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Il passaggio estetico della videoarte dagli anni Sessanta agli anni Ottanta

Nel documento Videoarte. Storia, autori, linguaggi (pagine 109-114)

La videoarte monocanale subisce un notevole processo di trasformazione dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Dal momento che molti degli artisti fin qui trattati attraversano con la loro attività questo arco temporale, per poi prosegui- re sotto altre forme che vedremo negli anni Novanta, mentre altri si affacciano al mondo della videoarte monocanale negli anni Ottanta, sarebbe stato piutto- sto difficile dividere in due parti questo testo. Il presente paragrafo quindi serve da pausa di riflessione su quello che è stato scritto finora e come spartiacque funzionale fra il primo periodo di sperimentazione della videoarte monocanale, rappresentato dagli anni Sessanta e Settanta, e il secondo periodo, quello degli anni Ottanta. Per questo motivo il passaggio estetico fra questi archi temporali viene affrontato adesso, comprendendo gli autori fin qui trattati e quelli che verranno affrontati alla fine di questo capitolo, per cui alcuni argomenti qui dibattuti sono la sintesi di alcuni temi già analizzati e l’anticipazione di altri che riguardano strettamente gli anni Ottanta.

Le linee estetiche della videoarte degli esordi si concentrano sulle possibi- lità della macchina video di poter generare autonomamente immagini astrat- te, che vengono percepite dai videoartisti come il sistema di forme originarie, quasi primordiali e archetipiche dell’elettronica che viene svelato al pubblico. Si vuole combattere il rassicurante immaginario televisivo usando la tecnologia televisiva, smascherare la voglia di rappresentare il reale della televisione con la tv, e quindi si forza la macchina, si cerca l’errore tecnologico in grado di produr- re immagini, si lascia libera la macchina di usare il “vuoto d’immagine”, ovvero l’assenza di icone referenziali, che diventano l’immaginario cardine di molta videoarte: la neve, il feedback, le forme sinusoidali in perenne movimento, i disturbi di segnale, la nuova astrazione agevolata da macchine come il sintetiz- zatore video o il Rutt-Etra Scan Processor.

non essere usata dai videoartisti che si concentrano sul televisore come og- getto e sulla generazione delle immagini in tempo reale. La diretta provoca un rinnovato interesse nei confronti del tempo, che col video può diventare potenzialmente infinito, discostandosi in maniera radicale dal concetto di durata, insito nella tecnologia e nel linguaggio cinematografici. L’immagine elettronica non solo esiste “di per sé”, ma può durare per sempre, innestando vertigini percettive basate su un’idea di fruizione ipnotica. Come per ciò che riguarda la formazione dell’immagine, anche la diretta può essere “capovolta” linguisticamente ed essere usata come materiale duttile da elaborare, cosa che avviene in molte videoinstallazioni. Con la tecnologia si può giocare: se l’immagine elettronica è un magma fluido in perenne movimento, può anche essere costantemente manipolabile, e da qui deriva una sorta di “estetica della metamorfosi” tipica della videoarte degli esordi.

L’avvento delle telecamere, inizialmente in bianco e nero e con una defi- nizione scarsa, diffonde anche in questo caso il desiderio di sfruttare le “man- canze” della tecnologia a favore di un aumento di consapevolezza estetica. Dalle riprese della macchina video allora si cerca di evidenziare e manipolare ulteriormente proprio la bassa definizione delle sue forme che appaiono di natura fragile, fantasmatica, indefinita, umbratile, trasparente, a confermare da un lato l’impossibilità di questa tecnologia di rappresentare in maniera naturalistica il mondo, essendone un’interpretazione artificiale altamente for- malizzata, dall’altro l’appartenenza di queste forme al regno della mente, del sogno e della memoria. Alcuni hanno chiamato questa tendenza “estetica del- la bassa definizione”, che si perpetua anche nel momento in cui la tecnologia video acquista tecnicamente negli anni una maggiore risoluzione.

Se il video non può, o non deve, produrre immagini realistiche, allora qualsiasi forma pur definita deve essere manipolata: in questo caso quell’este- tica della metamorfosi applicata al segnale puro o al palinsesto televisivo viene utilizzata per forzare la fuoriuscita della trama, del “rumore”; operazione age- volata da un bagaglio di effetti speciali (solarizzazioni, negativi, effetti di mo- saicizzazione, comparsa di scie sui movimenti) che hanno origini nella ricerca fotografica e cinematografica, e che per il video non sono affatto considerabili “speciali” ma connaturati all’essenza liquida della sua tecnologia. Con l’av- vento del colore si cerca di “preservare” la colorimetria fredda o eccessivamen- te calda del video, senza preoccuparsi di eventuali risultati kitsch o forzati dal punto di vista cromatico: di nuovo, si può o si deve giocare con il sistema

di forme che la macchina produce naturalmente, senza “truccarlo” di realtà. Dall’immagine video non si pretende una qualità fotografica, ma pittorica. In questo contesto alcuni elementi diventano i nuovi protagonisti dell’occhio della telecamera: l’oggetto, il paesaggio e il corpo nelle loro declinazioni più astratte, per cui la figura del danzatore, sintesi fra corpo spersonalizzato e movimento, diventa il soggetto privilegiato di quella videoarte monocanale più attenta alla sperimentazione, senza dimenticare l’altra tendenza che vede nel video uno specchio tecnologico nel quale si riflette l’artista stesso.

La diffusione dei videoregistratori e dei supporti, per lo meno inizialmen- te molto poco stabili, dei nastri magnetici, suggerisce un altro elemento da elaborare dal punto di vista estetico, quello della memoria audiovisiva, col- legato ovviamente a quello della durata dell’immagine, e reintroduce l’idea di montaggio. L’approccio manipolatorio qui diventa combinatorio: la simul- taneità e la velocità fanno parte del caos del video, per cui non ha più senso montare le immagini una dopo l’altra, ma una “dentro” l’altra, una tendenza da alcuni definita “impaginazione dello schermo”, un approccio che oggi, col digitale, ha un nome preciso: compositing. Tutto l’armamentario tecnologico che il video può sfruttare (tendine, riquadri, intarsi, luma key e chroma key), pur essendo derivazione di estetiche della forzatura del linguaggio del cine- ma sperimentale, appartiene al regno della naturale metamorfosi dell’idea di montaggio. L’accavallamento caotico e apparentemente senza senso delle immagini fa parte di un’idea di fondo che scorre in quasi tutta la videoarte: la fragilità, la mancanza di compattezza dell’immagine che diventa, appunto, un “quadro” da impaginare.

Se gli anni Sessanta e Settanta rappresentano il periodo della formazione di un linguaggio audiovisivo elettronico, nella maggior parte dei videoartisti che hanno attraversato quella fase, o in quelli nati subito dopo, alle soglie degli anni Ottanta qualcosa cambia: nasce l’esigenza di usare questa gram- matica per sviluppare dei temi che non siano esclusivamente l’argomento metalinguistico per eccellenza, ovvero la televisione e il suo immaginario, o la scoperta della tecnologia. Se questi temi permangono, essi acquistano in questi anni una forma più diretta, semplice e comunicativa, come nei video di Klaus Vom Bruch o come nell’epico Der Riese (1982-83) di Michael Klier che realizza un video di 80’ montando una serie di immagini prese da tele- camere di sorveglianza, anticipando le ossessioni voyeuristiche di una certa televisione e di internet.

Di fatto gli anni Ottanta testimoniano il desiderio di fare uno sforzo in più, complici anche le numerose committenze televisive e la presenza di molte opere monocanali a festival non solo di video ma anche di cinema, alcuni dei quali molto prestigiosi e con un pubblico seppure non “generico” diverso da quello che frequenta le gallerie d’arte. Molti videoartisti, composto il loro personale “alfabeto”, vogliono cominciare a “parlare” . Gli pseudo-documen- tari biografici di Paik già vanno in questa direzione: l’umanizzazione della tecnologia, un tema tanto caro al videoartista coreano, corrisponde anche a una sorta di umanizzazione del linguaggio del video, che deve maturare e procedere oltre l’astrazione e il metalinguaggio.

La metà degli anni Ottanta è un momento significativo per quei videoar- tisti che hanno vissuto gli anni Sessanta e/o gli anni Settanta per l’affollarsi di opere che tendono a definirsi come saggi audiovisivi su macrotemi: è il caso di

Art of Memory (1987) di Woody Vasulka, I Don’t Know What It Is I Am Like

(1986) di Bill Viola, Incidence of Catastrophe (1987-88) di Gary Hill, e di altre opere di autori che iniziano a produrre negli anni Ottanta. Compaiono rife- rimenti più o meno espliciti a un certo tipo di letteratura sperimentale e alla poesia. Si accettano la vicinanza con il linguaggio del documentario (Robert Cahen) o scelte visive (gli ultimi video monocanali di Bill Viola o di Gary Hill) più asciutte e legate a una qualità fotografica dell’immagine e al ricorso di modalità di montaggio tradizionalmente cinematografiche, come il mon- taggio delle attrazioni o il solo uso di tagli e di dissolvenze. L’avvicinamento all’idea di “narrazione audiovisiva” porta alcuni videoartisti a riscoprire il valore simbolico delle immagini o un certo linguaggio tipico del cinema degli esordi. Per altri, come per esempio i Vasulka, la presenza di uno o più temi non determina lo spostamento degli approcci stilistici ed estetici verso scelte di linguaggio più rassicuranti, anzi le rafforza.

In generale se gli anni Sessanta e Settanta rappresentano una fase di speri- mentazione sullo statuto dell’immagine elettronica, sul tempo e sul montag- gio, negli anni Ottanta l’interesse si sposta quasi esclusivamente sulle possi- bilità manipolatorie del montaggio elettronico e dello spazio dell’immagine, facendo diventare il chroma key uno dei protagonisti assoluti di questa ri- cerca, e introducendo una certo tipo di sperimentazione dentro ai palinsesti televisivi grazie alla nascita delle televisioni satellitari come La Sept/ARTE o Canal Plus o canali dediti alla cultura come l’inglese Channel Four che danno linfa vitale a una serie di produzioni sperimentali.

Per quello che riguarda la Computer Art invece si può dire che la ricerca sull’astrazione diventa la struttura portante sulla quale si articolano diversi approcci al mezzo tecnologico e differenti scelte stilistiche. L’avvento del 3D e del metodo generativo applicato all’immagine di sintesi determina l’avvicina- mento dell’idea di astrazione alla visualizzazione di qualcosa di riconoscibile, un’interpretazione digitale di forme naturali o viventi. L’estetica del simula- cro e l’idea dell’immagine come oggetto non collimano con il desiderio di gestire forme riconoscibili, e la computer grafica astratta per tutti gli anni Set- tanta risiede nei laboratori informatici in grado di fornire le strumentazioni necessarie ad artisti dalla formazione tradizionale (pittura astratta, disegno, cinema astratto), che con l’avvento del 3D si trasformano in ingegneri infor- matici in grado di gestire in prima persona i software usati. La Computer Art, al contrario della videoarte, negli anni Sessanta e Settanta non ha un “nemico estetico” al quale contrapporsi, ma sviluppa liberamente il proprio linguaggio astratto anche perché dal punto di vista tecnologico le macchine usate si esprimono al meglio con quelle scelte stilistiche.

Gli anni Ottanta e soprattutto Novanta determinano in modo rapido una serie di bruschi mutamenti: l’avvento dei personal computer, la diffusio- ne della cultura e dell’industria dei videogiochi, il sempre più vivo interesse dell’industria cinematografica e televisiva per i cosiddetti effetti speciali, con la rinascita di generi come la fantascienza e il fantasy. L’interfaccia utente dei computer diventa sempre più grafico e iconico, e bisogna ammettere che l’uti- lizzo delle finestre, oramai diventato di uso comune, ha origine nel linguaggio dell’elettronica, in particolare di una certo tipo di televisione e di videoarte monocanale. I videogiochi e l’industria dell’intrattenimento televisivo e ci- nematografico puntano tutto sulla ricerca del verosimile, la computer grafica è invece vista in una logica di sostituzione del set e/o degli attori, quindi da questa tecnologia si pretende il massimo del realismo, con la relativa diffusio- ne di software che operativamente rispondono a questa esigenza. E se anche alcuni teorici insistono sul fatto che, sia o no realistica, un’immagine digitale è pur sempre un simulacro, improvvisamente molti artisti si trovano di fronte a un’estetica di origine industriale che conquista fette sempre più ampie di consenso e di pubblico, insomma uno standard con o contro il quale pren- dere posizione. Generalizzando, di fronte a questo fenomeno si creano varie correnti: chi sostiene che la simulazione fotorealistica può essere comunque uno strumento di sperimentazione da ribaltare in vario modo; chi si oppone

in maniera radicale approfondendo il discorso sull’astrazione; chi preferisce combinare le due scelte, immaginando universi a metà fra il referenziale e l’astratto. Un’ulteriore linea di ricerca nega la tridimensionalità per ritornare alla grafica 2D, o alla combinazione fra 2D e 3D, determinando la nascita di una sorta di sottogenere della computer grafica definito motion graphics.

Il trend fotorealistico negli anni si concentra su due elementi: ambienti e cor- pi, sviluppando tecniche e metodi di simulazione che si affinano sempre di più, fino al punto che oggi si può parlare in maniera realistica di ambienti virtuali e di attori virtuali che stanno “abitando” i non-luoghi interattivi dei videogiochi e quelli non interattivi di un certo tipo di cinema. Accanto a questa tendenza si sviluppa la linea “cartoonistica digitale”, quella cioè che riprende l’idea del carto- ne animato classico declinandolo in versione digitale. Il ritorno dell’importanza del segno o del disegno, in una parola dello stile delle immagini, è un’altra mo- dalità possibile per allontanarsi dall’idea che la computer grafica 3D debba essere uno specchio efficiente e ingannevole del mondo. In questo campo le situazioni realmente “in opposizione” sono da ricercare ai margini dell’industria produtti- va, perché, dagli anni Novanta in poi, un certo settore videoartistico, che aveva integrato nella sua storia autori e tecniche molto diverse, fatica a intercettarle e a renderle parte integrante della sua storia. Almeno per ora.

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