• Non ci sono risultati.

Peter Greenaway

Nel documento Videoarte. Storia, autori, linguaggi (pagine 130-136)

Il gallese Peter Greenaway (1942)29 è pittore, sceneggiatore, scrittore, autore

di film, video e videoinstallazioni. Dopo aver lavorato come montatore presso il Central Office of Information di Londra, un’istituzione in cui si producono documentari, Greenaway comincia a realizzare film in cui esplicita un’estetica manierista, ossessivamente attenta al dettaglio, enciclopedica, a volte ridon- dante ma sempre fortemente visionaria e surreale, con una particolare at- tenzione al rapporto con la musica. L’impianto antinaturalistico della messa in scena e della recitazione degli attori viene esaltato da scelte stilistiche che sfruttano costantemente riferimenti alla pittura e alla finzione teatrale, men- tre dal punto di vista narrativo i suoi film, apparentemente lineari, sfidano lo spettatore in un labirinto di suggestioni letterarie fitte di citazioni, dialoghi 29 Il sito ufficiale del regista è: http://petergreenaway.org.uk/, mentre la pagina YouTube è: https://www.youtube.com/channel/UCKiKTlw7bM15f-bmBmcekTA, dove ci sono solo alcuni video. Tutti i film di Greenaway sono reperibili in dvd, mentre per i video citati saranno elencate più avanti le eventuali disponibilità.

stralunati, nonsense, in un accavallarsi impazzito di infinite possibilità di rac- conto che porta a un’entropia che distrugge il senso stesso di narrazione.

Film come A Zed & Two Noughts (Lo Zoo di Venere) del 1985, The Belly of

an Architect (Il ventre dell’architetto) del 1987, Drowning by Numbers (Giochi nell’acqua) del 1988, The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante) del 1989, Prospero’s Books (L’ultima tempesta) del

1991, The Baby of Mâcon del 1993 e The Pillow Book (I racconti del cuscino) del 1996, per citarne solo alcuni, inseriscono Greenaway al centro dell’attenzione internazionale sia di pubblico sia di critica, come una figura visionaria in grado di coniugare sperimentazione e narrazione.

Contattato dal canale inglese Channel Four per realizzare una versione televisiva del poema di Dante Alighieri la Divina Commedia, il regista gallese si allea a Tom Phillips (1934)30, pittore, filmmaker e traduttore in inglese

moderno del testo dantesco per firmare insieme un’opera fondamentale per la storia della videoarte monocanale, dal titolo sorprendentemente “paikiano”:

A TV Dante-The Inferno (1989)31. Greenaway e Phillips realizzano i primi otto

canti dell’Inferno con un ottimo successo di critica e di pubblico, mentre i se- guenti sei vengono affidati a Raoul Ruiz che delude le aspettative dei produt- tori determinando, anche per motivi di budget e a causa del cambio di linea nel palinsesto di Channel Four, la fine dell’ambizioso progetto, che prevedeva di affidare i canti seguenti a Jean-Luc Godard e a Zbigniew Rybczynski.

Greenaway, che nei suoi film non cede certamente a concessioni al lin- guaggio tradizionale, in questo prodotto televisivo sfodera un inaspettato ap- proccio videoartistico, sperimentando in maniera verticale le possibilità del montaggio elettronico e in particolar modo l’impaginazione del quadro. Per ovviare alla difficoltà di comprensione del testo dantesco, Greenaway decide di visualizzare la Divina Commedia come se fosse un “libro in movimento”: mette in scena in modo particolare le vicende, e commenta e spiega nello stes- so momento i passaggi più complessi, affidando questo compito a delle vere e proprie “note a pie’ di pagina”, ovvero a una serie di esperti che compaiono, inquadrati in una serie di finestre in basso sullo schermo, ognuno ripreso in chroma key e con uno sfondo appropriato all’argomento che sta trattando. 30 Il sito dell’artista è: http://www.tomphillips.co.uk/

31 La versione in dvd di quest’opera è distribuita da Digital Classics dvd in Europa e da Films Media Group negli Stati Uniti: http://www.films.com/search.aspx?q=greenaway. Entrambe le versioni sono riversamenti da vhs.

Il video è un collage fitto di contributi visivi in movimento, in questo caso regolato da un gusto geometrico che predilige la simmetria. L’uso delle finestre e del luma key diventa norma costante. L’accostamento delle immagini è una questione regolata da un gusto più grafico che narrativo: ma a Greenaway serve anche per realizzare raffinati giochi simbolici interni alla narrazione del testo dantesco. Oltre alle finestre, il regista inglese usa, in maniera intensiva, le ten- dine che diventano strumenti per sezionare il quadro con forme che acquistano relazioni simboliche con l’architettura visiva d’insieme – come l’utilizzo della forma del triangolo rovesciato, che identifica la divinità capovolta, ma anche richiama la forma stessa della geografia dell’Inferno descritta da Dante.

A TV Dante è una complessa orchestrazione di riprese appositamente gira-

te, materiali di repertorio, elementi in computer grafica e testi che compaiono sullo schermo che da un lato anticipa la pratica del compositing che si farà negli anni successivi, dall’altro, sempre con spirito simile all’estetica di Paik, riprende alcuni stilemi classici della televisione per ribaltarli a favore della sperimentazione. Dante, Virgilio (interpretato da John Gielgud) e tutti i per- sonaggi che compaiono vengono trasformati in paradossali talking head, di- ventano dei conduttori televisivi, primi piani immersi nel nero che recitano il testo dantesco con lo sguardo puntato verso lo spettatore. I filmati d’archivio servono a descrivere alcuni ambienti, come immagini di repertorio di bufere e tempeste sono funzionali a descrivere la pena dei lussuriosi, mentre grafi- ci con informazioni mediche o immagini al microscopio di batteri vengono usate per descrivere lo “stato di salute” di Dante o per identificare l’infezione del male come un fenomeno intimo e intrinseco all’essere umano. I picco- li set, dichiaratamente artificiali e circondati dal buio, servono a descrivere l’atmosfera chiusa e claustrofobica di un non-luogo. Vi sono continue con- taminazioni con la contemporaneità: la discesa agli inferi viene visualizzata attraverso l’immagine di un montacarichi, e arditi accostamenti simbolici, come avviene nel V canto, dove il personaggio di Francesca è associato a quello di Eva, entrambe legate dal coraggio di rompere le catene delle regole precostituite.

La simultaneità di eventi visivi e sonori, che mettono a dura prova l’atten- zione dello spettatore invaso da informazioni e suggestioni, si trasforma in un capolavoro visionario, che sfrutta appieno le strategie di montaggio elettroni- co creando un affascinante ibrido fra videoarte e documentario.

realizza un’opera che si presenta più tradizionalmente come un docu-fiction,

Death in the Seine32, coprodotto da Erato Films, Mikros Image, La Sept, Al-

larts Tv Production, NOS Telévision e Centre National de la Cinématogra- phie. Questo video inaugura la collaborazione con una figura importante per la videoarte degli anni Novanta: Eve Ramboz, esperta di elaborazioni grafiche. Fra il 1795 e il 1801 furono rinvenuti nella Senna più di trecento ca- daveri poi collocati in un obitorio a Parigi, dove due assistenti di nome Boule e Doude tentarono di identificarli. Il risultato è un elenco puntiglioso di dati che descrivono le cause della morte e tutta una serie di dettagli utili all’arduo compito: questa piccola enciclopedia è conservata alla Bibliothèque Nationale e riscoperta da uno studioso inglese, Richard Cobb, che pubblica nel 1978 un libro dal titolo Death in Paris per la Oxford University Press. Greenaway, af- fascinato dal tema dell’enciclopedia e ancor più da quello della morte, realizza un video che solo pretestualmente è una versione per immagini di trentadue casi descritti nel libro. Death in the Seine è una lunga riflessione sulla morte e sul valore del corpo come ultima traccia dell’esistenza umana, testimone estremo, con i suoi segni e con i suo infiniti dettagli, dell’esistenza della varia umanità descritta dal video, ma è anche un saggio sul voyeurismo e sull’osses- sione scopica della scienza nei confronti del corpo, e infine sulla bellezza del corpo in tutte le sue manifestazioni.

Dal punto di vista linguistico, Greenaway approfondisce l’utilizzo delle finestre, delle tendine e del testo scritto sullo schermo per stilare il suo elenco personale di cadaveri, interpretati ovviamente da attori in carne e ossa che in qualche punto del video si muovono, si alzano, denunciando la finzione in atto. L’abilità grafica di Eve Ramboz offre una sensazione di maggiore ma- nualità alle figure geometriche delle finestre che tendono a somigliare sempre più a cornici disegnate, a schizzi, a disegni sovrapposti all’immagine. Ci si avvicina a quell’idea di quadro in movimento che molti videoartisti stanno sperimentando in questo momento e che in Greenaway diventa la scelta stili- stica più frequente. L’acqua, elemento caro alla cinematografia dell’artista al pari della videografia di Fabrizio Plessi e di Bill Viola, diventa la protagonista simbolo della cuspide fra vita e morte, e percorre tutto il video, elaborata e raffigurata in vario modo.

32 Il dvd è distribuito da Films Media Group: http://www.films.com/search. aspx?q=greenaway

Nel 1991 Greenaway realizza M Is for Man, Music and Mozart (a volte indicato più brevemente come Not Mozart), un video coprodotto da Avro, BBC e Dutch Cultural Broadcasting Promotion Fund, un’opera che rappre- senta una sorta di “chiusura del cerchio” del rapporto fra l’estetica del regista gallese e la videoarte perché è un video musicale di danza, e un altro capola- voro di sintesi fra la ricerca degli anni Ottanta e le tecnologie che mutano il panorama audiovisivo degli anni Novanta. Omaggio divertito e irriverente a Mozart, il video si dipana raffigurando una serie di divinità vestite di stracci e assise su un emiciclo dorato mentre tentano di costruire con vari materiali un essere umano, il quale si trasforma in un danzatore che attraverso le sue evo- luzioni richiama vari modelli pittorici di corpi umani. Qui la collaborazione fra Greenaway ed Eve Ramboz si fa decisiva: i trattamenti dell’artista francese trasformano parti del video in veri e propri disegni in movimento, densi di citazioni pittoriche; le cornici delle finestre diventano parte integrante di un ordito visivo in perenne bilico fra rappresentazione naturalistica dell’imma- gine e grafica in movimento. Si avvicina l’era del compositing.

Il riferimento alla pittura, e l’accostamento delle possibilità manipolatorie dell’immagine elettronica a quelle del pittore è una posizione nota all’inter- no dell’estetica di molti videoartisti, ognuno con la sue personali varianti: per Greenaway in questo video è importante, grazie alla possibilità di integrare ani- mazione digitale con le riprese dal vero, fare un passo avanti e non solo riferirsi all’universo pittorico, ma simularlo direttamente. La massiccia trasformazione grafica dell’immagine permette al regista gallese – senza ricorrere al chroma key, una tecnica che egli non ama usare – di inserire i corpi che si muovono in uno spazio astratto, fatto di segni in movimento (come accade nell’ultima parte, un lungo “solo” dell’uomo costruito dagli dèi, trasformati in spettatori, dove il danzatore si esibisce sommerso da strati di pennellate, disegni, grafici, dai quali emergono a volte frammenti del suo corpo, ritagliati e duplicati, a sottolineare alcuni momenti del suo movimento, in una interessante ambiva- lenza fra immagine statica e dinamica). Greenaway, insomma, ricostruisce lo spazio dell’immagine rendendolo una “pagina bianca” da riempire di immagini e segni grafici.

Forte di questa esperienza, il regista gallese sempre nel 1991 dirige un film, Prospero’s Books (L’ultima tempesta), tratto dal testo di William Shake- speare The Tempest, che rappresenta non solo il titanico sforzo tecnologico di miscelare due supporti (pellicola e alta definizione analogica) per realizza-

re un’opera dove le manipolazioni elettroniche e la grafica digitale possano manifestarsi a tutto schermo, ma anche la prima volta in cui l’estetica della videoarte monocanale si rivela in maniera esplicita in una produzione cine- matografica. Opera tecnologicamente pionieristica, rappresenta un decisivo passo in avanti nel processo di osmosi fra videoarte monocanale e cinema. Dal punto di vista linguistico, Greenaway miscela qui abilmente tutte le scel- te sperimentate nei suoi video precedenti, organizzando un’architettura visiva in cui le elaborazioni grafiche di Eve Ramboz, l’uso delle finestre, la messa in scena esplicitamente teatralizzata, la presenza della danza e dei testi scritti sullo schermo diventano la visionaria realtà di Prospero e della sua isola piena di libri.

L’isola di Prospero è uno spazio interno: è il luogo della fantasia, dell’im- maginazione, dove sogni e incubi possono avere un corpo; questa dimensione onirica ha uno spazio, quello delle finestre che ospitano le immagini in alta definizione. L’astante è immerso in una situazione dove la continuità spazio- temporale è rigorosa, e dove il tempo sembra svolgersi davanti ai suoi occhi in uno spazio unico, mentre le finestre ospitano le forme di ciò che Prospero vede e immagina, soprattutto le visioni raffiguranti i libri della sua biblioteca. Tutto il film è legato all’idea che ciò che si vede è uno spettacolo messo in sce- na: più volte, durante alcune azioni, la camera si allontana per mostrarci vari personaggi dell’isola, seduti, mentre guardano, da una finestra vera, lo svol- gersi degli eventi. La continuità della rappresentazione teatrale è la naturale prosecuzione dell’attenzione al tempo reale, derivata dalla diretta, ed è una possibilità stilistica che attrae molti registi in maniera diversa, come abbiamo visto in Kafka di Rybczynski.

Greenaway affida alle animazioni di Ramboz il compito di visualizzare le magie descritte dalla voce di Prospero, soprattutto la raffigurazione dei volumi della sua biblioteca, come se la grafica digitale avesse l’incarico di trasformare in oggetti le funzioni simboliche dei libri descritti. Tutto il film gioca sulla sovrapposizione di piani, o per meglio dire di livelli: le finestre (che oltre a spaccare lo spazio del quadro servono a complessificare ritmicamente il montaggio); l’affollamento a volte parossistico dei personaggi all’interno di spazi che sono dichiaratamente delle scenografie; i personaggi che guardano dalle finestre vere parti di azioni sono tutti elementi che mirano a confondere il bidimensionale con il tridimensionale, a incasellare immagini sovrapposte ed evoluzioni di prospettive ricostruite artificialmente. Anche il corpo in que-

sta dimensione perde la sua consistenza e diventa leggero: spesso è un disegno in movimento nei libri, a volte è una forma galleggiante a pelo d’acqua, come Ariel, il servitore di Prospero, e sempre più spesso danza, come Calibano, un altro schiavo dell’isola, interpretato da Michael Clark.

Non è quindi un caso che Greenaway, nel momento in cui il cinema in- contra l’alta definizione digitale, un formato che può sostituire definitiva- mente la pellicola, torni a sperimentare liberamente il suo linguaggio com- binatorio e intimamente videoartistico, liberandosi contemporaneamente dei riferimenti letterari alti (Dante, Shakespeare), per lavorare su un personaggio che è chiaramente il suo alter-ego: Tulse Luper. La trilogia dell’imponente progetto Tulse Luper Suitcases (Le valigie di Tulse Luper), realizzata fra il 2003 e il 2004, rappresenta infatti non solo il ritorno del regista gallese alle mo- dalità stilistiche descritte prima, ma anche la precisazione e il radicamento di un’estetica che lo porta a far implodere qualsiasi tentativo di narrazione lineare in un universo entropico fatto di mille possibilità che proliferano non solo nella versione cinematografica (o forse meglio dire video) dell’opera, ma nei suoi corollari sul web, nel campo del videogioco33, nelle mostre che ar-

ricchiscono di elementi il progetto, senza mai concluderlo. Un vero e proprio puzzle digitale.

Nel documento Videoarte. Storia, autori, linguaggi (pagine 130-136)