichiarando sulla rivista “Stern”, di aver abortito, nello stesso anno 343 donne francesi firmano un

Aborto di donna consenziente.

Chiunque cagiona l'aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni.

La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all'aborto. Si applica la disposizione dell'articolo precedente:

1. se la donna è minore degli anni quattordici o, comunque, non ha capacità d'intendere o di volere.

2. se il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero è carpito con inganno.

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manifesto dal contenuto analogo scritto da Simone de Beauvoir, pubblicato dal giornale “Le Nouvel Observateur”3. E’ l’inizio di una grande mobilitazione che mira ad attirare l’attenzione dei legislatori nazionali su una situazione drammatica, quella dell’aborto clandestino che, praticato in segreto e con mezzi di fortuna esponeva le donne non solo al rischio della detenzione, ma soprattutto al pericolo della morte. In questo clima si avvia così un processo di depenalizzazione dell’aborto, svolto prima dalla giustizia costituzionale e poi dai legislatori. Risulta in quest’ottica interessante il contributo di due organi di giustizia costituzionali europei, quello della Corte Costituzionale italiana con la sentenza n. 27/1975 e quello del Tribunale federale tedesco con due sentenze, rispettivamente del 23 febbraio 1975 e del 28 maggio 1993, e della Corte Suprema americana con la pronuncia Roe v. Wade.

1.1 Le radici di una legge: la sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale.

Nella storia della liberalizzazione dell’aborto la sentenza della Corte Costituzionale n. 27/1975 funge da modello di riferimento. In risposta alla questione di legittimità costituzionale sollevata da un giudice istruttore del Tribunale di Milano, nel corso di un

3 “Ogni anno in Francia, abortiscono un milione di donne. Condannate alla

segretezza, sono costrette a farlo in condizioni pericolose quando questa procedura, eseguita sotto supervisione medica è una della più semplici. Queste donne sono velate, in silenzio. Io dichiaro di essere una di loro. Ho avuto un aborto. Così come chiediamo il libero accesso al controllo delle nascite, chiediamo la libertà di abortire.” dal Nouvel Observateur, n. 334, 5 aprile 1971.

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procedimento penale a carico di una donna, Minella Carmosina, i giudici della Consulta riconoscono l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 del c.p. “nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della madre”. La Corte abbandona quindi i confini rigidi posti dallo stato di necessità, unica scriminante possibile per il delitto di procurato aborto, che come previsto dall’art. 54 prevede per la sua applicazione non solo l’inevitabilità e la gravità del danno o del pericolo ma anche la sua attualità, laddove spesso invece il danno o il pericolo che può derivare dalla prosecuzione di una gravidanza seppur prevedibile non è immediato. Nel far ciò la Corte riconosce e qui sta il suo contributo tutto innovativo che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. Pur negando esplicitamente la qualifica di persona al concepito, l’aborto viene quindi pensato come un rapporto di conflitto in cui intervengono se non due persone quantomeno due soggetti: l’entità concepito e la persona donna, il cui diritto alla vita e alla salute non può essere sacrificato per la prosecuzione della gravidanza, se non per volere della stessa gestante4. In questo quadro il concepito non è sfornito di garanzie, nella stessa sentenza la Corte, infatti, prevede per il concepito una tutela costituzionale grazie all’art. 2 Cost. laddove riconosce e garantisce i diritti inviolabili

4 Si sceglie volutamente di parlare della donna come gestante e non come

madre ritenendo la maternità legata a una preliminare manifestazione del consenso alla gravidanza da parte della donna, consenso qui solo ipotizzabile.

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dell’uomo e in parte all’art. 31, secondo comma della Costituzione, il quale prevede espressamente la protezione della maternità tra gli oneri dello Stato. Ma non solo, la Corte precisa che rientra tra i doveri di chi pone in essere l’aborto, operare in modo da salvare se possibile la vita del feto. Se, da un lato, quindi la Corte esclude la personalità dell’embrione, dall’altro, ne recupera il valore di vita degna di essere salvata laddove essa diventi feto. Sembra quindi sposare una concezione gradualistica della formazione della vita, ponendo le basi per una liberalizzazione dell’aborto “a termine”5.

Il merito di questa sentenza è duplice: dal punto di vista sociale, quello di aver sottratto l’operazione dell’aborto, quantomeno di quello terapeutico, alla dimensione della clandestinità a favore di personale medico specializzato, escludendo, però, del tutto da tale operazione le levatrici che fino ad allora avevano assistito le donne nei parti e negli aborti anche nelle peggiori condizioni igieniche6 e ribattezzandole in modo, come minimo inclemente, come “fattucchiere”7. Dal punto di vista giuridico, quello di aver posto le basi per il riconoscimento del diritto all’aborto, conferendo alla donna, seppure solo in condizione di pericolo per la sua vita e per la sua salute, il ruolo di soggetto preminente nella

5 R. D’ALESSIO, L’aborto nella prospettiva della Corte Costituzionale, in

Giur.cost.,1975, p. 543.

6 In merito al dramma dell’aborto clandestino si veda M. PASTORINO, I

figli che non nascono. Un’inchiesta coraggiosa sul dramma segreto delle donne italiane. Prima parte, su Noi donne, 9 febbraio 1961; ancora sul tema il film If these walls could talk, di Cher e Nancy Savoca, 1996.

7 Sul punto S. NICCOLAI, La legge sulla fecondazione assistita e l’eredità

sull’aborto, in www. costituzionalismo.it, 2005, http://www.costituzionalismo.it/articoli/177/.

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relazione con il concepito attribuendole così una iniziale forma di determinazione sul proprio corpo fino ad allora inesistente.

1.2 La strada in salita del Tribunale Federale tedesco.

Il Tribunale federale tedesco si pronuncia due volte sull’interruzione volontaria di gravidanza. La prima volta nel 1975, giudicando incostituzionale la legge del 1974 sull’accesso all’aborto nella parte in cui prevedeva la possibilità di accedere allo stesso senza alcuna giustificazione. Secondo la Corte “la vita umana” che si va formando ha una sua dignità e proprio tale dignità in un bilanciamento tra la vita del concepito e l’autodeterminazione della donna rende doverosa la protezione del nascituro, il quale diventa così titolare di un diritto assoluto alla vita. Il Bundestag approva quindi l’anno successivo una normativa molto restrittiva, la legge 18 maggio 1976, catalogando l’aborto come illecito penale giustificabile solo al verificarsi di una causa di giustificazione tassativamente prevista. Come si spiega questo orientamento della Corte in un momento in cui sia in Europa che negli Stati Uniti si va incontro a una iniziale liberalizzazione del fenomeno abortivo? E’ lo stesso Tribunale a fornire la risposta quando scrive che si tratta di una reazione all’annientamento della vita non degna di essere vissuta, alla soluzione finale e alle liquidazioni attuate dal regime nazionalsocialista come compiti dello Stato. Si ricordi, infatti, che la prima depenalizzazione dell’aborto nell’Europa Centro Occidentale si ha proprio durante il Terzo Reich; riportava infatti l’Ordinanza per la protezione del matrimonio, della famiglia e

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della maternità del 9 marzo 1943 “le persone che non sono cittadini tedeschi di etnia germanica sono esentati dall’applicazione delle prescrizioni che concernono la punizione dell’aborto”. La preoccupazione per la continuità della stirpe, la stessa che animava la previsione del delitto di procurato aborto nel codice Rocco, è ovviamente dominante anche nel sistema nazista, ma trova, coerentemente agli “ideali” di pulizia della razza sostenuti dal regime, una deroga per tutte quelle vite ritenute senza valore. Con questa premessa si spiegano sia la legittimazione degli aborti e le pratiche di sterilizzazione forzata per i non tedeschi, quanto gli aborti per motivi medici ed eugenetici in un sistema che mirava ad eliminare gli “imperfetti”8. L’approccio del Tribunale federale tedesco al tema dell’aborto, anche se distante dalle altre Corti dell’epoca, ha quindi una sua coerenza storica, che viene meno anche se non in modo radicale solo con la sentenza del 28 maggio 1993, dopo diciotto anni dalla prima pronuncia della Corte. Nel frattempo la Germania era stata riunificata e il governo federale si era trovato nella necessità di uniformare le legislazioni, spesso profondamente diverse, tra le due repubbliche. Anche la normativa in materia di aborto partecipa a questo processo di unificazione con la legge 5 agosto 1992 che mira a trovare un punto di incontro tra la Repubblica Democratica che ammetteva l’aborto entro i primi tre mesi, riconoscendo in questo periodo l’assoluta autodeterminazione della donna, e la Repubblica federale che continuava a considerare l’aborto illecito penale. Non potendo estendere la repressione penale dell’aborto ai

8 Sul punto H. SCHNEIDER, Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, Milano,

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Laender dell’ex Repubblica democratica tedesca, il legislatore, con una soluzione compromissoria, depenalizza l’aborto. Grazie alla nuova legge la donna può abortire entro i primi tre mesi di gravidanza; l’accesso all’intervento non è libero ma sottoposto, da qui l’appellativo di “modello discorsivo”9, a una previa consulenza da parte di un funzionario sanitario dello Stato. E’ proprio l’obbligatorietà della consulenza che “comporta il ritirarsi dello strumento penale”10.

Su tale legge interviene il Tribunale federale tedesco, dichiarando incostituzionale la legittimità dell’aborto. Pur non essendo più configurabile come delitto, la procedura abortiva, al di fuori delle cause di giustificazione, resta illegittima, di tale illegittimità è consapevole il funzionario statale che deve porre in essere una consulenza volta a persuadere la donna a proseguire la gestazione11. Si delinea quindi un dovere di protezione da parte dello stato a favore della vita prenatale, che tuttavia non si accompagna a politiche inclusive per le donne e in particolare per le donne madri, decidendo il governo federale di non conservare quelle misure di welfare state della Repubblica democratica che per molto tempo avevano favorito, con una fitta rete di centri per l’infanzia, le lavoratrici madri. Il valore della vita prenatale, alla quale la Corte continua ad attribuire dignità, non è però più traducibile in un diritto assoluto alla vita, non elevando infatti la

9 M. D’AMICO, Donna e aborto nella Germania riunificata, Milano, 1994,

p. 48.

10 M. D’AMICO, I diritti contesi. Problematiche attuali del

costituzionalismo, Milano, 2016.

11 Gli aborti illegittimi sembrerebbero esclusi dall’assicurazione di malattia.

La spesa dell’operazione interamente a carico della paziente fungerebbe da sanzione di tipo economico. Possiamo assimilare la categoria dell’illegittimità a una illiceità amministrativa.

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Legge fondamentale la protezione del concepito al di sopra di altri valori. Questo fa sì che un conflitto tra autodeterminazione della donna e diritto alla vita del concepito, possa essere risolto alla luce del principio di proporzionalità.

L’aborto seppur illegittimo diventa praticabile, il concepito è in questo caso, il termine privilegiato di un rapporto conflittuale che vede la donna che ricorre all’interruzione volontaria di gravidanza costretta a giustificare la sua decisione. A ben vedere la necessità di una giustificazione per l’accesso all’aborto è rintracciabile anche nella sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale italiana laddove afferma che “la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla” nonostante i giudici italiani riconoscano alla donna, all’interno della vicenda abortiva, un seppur embrionale primato. Sembra quindi, che i giudici definiscano l’aborto come una situazione avversariale tra donna e concepito. Questo conflitto viene risolto all’interno di un bilanciamento di interessi, in cui a essere privilegiato può essere il concepito o la gestante. Quello che resta invariato in entrambe le soluzioni è che la scelta abortiva va incontro ad una inevitabile spiegazione da parte della gestante. Il dubbio è se tale peculiarità sia da intendere come momento di controllo sociale o mezzo a tutela della donna12.

12 In questa costruzione della vicenda abortiva, ha sicuramente avuto un peso

la difficoltà della giurisprudenza e prima ancora della scienza, di pronunciarsi sulla natura personale o meno dell’embrione. Per un approfondimento su tale aspetto si rimanda a P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione. Concretezza dei “casi” e astrattezza della norma, Milano, 2007, p. 105 ss., L. VIOLINI, A. OSTI, Le linee di demarcazione della vita umana, in M. CARTABIA (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti Europee, Bologna, 2007.

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1.3 Il leading case: Roe v. Wade.

Tra i contributi dei Tribunali Costituzionali in materia di interruzione volontaria di gravidanza, deve necessariamente essere ricordata la decisione storica della Corte Suprema degli Stati Uniti, emessa nel 1973, in occasione della controversia Roe v. Wade. Il panorama legislativo in tema d’ aborto, su cui incide la pronuncia della Corte, si presentava, all’epoca, come molto eterogeneo; ciascuno Stato della Federazione, infatti, adottava in materia una propria normativa. Circa trenta Stati qualificavano l’aborto come reato e non ammettevano alcuna causa di giustificazione, tredici Stati limitavano l’accesso all’IVG ai casi di incesto, violenza sessuale e malformazioni fetali, in tre Stati invece la condizione per abortire era rappresentata dal pericolo per la vita della gestante o dall’origine violenta della gravidanza. Solo quattro Stati invece, richiedevano per l’accesso alla procedura abortiva la semplice istanza della gestante.

Ora, il caso in esame, vede coinvolta una giovanissima donna, Jane Roe13. La ragazza, proveniente da un contesto sociale difficile, aveva sposato all’età di sedici anni un uomo dal temperamento molto violento, dal quale aveva già avuto due figlie. Separatasi dall’uomo, la donna vive un periodo di dipendenza dalle droghe e dall’alcol e all’età di ventitré anni si ritrova nuovamente incinta. Convinta di voler interrompere la

13 Si è utilizzato questo nome per ragioni di tutela della riservatezza. La

gestante in realtà è Norma Leah McCorvey, deceduta a febbraio 2017. Dopo Roe v. Wade, la donna è stata per lungo tempo un’attivista del movimento abortista. Nel 1995 però, ha aderito al cristianesimo protestante e iniziato la sua attività nei movimenti pro life, rinnegando la battaglia di Jane Roe.

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gravidanza, la donna è impossibilitata dalla legislazione vigente nello Stato del Texas, dove risiede, che qualifica l’aborto come reato. La gestante viene allora contattata da un pool di avvocate, determinate a portare il suo caso davanti alle autorità giurisdizionali affinché le potesse essere riconosciuto il diritto ad abortire. Instaurata la causa dinanzi alla Corte Suprema nel 1972, la decisione della Corte viene emessa il 22 settembre 1973. Quello su cui essenzialmente i giudici erano chiamati a pronunciarsi era chiarire se vi fosse nella Costituzione federale una norma che, potesse ammettere l’interruzione volontaria di gravidanza, anche in assenza di problemi di salute della gestante o del concepito; se, in sostanza, fosse possibile e conforme a Costituzione, elevare a requisito legale di accesso all’IVG la semplice richiesta della donna, anche laddove non sorretta da alcuna circostanza che non fosse il semplice desiderio di interrompere la gravidanza.

La Corte Suprema accoglie tale richiesta e ritiene che, in materia di IVG, l’ingerenza statale debba necessariamente essere limitata, dovendo il diritto all’aborto essere ricondotto nel diritto alla privacy riconosciuto dal Quattordicesimo emendamento. Tale diritto va inteso, infatti, come diritto alla libera scelta che ciascuno esercita, in relazione a tutto ciò che attiene alla propria sfera più intima. L’esercizio di tale libertà però, nel caso dell’aborto, non è incondizionato, ma legato al fattore temporale, nella misura in cui l’interruzione volontaria di gravidanza può essere richiesta dalla gestante per qualsiasi motivo fino a quando il feto non diventi viable, cioè in grado di sopravvivere, anche

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con l’ausilio di un supporto artificiale, al di fuori del corpo materno14.

I giudici specificano, probabilmente anche al fine di rafforzare la tenuta del diritto dell’aborto nei singoli Stati, che il concepito non possa essere considerato “persona”, infatti, “la Costituzione non definisce il concetto di “persona” in molte parole” ma quando lo fa “l’uso del termine è tale da avere applicazione solo successivamente alla nascita” e ancora, affermano che “non spetta a noi risolvere la complessa questione di quando inizia la vita. Quando i medici, i filosofi, e i teologi, non sono in grado di giungere ad un consenso, il compito del giudice, a questo stadio dello sviluppo delle conoscenze umane, non è di speculare sulla risposta”15.

A questo punto è chiaro perché, quando si fa rifermento alla sentenza Roe v. Wade si parli di leading case o di pronuncia storica. Non solo la Corte Suprema, infatti, ha ancorato la legittimità dell’aborto alla natura non personale del concepito, e a questo trend, si è visto, si è uniformata anche la Corte Costituzionale italiana, ma i giudici americani sono stati i primi, a fondare il diritto all’aborto sul diritto costituzionale alla privacy, intesa come autodeterminazione o, come ha scritto il filosofo americano Dworkin, quale “sovranità delle decisioni personali”16.

14 Il feto acquista autonomia tra la ventiquattresima e la ventottesima

settimana di gestazione.

15Roe v. Wade, 410 U.S. 113, 160.

16R. DWORKIN, Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, 1993, p.

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1.3.1 Gli effetti del movimento pro life: dal South Dakota

Task Force to Study Abortion

al caso Carhart.

Seppure la riconduzione dell’aborto al diritto alla privacy, abbia ormai acquisito una certa stabilità nel sistema americano, il discorso nazionale sull’aborto non si è sopito. Il dibattito pubblico e politico è permeato, infatti, da una forte enfasi religiosa, emersa anche nelle ultime elezioni presidenziali, dove, proprio il tema dell’interruzione volontaria della gravidanza, ha rappresentato terreno di forte scontro tra Repubblicani e Democratici.

Dagli anni di Roe v. Wade, gli argomenti dei movimenti antiabortisti sono profondamente mutati. Essi hanno fatto la loro prima comparsa durante l’amministrazione Reagan, con la diffusione di uno studio che mirava a dimostrare la stretta correlazione tra l’interruzione della gravidanza e una peculiare forma depressiva: la sindrome post traumatica d’aborto. Secondo lo psicoterapeuta Rue, padre fondatore di tale teoria, l’aborto rappresenterebbe, infatti, per ogni gestante un “cavallo di Troia”, un atto che nessuna donna sufficientemente informata e non sottoposta a pressioni esterne sceglie consapevolmente, le cui conseguenze sono l’inevitabile sconvolgimento dell’equilibrio psico-fisico della gestante. Seppure le teorie del Dottor Rue siano state screditate negli anni successivi dal mondo scientifico, esse hanno aperto la strada a una nuova strategia antiabortista che ridisegna il rapporto tra concepito e gestante. In questa nuova ottica, le vittime dell’interruzione di gravidanza sono due, il concepito in primis e la donna che inspiegabilmente tradisce la

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sua funzione biologica, ritrovandosi ad affrontare necessariamente atroci sensi di colpa e sindromi depressive17. Questa visione è andata lentamente incontro, all’interno del dibattito americano, a una strumentalizzazione politica tale da inficiare anche le iniziative legislative. In particolare, si fa riferimento all’iniziativa del legislativo del South Dakota che, nel 2005, ha disposto la creazione di una Task Force to Study Abortion, attribuendogli il mandato di raccogliere le testimonianze di medici, psicologici, assistenti sociali, scienziati e donne che avevano affrontato, almeno una volta nella vita, un’interruzione volontaria di gravidanza. Lo studio mirava a valutare la pratiche abortive, il livello di consapevolezza circa le pratiche utilizzate nell’intervento da parte della donna, gli effetti dell’aborto sulla salute fisica e mentale, il rapporto tra gestante e unborn child, la capacità di quest’ultimo di provare dolore, l’eventuale sussistenza di un interesse dello Stato o della donna o del concepito tale da giustificare una modificazione delle leggi sull’aborto. La conclusione a cui giunge il rapporto è che l’aborto fa male alla salute delle donne, sia psichica che fisica, provoca tumore al seno, aumenta il rischio di morte violenta e suicidio. E non solo, l’IVG aumenta vertiginosamente anche la possibilità di ammalarsi di depressione o schizofrenia, produce regressione cognitiva, impedisce la costruzione sana di un rapporto con altri

17 Seppure non esiste un costante nesso causale tra aborto e successiva

depressione, è innegabile che, per alcune gestanti, la sottoposizione consapevole all’intervento abortivo, provochi successivamente gravi stati di ansia o di depressione. Premesso che si tratta però di una eventualità, la conseguenza di tale situazione non può essere comunque la restrizione del diritto all’aborto; a meno di non voler dire, che ogni cittadino, uomo o donna che sia, deve essere protetto da tutte quelle situazioni della vita che richiedono una forte assunzione di responsabilità.

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figli. Ma il dato più allarmante si rinviene nel pericolo che le donne che hanno subito un’interruzione volontaria della gravidanza abusino dei propri figli, rischio, stando al rapporto della Task force, superiore del 144% nelle donne che hanno subito una IVG18.

A seguito della presentazione del Rapporto, il legislativo del South Dakota adotta una legge che mira a criminalizzare ogni forma di aborto, prevedendo però una sanzione solo per il medico e non per la gestante. La legge è stata, fortunatamente abrogata con referendum, ma in dottrina taluno sostiene19, che gli argomenti dei movimenti pro life e il Rapporto, stiano influenzando la giurisprudenza della Corte Suprema in materia di aborto. In particolare, nella vicenda Gonzales, Attorney General v. Carhart et al., la Corte Suprema ha affermato la costituzionalità del Partial- Birth Abortion Ban Act,(anno 2003)20. Si tratta di un provvedimento normativo con cui il Congresso ha vietato la procedura abortiva nota come D&E (Dilation and Evacuation)21 classificandola come procedura “raccapricciante e inumana” e affermando che, essa non è mai necessaria dal punto di vista medico, e questo nonostante larga

18Si veda il Rapporto del South Dakota Task Force to Study Abortion, 2005,

p. 46.

19Sul punto si veda S. MANCINI, Un affare di donne. L’aborto tra libertà

eguale e controllo sociale, Lavis, 2014, p. 159 ss.

20 Con lePartial-Birth Abortion Ban Acts si fa riferimento a leggi che vietano

determinate procedure abortive utilizzate nelle IVG dopo il primo trimestre di gravidanza.

21 Con Dilation and Evacuation, D&E, si fa riferimento, appunto, alla

procedura abortiva maggiormente usata negli aborti successivi al primo trimestre di gravidanza. Essa consiste nella preliminare foratura del cranio e conseguente aspirazione del tessuto nervoso del feto in formazione. Permane il dubbio comunque che si tratti della procedura utilizzata prevalentemente, non tanto perché garantisce una maggiore sicurezza alla donna, ma, perché non richiede il ricovero della paziente e abbatte quindi i costi dell’intervento.

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parte del mondo scientifico ritenga che, soprattutto negli aborti terapeutici successivi al primo trimestre, essa rappresenti la procedura preferibile davanti a certe patologie. Tale orientamento rappresenta una novità nella giurisprudenza della Corte Suprema che, nel 2000, invece, aveva riconosciuto l’incostituzionalità del Partial-Birth Abortion Ban Act adottato dallo Stato del Nebraska nella parte in cui vietava la D&E. C’è il dubbio che stia maturando internamente alla Corte Suprema, una nuova sensibilità pro life favorita dalla nomina, successiva all’anno 2000, del giudice supremo profondamente cattolico Samuel Alito, e da report quali quello della Task Force del South Dakota.

1.3.2 Superare Roe v. Wade: dalla

privacy

alla Equal Protection Clause?

Allarmata da quello che sembra essere il nuovo trend pro life della Corte Suprema, la giudice Ginsburg, impegnata da sempre nella lotta alla discriminazione di genere, prima come avvocata e dopo come giudice suprema, ha redatto nella sentenza Carhart, di cui sopra, una dissenting opinion in cui sostiene che “impugnare le leggi che restringono in modo indebito il novero delle procedure abortive non si fonda su di una nozione generale di privacy, ma piuttosto sulla preoccupazione di garantire l’autonomia delle donne di determinare il corso della loro vita, e quindi di godere di un eguale status di cittadine”. Secondo la giudice, le restrizioni del diritto all’aborto basate sulla necessità

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di proteggere la donna da gesti autolesionisti, poggiano su stereotipi di genere legati alla capacità e ai ruoli femminili, stereotipi almeno in linea di principio, sempre proibiti dalla Equal Protection Clause. Una possibile strategia quindi, per mettere al riparo il diritto all’aborto delle donne da ingerenze di stampo paternalistico, sarebbe garantire all’interruzione volontaria di gravidanza una protezione costituzionale fondata sull’uguaglianza tra cittadini, sicuramente più forte del diritto alla privacy.

Più radicale però, la critica mossa alla dottrina della privacy dalla giurista americana, Catharine A. MacKinnon, docente di diritto presso la University of Michigan Law School, che ha sostenuto come la scelta di ricomprendere il diritto all’aborto nell’alveo di protezione del diritto alla privacy, abbia relegato la scelta riproduttiva della donna alla sfera privata, astraendola da una realtà domestica e sociale che non la vede mai su un piano di effettiva uguaglianza con l’uomo. Si aggiunga che l’incondizionato accesso all’aborto da parte della donna, ha contribuito paradossalmente a rassicurare l’uomo, nella misura in cui esso garantisce alle donne la stessa libertà riproduttiva che il maschio ha biologicamente. Si è caduti, insomma, nel solito errore, e cioè considerare il modello maschile come il canone, lo standard a cui ambire.

Ora, ad avviso di chi scrive tali posizioni sono più che condivisibili, e sicuramente un futuro allontanamento del diritto all’aborto dalla privacy a favore dell’eguaglianza, porrebbe le donne maggiormente al sicuro dalle richieste dei movimenti pro life. Tale misura sarebbe realmente innovativa però, laddove

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portasse, anche un sistema come quello americano improntato al liberismo, a “interessarsi” alle scelte riproduttive della donna, nella misura in cui esse non possono essere astratte dalla dimensione politica e sociale in cui maturano.

2. La legge 194/1978: il conflitto tra i diritti della gestante e i diritti del concepito.

Con la sentenza n. 27/1975, la Corte Costituzionale apre la strada al riconoscimento del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Il 18 maggio 1978 viene infatti approvata in Senato con 160 voti contro 148 la legge n. 194 recante Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza. Proprio sulla scia della recente sentenza della Corte, che da subito riconosce l’esistenza di una tutela costituzionale per il concepito, allo stesso modo il legislatore esprime già nel titolo della legge e successivamente all’art. 1 il rispetto dell’ordinamento per la vita prenatale. Si stabilisce, infatti: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”. Viene quindi subito premessa la tutela della vita umana nel suo senso più ampio e l’impegno dello Stato nell’assicurare il diritto alla procreazione cosciente e responsabile; è questo l’unico punto della legge in cui si può intuire un rimando alla coppia come luogo della vicenda procreativa, immediatamente superato quando si parla di valore sociale della maternità e non di genitorialità. Da tale maternità viene escluso l’uomo che, si ritrova citato esplicitamente come

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padre del concepito non prima dell’art. 5, laddove in merito all’attività dei consultori si prevede che gli stessi “ hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti”. Anche nel sistema italiano si dà vita quindi, come si approfondirà in seguito, a un modello discorsivo simile a quello tedesco in cui l’attività del consultorio diviene essenziale nel percorso di scelta della donna. Sempre all’art.1 si aggiunge che: “l 'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.” Tale specificazione è importante se pensiamo che solo un anno dopo, nel 1979, in Cina viene attuata la “politica del figlio unico”, politica che ha costretto per ben trentasei anni,22 le famiglie cinesi ad avere un solo figlio al fine di limitare la crescita demografica del Paese, prevedendo provvedimenti restrittivi per chi decidesse di portare avanti una seconda gravidanza e dando luogo, stando alle denunce di gruppi

22 La legge del figlio unico, introdotta nel 1979 da Deng Xiaoping, è stata

recentemente sostituita da quella del secondo figlio, in seguito a una decisione del governo cinese assunta in occasione del plenum del Comitato centrale del Partito Comunista il 29 ottobre 2015.

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umanitari, anche alla pratica atroce degli aborti forzati in fasi molto avanzate della gestazione23.

Con specifico riguardo all’interruzione volontaria della gravidanza, occorre concentrare l’attenzione sulla regolamentazione legislativa. In tal senso, accettando la stessa concezione gradualistica della vita, già ricavabile dalla sentenza della Corte, il legislatore ammette il ricorso all’aborto entro i primi novanta giorni per la donna che “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Il diritto della donna all’aborto viene, dunque, ancorato all’art. 32 Cost., la situazione di pericolo per la salute fisica e psichica della donna rende legittima la pratica abortiva. E’ evidente anche in questo caso la costruzione in termini di conflitto del rapporto tra gestante e concepito. Quest’ultimo è titolare di un interesse alla vita, individuato dalla sentenza n. 27/1975 negli artt. 2 e 31 della Costituzione; alla donna invece si riconosce il fondamentale diritto alla salute fisica e psichica. Ne deriva che nel bilanciamento tra i valori coinvolti, il prodotto del concepimento, non possa venire sacrificato da una semplice mancanza di desiderio di maternità o da una sensazione di inadeguatezza della donna o della coppia, pur comportando la

23 A questo si aggiungeva, a causa del radicato desiderio di un figlio maschio,

l’elevato numero di interruzioni volontarie di gravidanza quando dall’ecografia si riscontrava il sesso femminile della nascitura. Per ridurre lo squilibrio demografico di genere il governo cinese ha vietato l’ecografia in gravidanza.

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gravidanza non solo la gestazione, ma oneri di cura che durano per gran parte della vita del genitore. Solo una situazione di pericolo per la salute fisica e psichica della gestante è tale da giustificare l’aborto. Si tratta di una condizione che deve essere valutata e accertata da un medico di fiducia della donna, o da un medico del consultorio o di una struttura socio sanitaria. All’esito di tale confronto, il medico rilascia un certificato attestante lo stato di gravidanza e la volontà di interrompere la gestazione, ed esorta la donna “a soprassedere per sette giorni”. Solo dopo tale periodo di riflessione, che laddove la gestante sia già pienamente convinta potrebbe tradursi, ad avviso di chi scrive, in un ulteriore motivo di stress psicofisico, la donna può presentarsi presso una delle strutture pubbliche adibite al servizio. Tornano in mente le parole di apertura della legge, se infatti l’aborto non rientra nelle normali vicende riproduttive della donna guidate solo dalla sua libertà e dai suoi desideri, ma è piuttosto, stando al testo legislativo, un atto necessario per salvaguardare la sua salute, una sorta di misura urgente o precauzionale, non si comprende come si possa parlare di diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Forse tale premessa sarebbe stata più sensata in una legge fondata esclusivamente sull’effettiva autodeterminazione della donna.

3. L’aborto: non solo una questione privata.

La regolamentazione dell’interruzione volontaria di gravidanza conclude un processo, avviatosi a metà del ‘700, che ha come esito la rilevanza pubblica dell’aborto. E’ il 1774 quando il

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medico inglese William Hunter pubblica il primo manuale anatomico specialistico “Anatomia degli uteri gravidi” rappresentando con trentaquattro incisioni su rame in folio l’utero gravido e il feto nel suo sviluppo; seguono l’introduzione dell’esplorazione vaginale,24l’invenzione dello stetoscopio che consente per la prima volta di ascoltare un battito cardiaco fetale, la scoperta dei raggi X a fine Ottocento fino all’apparecchio ecografico negli anni Sessanta del Novecento. La gravidanza smette di essere un fatto semplicemente interno alla donna, se prima, infatti, l’indice dello stato interessante era dato dal primo movimento del feto rilevabile solo dalla gestante, ora essa è uno stato oggettivo ufficializzato dal medico. Come scrive Barbara Duden «in pratica la donna viene scorticata, le viene tolta la pelle. Il confine tra dentro e fuori scompare»25. Il ventre delle donna diventa d’improvviso interessante, non solo per la Chiesa, ma anche per la politica che a partire dalla rivoluzione francese vede nella gravidanza un atto di patriottismo, il feto incarna quel futuro cittadino che potrà portare ricchezza e profitto allo Stato. E’ stato evidenziato come tale idea trovi poi una degenerazione nel Novecento quando, con i nazionalismi, si criminalizza l’aborto al fine di proteggere l’interesse demografico. Su queste basi e con l’urgenza di porre fine agli aborti clandestini con cui spesso insieme ai “futuri cittadini” si perdevano anche le future madri, si avvia quel processo di depenalizzazione e

24 Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 i medici iniziano a palpare il basso

ventre delle donne, in principio solo delle prostitute e delle nubili incinte, per confermare lo stato di gravidanza. Si supera la barriera del corpo femminile, fino a quel momento inviolabile anche per il medico, il quale doveva limitarsi, ai fini della diagnosi, ad ascoltare i sintomi riportati dalle pazienti.

25 B. DUDEN, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del

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regolamentazione dell’aborto. L’aborto esce dalle stanze private delle donne e diventa, come nel caso italiano, un affare di cui lo Stato deve occuparsi, alla luce di quella tutela sociale della maternità prevista dall’art. 1 della legge n. 194.

E’ proprio a questa tutela sociale che deve essere ricondotta la procedura disegnata dall’art. 2 della legge n. 194 che affida ai consultori il compito di: “far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. I consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita” e ripresa nell’art. 5: “Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.” Lo stesso onere grava anche sul medico di fiducia laddove la donna preferisca rivolgersi a lui e non ad un consultorio, in tal senso si stabilisce che “la informa sui diritti a

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lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché‚ sui consultori e le strutture socio-sanitarie”. Anche il nostro sistema adotta, dunque, un modello discorsivo simile a quello tedesco. Pur restando la scelta finale nella disponibilità della donna, non avendo il dottore nei primi novanta giorni alcun potere di veto, alla gestante toccherà se non propriamente giustificare la propria richiesta di interruzione della gravidanza, quantomeno ascoltare le soluzioni alternative proposte. E’ innegabile che con questo sistema si sia quantomeno tentato di attuare l’art. 3 della Cost. permettendo, almeno sulla carta, alla donna meno abbiente di decidere della propria gravidanza con la stessa tranquillità di una donna benestante26. Si aggiunga poi che, in questo momento di confronto, la professionalità del medico riveste un’importanza cruciale, nella misura in cui ad egli spetta accogliere la gestante ma non coartare la sua volontà. D’altronde, è proprio allo specialista che si affida il compito di accompagnare qualsiasi paziente nella scelta terapeutica con empatia e solidarietà.

Il rischio che tale procedura si traduca però in un momento di vero e proprio controllo sul corpo della donna c’è, ed è tanto più ampio se si guarda all’impostazione generale della legge che sembra disegnare l’aborto come extrema ratio, una sorta di intervento a cui la donna potrà accedere solo laddove i suggerimenti del medico non siano sufficienti ad eliminare quella

26 Per l’aborto terapeutico il modello discorsivo si fa più affievolito, seppure

alcuni lo ritengano implicito nell’art. 7 laddove prevede l’intervento dei medici ed eventualmente di specialisti. Questa decisione del legislatore è poco chiara, se la situazione sociale ma soprattutto economica della donna e della coppia influisce sulla decisione di proseguire o meno una gravidanza “regolare” ancora di più tale aspetto diventa determinante laddove si prospetti la certezza o l’alta probabilità di un figlio gravemente malato.

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situazione di pericolo per la sua salute fisica e psichica legata alla prosecuzione della gravidanza e solo dopo che sia trascorsa una pausa di riflessione di sette giorni. Sembra quasi che il legislatore sottenda un’idea, e cioè che abortire sia una scelta tragica a cui la donna, naturalmente portata alla maternità, ricorre perché non ha alternative. Da carnefice del suo ventre, la gestante sembrerebbe diventare vittima del suo stesso gesto; una donna bisognosa di cura e protezione, come sembra aver dichiarato proprio la Corte Costituzionale, quando con la sentenza n. 35/1997 riconoscendo il contenuto costituzionalmente vincolato della 194, ha sostenuto che la procedura che circonda l’accesso all’aborto realizza quel bilanciamento tra donna e concepito “lasciando quindi la gestante libera ma non abbandonata”. Nella stessa logica di ambigua solidarietà e generale disapprovazione per la procedura abortiva, rientrano provvedimenti come quelli adottati dall’Asl di Bari che, a ottobre 2016, fa recapitare a una ragazza che ha appena subito una interruzione volontaria di gravidanza nell’Ospedale di Fallacara- di Venere, un documento con cui le augura che quello sia il suo unico aborto e non solo, aggiunge: “ L'ivg ha delle implicazioni di ordine morale, sociale e psicologico, è non solo una mera procedura chirurgica o farmacologica ma un rischio per la stabilità emotiva della donna con possibili ripercussioni sul piano relazionale. Perciò si dovrà adottare un valido metodo contraccettivo affinché la vita affettiva e sessuale possa svolgersi serenamente”27. Se a queste riflessioni aggiungiamo che la

27 Da La Repubblica.it, 23 ottobre 2016,

http://bari.repubblica.it/cronaca/2016/10/23/news/bari_aborto_lettera_asl-150375382/.

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procedura abortiva è di quasi esclusiva competenza del personale sanitario impiegato in strutture pubbliche, è evidente che non possa più parlarsi dell’aborto solo come di una questione privata.

4. L’aborto terapeutico.

Sempre nel nome del diritto alla salute della gestante, il legislatore introduce la possibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, distinguendo due ipotesi:

• la prima, art. 6 lett. a), legittima il ricorso all’interruzione di gravidanza oltre i 90 giorni in una situazione di grave pericolo per la vita delle donna causata dalla gravidanza o dal parto. Alla luce dello stato avanzato di gravidanza in cui ciò può avvenire, sorge in capo al medico, ai sensi dell’art.7, l’obbligo di intervenire, cercando di salvaguardare la vita del feto che abbia già una possibilità di vita autonoma.

• la seconda, art. 6 lett. b), si riferisce ad un arco temporale limitato che va dal novantesimo giorno al momento in cui il feto assume possibilità di vita autonoma. In questo periodo, laddove “siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”, è possibile chiedere l’interruzione della gravidanza.

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Nel bilanciamento tra gli interessi della gestante e quelli del concepito, il grave pericolo per la vita della madre ha una peso tale, da rendere ovviamente legittimo il ricorso all’IVG in qualunque momento. Necessita invece di un chiarimento in più l’art. 6 lett. b). Va da subito specificato che non è l’esistenza o la gravità di patologie, malformazioni o anomalie a legittimare il ricorso all’aborto terapeutico (si dovrebbe altrimenti ammettere l’esistenza nel nostro ordinamento dell’aborto eugenetico), ma piuttosto l’incidenza di tali situazioni sulla salute fisica e psichica della donna. Esiste quindi un vero e proprio nesso causale tra la situazione patologica del concepito e il danno alla salute della gestante. E non solo, l’orientamento della Corte di Cassazione, tutela pienamente il diritto alla salute della donna garantendole l’accesso all’aborto terapeutico anche quando la patologia del concepito sia non accertata, ma solo ipotizzabile e tale da causare uno stress fisico o psichico della donna, non conciliabile con la prosecuzione della gravidanza28.

Dalla disciplina dell’aborto terapeutico emerge ancor di più la concezione gradualistica della vita umana adottata dalla Corte prima e dal legislatore poi. Interruzione volontaria “libera” nei primi 90 giorni di gestazione, aborto terapeutico sottoposto a condizioni sempre più stringenti man mano che il feto acquisisce autonomia. Seppure taluni in dottrina contestino, la liberalizzazione dell’aborto sottoposta ad un termine29, ritenendo

28 Sulla giurisprudenza in merito alla donna e al concepito nell’aborto

terapeutico si veda A. DE BLASI, I limiti della tutela del concepito tra Corte di Cassazione e Corte Costituzionale, in www.costituzionalismo.it, 2004, http://www.costituzionalismo.it/articoli/164/.

29 Sul punto si veda, T. PITCH, Un diritto per due, Milano, 1998, p. 93 ss.,

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che in un’ottica di responsabilizzazione della donna la previsione di un termine risulti superflua, tali teorie, ad avviso di chi scrive, finiscono, però, per minimizzare il concepito e ridurre l’aborto a un comune atto di disposizione del proprio corpo. Non si vuole con questo riconoscere all’embrione la qualifica di persona, ma piuttosto quella di possibilità di vita umana, che diventa tanto più concreta e quindi meritevole di protezione quanto più lo stato di gravidanza è avanzato.

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CAPITOLO II

UNA QUESTIONE IRRISOLTA. L’OBIEZIONE DI COSCIENZA DEL PERSONALE SANITARIO

NELL’INTERRUZIONE VOLONTARIA DI GRAVIDANZA: ESERCIZIO DI LIBERTA’ O

OSTRUZIONISMO LEGALE?

1. L’art. 9 della legge 194/1978: le ragioni di un permesso.

La graduale uscita dell’aborto da una dimensione esclusivamente privata, viene completata con l’affidamento della procedura al personale medico specializzato, impiegato in strutture pubbliche30.

Con l’art. 9 della legge n.194, il legislatore riconosce a tale categoria la possibilità di sollevare obiezione di coscienza sottraendosi, con una dichiarazione unilaterale e formale resa al medico provinciale o al direttore sanitario, all’intervento abortivo. Se da un lato l’obiezione alla leva militare prevista dalle

30 Non si può parlare di pubblico impiego nel caso del personale medico delle

case di cura, autorizzate dalla Regione a praticare, solo nei primi 90 giorni della gravidanza, l’IVG. Tale competenza, non è esclusiva ma concorrente come emerge dall’art. 8 della legge: “L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell’articolo 20 della legge 12 febbraio 1968, numero 132, il quale verifica anche l’inesistenza di controindicazioni sanitarie. Gli interventi possono essere altresì praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui all’articolo 1, penultimo comma, della legge 12 febbraio 1968, n. 132, e le istituzioni di cui alla legge 26 novembre 1973, numero 817, ed al decreto del Presidente della Repubblica 18 giugno 1958, n. 754, sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta. Nei primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico ginecologici”.

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legge 772/1972 (ed oggi non più in vigore) imponeva all’obiettore di sottoporsi prima, alla valutazione di una commissione ad hoc che valutava la sincerità e la fondatezza della sua richiesta, e successivamente di porre in essere una prestazione personale sostitutiva, quale il servizio civile o il servizio militare non armato, come forma alternativa di adempimento al dovere di difesa della patria; dall’altro, invece, l’obiezione di coscienza del personale sanitario viene invece introdotta dal legislatore come totalmente incondizionata: per questo gruppo di soggetti non ci sono oneri sostitutivi,31 controlli, il medico provinciale o il direttore sanitario che riceve le dichiarazioni unilaterali le accoglie infatti in modo automatico32.

Tale favor del legislatore per l’obiezione del personale medico sanitario è comprensibile se calato nel 1978. Non si intendeva infatti, con l’introduzione della legge n.194, costringere specialisti e specializzandi in ginecologia, vicini al cattolicesimo o comunque a una più generale concezione sacra della vita, a porre in essere un’attività contraria al proprio sistema valoriale,

31 Sulle perplessità causate dalla mancanza di una prestazione alternativa per

il personale medico obiettore si veda A. PUGIOTTO, Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1995.

32 In merito alle differenze tra le due forme di obiezione scrive G.

BRUNELLI, L’interruzione volontaria della gravidanza: come si ostacola l’applicazione di una legge ( a contenuto costituzionalmente vincolato), p.846, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di) Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Scritti in onore di Lorenza Carlassare, III, Napoli, 2009, regole diverse che si traducono, nel primo caso, in una restrizione dell’autonomia di scelta del soggetto che intende obiettare, e che nel secondo gli aprono invece una comoda strada tutta in discesa. Il che, mi pare, dice molto sulla permanenza nella coscienza sociale di strutture archetipe legate ai ruoli di genere: il maschio ha l’obbligo di difendere in armi il territorio, la femmina quello di assicurare la riproduzione di specie. Chi non si attiene a questi modelli deve essere ostacolato.

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attività fino a quel momento vietata dallo stesso codice penale. Se quindi, tale ipotesi obiettoria incondizionata, appare sul nascere ragionevole, oggi, a quarant’anni dalla legalizzazione dell’aborto, alla luce soprattutto dell’elevato numero di obiettori nelle strutture pubbliche, appare meno giustificabile. Con questo, non si vuole negare in toto il diritto all’obiezione di coscienza del personale medico sanitario, ma rideterminarne piuttosto i confini.

Occorre partire da una evidenza: dietro ogni caso di obiezione c’è un “disagio della coscienza”33. Scrive in merito Capograssi: «obbedire all’ordinamento positivo è dovere, che la coscienza sente, ma la coscienza sente anche di obbedire ad altre leggi. Nella varia mobilità della storia può essere che tra queste varie esigenze e leggi si mantenga la connaturale armonia che è nella loro essenza, ma può essere che, nella capricciosa applicazione al concreto che ne fanno gli uomini nasca il conflitto»34. Davanti a tale conflitto, l’ordinamento ha due possibilità: può restare indifferente, poiché percepire come più o meno doverose o morali certe azioni, rimane, nei confini della legalità, una scelta privata del soggetto; oppure può riconoscere come meritevole di tutela l’esigenza dell’individuo di discostarsi dal dettato normativo. Il nostro sistema ha preferito questa ultima soluzione e ha ammesso tre ipotesi di obiezione di coscienza: al servizio militare, all’interruzione volontaria di gravidanza e alla sperimentazione animale.

33 F. GRANDI, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, Napoli, 2014,

p.86.

34 G. CAPOGRASSI, Obbedienza e coscienza, in Foro italiano, II, 1950,

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Ora, è opportuno chiedersi, se si tratti di una esclusiva permissio del legislatore, come tale soggetta anche ad abrogazione, o se invece nell’obiezione di coscienza, sia possibile rintracciare un qualche fondamento di natura costituzionale che le attribuisca una maggiore resistenza. Premesso che tale situazione giuridica non è esplicitamente contemplata nel dettato costituzionale, tuttavia se si guarda all’attività della giurisprudenza costituzionale, si nota come il diritto di obiettare sia stato inteso come momento di attuazione della libertà di coscienza.

Precisamente, anche il riconoscimento della suddetta libertà35 si deve alla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 117/1979, la riconduce agli art. 19 e 21 Cost.; tale soluzione viene ribadita e arricchita dai giudici della Consulta che, nella sentenza n. 164/1985 affermano: “la salvaguardia della libertà di coscienza implica il diritto di rifiutarsi di compiere il servizio militare armato”. L’obiezione, seppure qui riferita al solo rifiuto della leva militare, compare come una possibile manifestazione della libertà di coscienza, fornita di dignità costituzionale36.

Se poi si condivide quella posizione, in base alla quale: “l’accentuazione delle garanzie giuridico-costituzionali in tema di libertà di coscienza è il terreno comune a credenti e non

35 Non solo il diritto all’obiezione ma anche la libertà di coscienza non è

direttamente prevista dalla Costituzione. In altre Carte fondamentali, nella Dichiarazione Universale dei Diritti umani, nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la libertà di coscienza è riconosciuta insieme alla libertà di religione e di pensiero.

36 In merito all’incostituzionalità dell’obiezione di coscienza del personale

sanitario si veda invece, A. D’ATENA, Commento all’art. 9, in AA.VV., Commentario alla l.22 maggio 1978, n.194, a cura di C.M. BIANCA, F.D. BUSNELLI, in Le Nuove leggi civili commentate, I, 1978, 1651 ss.

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credenti su cui si può costruire un vero Stato laico”37, ne deriva che l’esercizio dell’obiezione, quando autentico, è garanzia di pluralismo. Questo non significa che tale esercizio sia incondizionato, come ha sottolineato la stessa Consulta con la sentenza n. 43/1997: “ Spetta innanzitutto al legislatore stabilire il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà che essa reclama, da un lato, e i complessivi inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale che la Costituzione impone (art.2), dall’altro, affinché l’ordinato vivere comune sia salvaguardato e i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti senza privilegi”. Se quindi nella Costituzione c’è la radice della libertà di coscienza, l’attuazione della stessa è affidata al legislatore ordinario che ne valuta, all’interno di un bilanciamento di interessi, la compatibilità con gli altri diritti costituzionalmente riconosciuti.

Con questa doverosa premessa si può leggere il permesso speciale contemplato all’art. 9 della legge n. 194, analizzandone i confini oggettivi e soggettivi e le, ormai evidenti, visto il consistente numero di obiettori, derive applicative.

37 Cfr. A. SPADARO, Laicità e confessioni religiose: dalle etiche collettive

(laiche e religiose) alla “meta-etica” pubblica costituzionale, p.132., in AA.VV., Problemi pratici della laicità agli inizi del XXI, Associazione italiana dei costituzionalisti- Annuario 2007, Padova, 2008, come citato in F. GRANDI, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, cit., p. 97.

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2. L’art. 9 nella giurisprudenza penale e amministrativa: un’interpretazione restrittiva.

Alla luce dell’eccezionalità dei casi di obiezione nell’ordinamento, risulta fondamentale la corretta individuazione dell’oggetto dell’obiezione del personale sanitario e in modo consequenziale, dei soggetti legittimati a esercitarla. Stabilisce il comma 1 dell’art. 9: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione”; prosegue il comma 3: “ L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”; ancora il comma 5 afferma che non può essere invocata l’obiezione laddove l’intervento del personale obiettore risulti “ indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”38. Lo stesso art. 9, all’ultimo comma prevede la revoca immediata dell’obiezione per colui o colei che sia sorpreso a partecipare a interventi abortivi39, tale procedura rende ancora

38 Ne deriva che la possibilità del personale sanitario di sottrarsi alla

procedura abortiva è spendibile solo in caso di pericolo per la salute della donna, ma trova una naturale limite nel pericolo per la vita della gestante.

39 Così art.9, ultimo comma: “L'obiezione di coscienza si intende revocata,

con effetto, immediato, se chi l'ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l'interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente”.

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