• Non ci sono risultati.

La divergenza metafisica che ha dominato fin qui il confronto fra i due pensatori, è parzialmente superata qualora si parla di esperienza; quest’ultima costituisce, per entrambi, il punto di partenza indiscutibile della disciplina politica. Nonostante quanto detto fino a questo punto a proposito della congiunzione fra metafisica e politica che troviamo in Baruch Spinoza, quest’ultimo è profondamente convinto che la disciplina politica abbia una natura pratica, ovvero che questa prenda le mosse dall’esperienza.

E’ peraltro indubbio che proprio i politici hanno scritto sulle questioni politiche con risultati assai migliori che non i filosofi. Ammaestrati dall’esperienza, essi non hanno infatti insegnato nulla che fosse distante dalla pratica.

TP 1,2

E’ indicativo il passaggio del ​Trattato politico ​in cui Spinoza osa criticare quei filosofi e i poeti che hanno immaginato un regno di ​Utòpia​, poiché un luogo tanto perfetto è adeguato solo a uomini tanto saggi e civili da non aver neanche bisogno di essere disciplinati dalle regole. Questi sono accusati dal filosofo olandese, di aver costruito un mondo immaginario, incapace di avere un riscontro nella realtà. Un tale errore non viene commesso dagli uomini politici, i quali sono elogiati da Spinoza in quanto volti a cercare una risoluzione pratica per il corretto svolgimento della convivenza civile.

L’accusa rivolta dal filosofo olandese ai filosofi colpevoli di affrontare la dottrina politica in maniera inadeguata, ha una corrispondenza nell’​Etica . Qui Spinoza si 30

scaglia contro coloro che non accettano di guardare l’essere umano per ciò che è realmente, e per questo motivo lo descrivono per come vorrebbero che fosse. La colpa di questo tipo di intellettuali risiede nella consuetudine di disconoscere le passioni: questi preferiscono ignorarle, poiché le considerano un vizio o una mancanza, mentre per Spinoza gli affetti sono qualità naturali e innate dell’essere umano. Tali filosofi sono soliti partire da queste considerazioni errate per delineare una sfera politica che risulta inadatta all’uomo per com’è realmente.

Non concepiscono gli uomini per come sono, ma per come li vorrebbero: con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, scrivono della satira al posto dell’etica, e non sanno mai

elaborare una politica applicabile alla pratica, ma solo finzioni chimeriche o istituzioni realizzabili in Utopia, o nel famoso secolo d’oro dei poeti, dove peraltro non ce n’è alcun bisogno.

TP 1,1

In questo passo si può intravvedere una critica alla ​Repubblica​ di Platone. L’antico filosofo greco che delinea una ​polis​ perfetta, nella quale convivono uomini virtuosi e che è governata dalla morigerata saggezza dei ​filosofi-re​. Secondo il parere di Spinoza, la realtà potrebbe sconvolgere questo sogno d’utopia, poiché se gli uomini fossero perfetti e cotanto virtuosi come scrive Platone, non vi sarebbe neppure l’esigenza di pensare un governo che regolamenti la loro convivenza.

Un approccio critico verso i propri predecessori era assunto anche da Thomas Hobbes. Quest’ultimo, nella ​Prefazione ai lettori​ con cui apre il ​De Cive​, esordisce dichiarando di scrivere mosso da integrità d’animo e da onestà. Ad un primo sguardo questa precisazione potrebbe apparire superflua, se una tale dichiarazione d’intenti non fosse seguita da una riflessione che verte sul ruolo che ha il sapiente nella divulgazione delle dottrine politiche.

In questa riflessione, il filosofo inglese sembra rimpiangere l’usanza, tipica dei sapienti antichi, di speculare sulla natura delle cose, più che sulle questioni politiche. Ove costoro si trovavano ad affrontare queste ultime, essi facevano ricorso a favole e miti: questo era un modo per evitare di trattare temi che avrebbero potuto creare dissidi fra i sudditi. Vale a dire che gli antichi sapienti erano consapevoli che la politica è una materia per pochi, adatta solo a coloro che sono preparati dall’esperienza a governare lo Stato; difatti coinvolgere il volgo negli affari pubblici può creare un conflitto d’interessi fra gli affari pubblici e quelli privati. Questa posizione conferma la convinzione di Hobbes nella difesa del potere monarchico e dell’aristocrazia, alimentato dal disprezzo e dalla paura verso il volgo: quest’ultimo è considerato incapace di partecipare agli affari pubblici, poiché guidato dalla furia delle passioni, non dalla ragione. Il filosofo inglese continua la sua dissertazione polemizzando con filosofi antichi del calibro di Socrate, Platone e Aristotele, i quali sono colpevoli di aver stravolto la natura della scienza politica, facendone uno dei focus principali della loro filosofia. In altre parole per mano di questi pensatori il potere diviene oggetto di discussione, mentre Hobbes è

fermamente convinto che le decisioni dello Stato non sono emanate al fine di essere discusse, ma eseguite. Non a caso, nella filosofia hobbesiana, lo Stato esercita il ruolo della ragione in nome dei suoi sudditi. In altre parole Hobbes pone una differenza fra la filosofia e la politica: considera quest’ultima materia esclusiva di coloro che esercitano il potere.

Se dunque la dignità delle scienze deve essere valutata in base alla dignità di coloro cui competono, o in base al numero di chi ne ha scritto, o al giudizio degli uomini più sapienti, certamente la scienza più degna è questa, che compete ai principi e agli uomini impegnati nel governo del genere umano, che diletta quasi tutti gli uomini, anche nella sua falsa apparenza; e di cui maggiormente si sono occupati i sui più alti ingegni fra i filosofi. Ci renderemo poi benissimo conto della sua utilità, se viene correttamente presentata, cioè derivata con nesso evidente da principi veri, considerando quali danni conseguono per il genere umano dalla sua apparenza falsa e verbosa.

D’altra parte lo stesso Hobbes è un filosofo che sceglie di trattare argomenti politici: questa potrebbe apparire come una contraddizione, ma la sua scelta speculativa era unita ad un’esigenza biografica. Infatti, il filosofo inglese pubblica il ​De Cive​ nel 1642, ovvero nell’anno dello scoppio della rivoluzione inglese guidata da George Cromwell: nella stessa opera il filosofo dichiara che la pubblicazione di questo opuscolo è stata influenzata dall’esplosivo clima politico che lui stesso percepiva in Inghilterra. Non si dimentichi che quella inglese è stata una rivoluzione sociale e religiosa di stampo repubblicano, conclusasi con l’esecuzione del re, mentre Hobbes era un borghese filomonarchico, ostile all’ordinamento repubblicano: proprio la sua posizione politica lo costrinse all’esilio per sette anni.

Si evince da queste dinamiche personali che egli abbia sperimentato, dal proprio punto di vista, l’effetto devastante del volgo al potere. Le conseguenze sono state per Hobbes tanto devastanti che il filosofo arriva a sostenere che il popolo vive sospinto dalle passioni e dalle superstizioni, questa condizione lo esclude dalla partecipazione agli affari di Stato: d’altra parte lo Stato ha il dovere di incarnare la ragione del proprio governante e della società intera.

Poiché simili opinioni nascono ogni giorno, se qualcuno disperdesse quelle nubi, e mostrasse, in base a ragioni fermissime, che non vi sono dottrine autentiche del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, eccetto le leggi istituite in ciascuno Stato; e che nessuno deve ricercare se un’azione sarà giusta o ingiusta, buona o cattiva, eccetto chi ha ricevuto dallo Stato l’incarico di interpretare le sue leggi; costui non solo indicherebbe la via regia della pace, ma anche i sentieri oscuri e tenebrosi della sedizione.

De Cive pag. 70