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Il palazzo e la fabbrica Ghetti in borgo San Giovanni, 1855

Per il progetto della sua casa e fabbrica in borgo San Giovanni Nicola Ghetti scelse l’architetto ingegnere Giovanni Benedettini, che al momento era il professionista cit-tadino più richiesto, seguace dell’ultimo grande architetto pontificio, Luigi Poletti, il cui teatro sarebbe stato inaugurato a Rimini nell’estate del 1857.

Gli acquisti di terreni e case, come documenta Oreste Delucca, erano cominciati nel 1853, e nel 1856 un atto notarile dava l’intero complesso – fabbrica di zolfanelli, filanda da seta e abitazione – in costruzione. Si può dunque ragionevolmente rite-nere che l’anno della progettazione sia stato, al più tardi, il 1855. L’architetto aveva quarantun anni, al suo attivo poteva esibire i palazzi di alcuni notabili riminesi e il maestoso palazzo comunale di Santarcangelo.

Benedettini disegnò la residenza di Ghetti con la facciata sulla strada principale del Borgo, su cui svettava una torretta con l’orologio – oggi scomparsa –, e progettò il lungo edificio della fabbrica su tre piani, qualificandolo con cornici marcapiano e un cornicione, con un tipo di finestra di sua invenzione. L’interno della fabbrica venne strutturato con ambienti coperti a volte ad arco ribassato, sorretti da muri e pilastri, raggiungibili da quattro rampe di scale. La fabbrica aveva un settore riservato alla ma-nipolazione dello zolfo e del fosforo, sostanza quest’ultima assai pericolosa; un altro settore era riservato al filatoio di seta; più tardi venne aggiunta una falegnameria per la produzione degli stecchini e un settore per l’imballaggio dei fiammiferi.

Non possiamo nasconderci che tra fabbrica ed abitazione vi era un visibile contrasto, destinata alla pericolosità mortale del lavoro la prima – perché il micidiale fosforo, elemento base nella composizione dei fiammiferi, contrariamente alla propaganda, ripetuta anche nella guida di Luigi Tonini, non era mai stato eliminato dalla produ-zione –; alla sobria eleganza e alla serenità di lunga tradiprodu-zione dell’architettura clas-sica la seconda. Un “tocco di Thanatos”, una sorta di cuore di tenebra era al centro di un complesso di immagini serene e luminose. La fabbrica mostra direttamente un carattere “perturbante”, e tuttavia esteticamente risolto, nelle lunette al di sopra degli architravi delle finestre, che forse servivano al ricambio dell’aria inquinata. E indirettamente tutto il complesso, fabbrica e casa, appare nell’ombra di una società che non si faceva scrupoli ad attentare alla salute dei suoi lavoratori. Non che oggi le cose ubbidiscano a un’altra logica.

La residenza, come viene descritta nell’inventario post mortem, comprendeva un ca-vedio, le scale decorose ma non monumentali, un unico appartamento articolato in due piani sovrapposti, con le stanze comunicanti e un corridoio segreto laterale per il

A fianco

Giovanni Benedettini, Chiesa di Santa Maria della Misericordia, già Santa Chiara, interno (1852).

movimento della servitù. Una scala segreta a chiocciola, gotica, metteva in comunica-zione direttamente residenza e fabbrica1.Due stanze a pian terreno, destinate a uffici e a rappresentanza, conservano nelle volte a padiglione una decorazione dipinta; nel medaglione centrale di quella a sinistra entrando si vedono due putti che scherzano in mare, allusivi ai bassorilievi di Agostino di Duccio nel Tempio Malatestiano; e in quella di destra è dipinta una Venere sotto la quale si intravede la firma del pittore, di difficile lettura e interpretazione: «Luigi Gio[rge]tti (?)» e la data chiara «1862». È scomparso senza lasciare traccia il monumento di gesso a Nicola Ghetti, che doveva trovarsi nell’atrio.

Benedettini collegò i tre cortili con un dispositivo architettonico a cannocchiale, di gusto scenografico, con trafori di colonne e pilastri. A conclusione dello spazio cor-tilizio passante, per entrare dalla strada posteriore, fu costruito un ingresso monu-mentale con colonne, archi laterali e muri spessi con incassi. Su questi dovevano far mostra due leoni originari, sostituiti dagli attuali, opera firmata di Filogenio Fabbri (1880-1940).

Nella facciata della residenza l’autore espresse il meglio delle sue capacità profes-sionali e creative, disegnando un palazzetto a tre piani. Il pian terreno presenta una doppia zoccolatura, quattro finestre e un portale centinati, ed è scandito dalle ele-ganti linee di un bugnato orizzontale continuo, interrotto per simulare i conci sulle luci a semicerchio delle finestre e del portale. I due piani superiori sono collegati e unificati con sei paraste corinzie giganti destinate a reggere una trabeazione, che appare strutturata, come da manuale, da un architrave a tre elementi con un fregio inusitatamente ampio e una cornice tradizionale a modiglioni. Di notevole eleganza sono i sei capitelli in ghisa, destinati ad essere verniciati di “color travertino”.

È singolare la cura e la maestria di Benedettini nell’immaginare e disegnare i capitelli corinzi, attestata in tutta la sua carriera – come vedremo –, certamente considerati il

“punctum”, il colmo espressivo più importante di tutto il linguaggio architettonico classico da lui parlato.

La facciata del palazzo-fabbrica Ghetti è un aperto e dichiarato omaggio all’opera del maestro romano di Benedettini, l’architetto ingegnere Luigi Poletti (Modena 1792-Roma 1869); è stata pensata come una precisa citazione della più antica e importante opera romana residenziale di questi, il palazzo Ceccopieri.

Spesso, come vedremo, se non sempre, Benedettini entrò “in agone” col suo model-lo Poletti. Uso un’espressione della critica letteraria di Harold Bmodel-loom, che amplia il significato della tradizionale espressione critica “fonte di ispirazione” o di “influen-za”, con la proposta di un ideale conflitto e scontro, di un misurarsi del soggetto più giovane in cerca di originalità, a partire però da un consacrato punto di eccellenza2. In molti dei suoi edifici, in particolare in palazzo Ghetti e poi nella gemella facciata del palazzo della Gomma sul Corso, commissionato dalla Cassa di Risparmio nel 1863 e costruito nel 1864, il nostro architetto cita l’opera del maestro e si ingegna a superarla. Non è detto che ci sia sempre riuscito, ma di sicuro ha fatto circolare nello spazio di Rimini un’aria nuova, moderna, romana3.

Il palazzo per il conte modenese Lazzaro Ceccopieri, ambasciatore del duca di Mode-na presso la corte papale e protettore del giovane Poletti, venne costruito dal 1823 al 1826 e fu la sua prima opera architettonica a Roma4.

Nell’omaggio al suo maestro, il nostro Benedettini eredita e fa sua tutta la rifl essione formale di quella tarda fase della tradizione classica che è stata chiamata “purismo”, consistente in una scelta di forme strutturali e decorative elleniche e rinascimentali italiane, considerate esemplari, per semplicità ed intensità espressiva, e meritevoli di imitazione.

A leggere l’edifi cio con “le seste negli occhi”, oltre ai “profi li” polettiani, come in un volto o in un corpo umano, emerge lo schema geometrico sotteso, con la parasta come modulo grande e la sua larghezza come il modulo piccolo. L’insieme appare strutturato in quadrati e rettangoli aurei.

A che scopo questi giochi sul quadrato di misure e proporzioni più o meno nascoste, che effetti o emozioni architettoniche assicurano?

Certamente le proporzioni equilibrate, classiche, sono un omaggio al non lontano e visibile Arco di Augusto, architettura antica insigne strutturata appunto su cerchi e quadrati. E anche alla facciata albertiana del Tempio Malatestiano, che all’Arco si ispirava; sono forme che richiamano una tradizione architettonica secolare cittadina, coscientemente riconosciuta.

Il suo effetto architettonico di equilibrio, di centralità, e quindi di serenità e di senso di ragionevolezza, non manca – come s’è notato – di un elemento “perturbante”

che, oltre che nel tocco di Thanatos, si rivela nell’adesione secolare di quelle forme classiche al conformismo sociale, politico e religioso. Ma, d’altra parte, non ci si deve dimenticare che queste stesse forme classiche godevano di un universale apprezza-mento e che in tempi di poco precedenti, “giacobini” come si diceva, avevano espres-so i valori rivoluzionari.

Giovanni Benedettini, palazzo Ghetti (1855), facciata.