resilienza per una felicità possibile
5 Politiche sociali e lavoro verso benessere e felicità: alcune conclusion
Dunque la felicità, individuale e collettiva, è da rappresentarsi - nella modernità - come un processo che non ha destinazione, perché permanentemente in corso e senza un termine. Qui adottiamo un significato che sintetizzato con tre componenti forti ben rintracciabili nella storia della filosofia moderna e antica: a – libertà come emancipazione dalle costrizioni e vincoli materiali, quale capacità di ridurre gli ostacoli realizzati dalle persone, in forme intenzionali o meno, sulle libertà di altre persone; b – libertà come espressione di relazioni sociali condivise; c - libertà come fonte espressiva del “senso della vita”. A cavallo dunque tra individualità e soggettività, tra pubblico e privato, quale esito inevitabile della modernità e non misurabile facilmente attraverso sondaggismi vari, in quanto intenzionale e volontaria. Per la semplice ragione nota che ha perimetri individuali e collettivi sempre "soggettivi" e mai comparabili in modo finito. Da contestualizzare nel periodo storico che stiamo attraversando, ben diverso dagli albori della vita nelle caverne dipinte dai primi Neanderthal (65.000 anni fa) che già controllavano un linguaggio e la capacità di astrazione e le prime forme ancestrali di vita organizzata clanica. Certo rispetto all’epoca dei Lumi e alla prima rivoluzione industriale, che quel salto paradigmatico aveva innescato autonomizzando la scienza dalla religione e “liberando il “soggetto” sulla spinta della cristianità. La felicità va a rappresentarsi per tutto il lungo cammino – non sempre progressivo - della crescita umana fino all'Illuminismo, in assenza sostanziale di libertà individuale, di istruzione diffusa e in assenza totale di un ruolo della scienza fino ad allora assorbita dalle concezioni deistiche della vita, monoteiste, politeiste o pagane. Un lungo cammino che vede predominare i bisogni fisici o primari e dunque materiali (fame, sete, protezione) "non facilmente comprimibili" e sostanzialmente comparabili. Distinti rispetto a quelli immateriali e variamente "comprimibili" e tuttavia non comparabili, perché dettati da motivazioni e aspirazioni soggettive altamente differenziate per culture, tradizioni, consuetudini per assetti istituzionali dominanti. Soddisfazione e benessere vanno allora distinti in una o nell'altra situazione storica e istituzionale o culturale, così come il concetto di felicità. Fino all'Illuminismo, soddisfazione (e in parte il benessere) come valutazione sulla vita si configurano entro un metro scalare lineare di accesso alle risorse materiali per rispondere più o meno ragionevolmente ai bisogni primari e ai parametri vitali tra i quali ritroviamo fame, sete, riparo dalle intemperie, cura della prole. Con l’Illuminismo quella felicità diventa “pubblica” e realizzabile in terra - e non solo nell’aldilà o nell’ascetismo e individualismo - sulla base del saper fare umano, che combinando uguaglianza giuridica, libertà individuale e conoscenza diffusa spalancherà le porte alla prima rivoluzione industriale. All’abisso non si opponeva soltanto la salvezza, ma emergeva anche un benessere non situazionista che traguardava ad una felicità condivisa possibile [8-10]. Riducendosi la dipendenza dai parametri primari, aumentava la soddisfazione per sé e della propria famiglia nel ciclo vitale in una stretta connessione dello spazio-tempo [11]. È con la prima rivoluzione industriale che si innesca anche una percezione del benessere complessivo come rapporto tra il proprio lavoro e la disponibilità di risorse, (materiali e immateriali) per una rottura del rapporto spazio-tempo, innescato dall'avanzamento tecnologico e per una riarticolazione tra produzione e consumo. Con l’avvio delle Rivoluzioni industriali nel ‘700 inglese dei primi filatoi meccanici e l’accelerazione della produttività del lavoro, si introduce il tema della scelta nell'uso delle risorse derivanti da differenziate disponibilità circa l'uso di produzione e consumi,
tra cui anche l'accesso all'istruzione di base anche per i ceti popolari, oltre che la nascita dell'organizzazione moderna come sistema di macchine integrate da squadre di uomini semi-istruiti per svolgere compiti definiti e replicabili. La spinta motivazionale forte in questa fase vede una felicità alimentata dal principio del piacere e dall’arricchimento personale. Una organizzazione moderna consolidata dalla seconda rivoluzione industriale che, separava nettamente, corpo e mente, compito e capacità, individuo e comunità, astratto e concreto, manuale e intellettuale. Qui la soddisfazione viene affidata alla disponibilità di denaro utile ad acquistare - compensativamente - il "benessere" fuori dalla fabbrica attraverso maggiori consumi, materiali e/o immateriali anche con un welfare dei diritti. Un regime taylorista-fordista che sottovaluterà gli effetti alienanti sulle persone della parcellizzazione dei compiti e la loro replicabilità. Una biforcazione che non avrebbe retto alle prove dell'evoluzione storica successiva dei bisogni dell'uomo, alla ricerca di libertà e non solo di consumi per un benessere senza aggettivi e dunque non solo fisico. La soddisfazione si realizza in questo contesto con la diffusione dei diritti difesi dalle organizzazioni sindacali che inizierà a consolidarsi anche nelle fabbriche oltre che nei campi, e dal consolidamento di una rappresentanza democratica dei Parlamenti costituzionali moderni che avvieranno le prime legislazioni di un welfare state avanzato. Il benessere dell'uomo si allarga a fattori che non sono più solo fisici ma divengono psicologici e motivazionali. Ai bisogni materiali sostanzialmente ordinabili e sostenuti da motivazioni estrinseche ai quali rispondere con semplici compensazioni salariali e monetarie, si aggiungono bisogni immateriali "non ordinabili" e non "compensabili" con semplici incentivi monetari perché sostenuti da motivazioni intrinseche (volontà e scelte di vita). La soddisfazione si allarga ad un benessere senza aggettivi, e a quei potenziali emotivi che spingono alla ricerca di fattori processuali che coinvolgono una sorta di felicità attesa, connettendo ciò che si fa dentro la fabbrica con ciò che e' la vita "fuori" dalla stessa, in famiglia, con gli amici, nella comunità e territorio di riferimento. Il tempo di lavoro non è sempre facilmente monetizzabile perché risponde ad un senso della "vita buona" che va ricostruito e sviluppato in relazione alla propria traiettoria di felicità attesa e che cambia nei contesti dello spazio-tempo, ricongiungendo tempo di lavoro e di non lavoro, entro nuovi significati e significanti vitali [12]. La felicità non coincide più banalmente con il piacere del hic et nunc, ma si allarga ad uno spazio etico di condivisione del senso di una “vita buona” (autentica e vera) con l’Altro. Accogliendo il cosiddetto paradosso di Easterlin che segnala un disaccoppiamento tra livello della ricchezza detenuta mediamente e tasso di felicità oltre una certa soglia e a partire dagli anni ’60, con un appiattimento del secondo. Perché ad un certo punto la ricchezza non riesce ad acquistare tutto, non l’amicizia o l’amore, non la fraternità e la reciprocità o l’ascolto. Diviene necessario produrre quel sensemaking di connessione tra passato, presente e futuro a sostegno di visioni solide per una “vita buona” con strategie e comportamenti di valorizzazione di lungo periodo delle persone come delle organizzazioni, fino al coinvolgimento delle loro famiglie e dei territori coinvolti [13]. Con una transizione dunque anche verso una post-leadership o employeeship dove la guida diventi un connettore e un coach verso la resilienza per fronteggiare complessità e formidabili interdipendenze di tipo “ecologico” [14-16]. Quale via per allontanarci dall’abisso, con riforme che mettano al centro dei processi l’uomo e il suo ambiente per una “vita buona”, fondamentali per una “buona organizzazione” verso fini sempre più elevati e condivisi e che hanno cambiato le aspirazioni umane dalla Cueva de Los Aviones ai raccoglitori- cacciatori ad oggi [17, 18]. Che ci hanno portato nella attuale post-modernità “all’esplosione delle soggettività tra persone, imprese, e istituzioni” che richiedono risposte avanzate e innovative. Forse dopo la crisi della proletarizzazione di massa
dovremmo esplorare il suo opposto, diventando tutti “capitalisti volontari [19], essendo che quelli “involontari” non hanno dato – né stanno dando - buona prova?
Riferimenti bibliografici
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