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I primi approcci giurisprudenziali: le sentenze Pagano e Cantore

Le prime pronunce giurisprudenziali sulla nuova disciplina della responsabilità medica introdotta dall’art. 3 comma1 della l. 189/2012, sono costituite dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione IV del 24 gennaio 2013, n. 11493, Pagano, e dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, Cantore330.

La prima pronuncia applicativa della l. Balduzzi è la sentenza della Suprema Corte, Sezione IV, del 24 gennaio 2013, n. 11493, Pagano.

La Corte ha analizzato il caso relativo ad un ginecologo ritenuto responsabile, sia in primo che in secondo grado, del delitto di omicidio colposo di una neonata la quale è deceduta a seguito dei danni celebrali da asfissia intrapartum. Al ginecologo veniva addebitato il fatto che, nonostante la presenza di tracciati cardiotocografici (C.T.G.) espressione di un determinato rischio per la salute del feto, questo non avesse monitorato né la situazione né avesse eseguito un intervento di parto cesareo che avrebbe evitato l’asfissia intrapartum e la conseguente morte della neonata.

329 DEBERNARDI, Sulla rilevanza delle “linee guida” nella valutazione della colpa medica, in Giur. It, 2013, pag. 935.

330 La sentenza Pagano è pubblicata in Guida dir., 2013, n. 17, mentre entrambe le sentenze sono

pubblicate, in sintesi, in Dir. pen. e processo, 2013, pag. 691 con nota di L. RISICATO, Linee

guida e imperizia “lieve” del medico dopo la l. 189/2012: i primi orientamenti della Cassazione.

La sentenza Cantore, oltretutto, è pubblicata in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 11 aprile 2013 con scheda introduttiva di F. VIGANO’, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità

del medico in una importante sentenza della Cassazione (e poi con successiva nota di C.

CUPELLI, I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito di colpa grave del medico e

linee guida, ibidem, 10 giugno 2013); G.L. GATTA, Colpa medica e art. 3, co. 1 d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi per colpa lieve, ibidem, 4 febbraio, 2013; G. AMATO, Per le sentenze definitive di condanna dei sanitari esclusa una applicazione automatica della norma, in Guida dir., 2013, n. 20, pag. 82; G.

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I giudici di legittimità si soffermarono, in particolar modo, su un vizio di motivazione dei giudici di merito poiché avevano omesso di valutare i rilievi formulati dai consulenti tecnici e periti dell’accusa. La Suprema Corte sul punto affermò che il giudice è libero nella scelta delle tesi dei vari periti e consulenti tecnici di parte purché “dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti”. In ogni caso, è proibita alla Suprema Corte la maggiore o minore attendibilità scientifica esaminati dal giudice di merito poiché essa “non è giudice del sapere scientifico, giacché non detiene proprie conoscenze privilegiate”, invero, il compito attribuito alla Corte di Cassazione è piuttosto quello di valutare la correttezza metodologica del giudice.

L’aspetto più importante che viene affrontato in questa pronuncia riguarda le linee guida; la difesa aveva contestato il fatto che i giudici di merito non avessero tenuto conto, nella valutazione dell’errore diagnostico, delle linee guida della Regione Campania n. 118 del 2 febbraio 2005, in rapporto ai criteri di scelta tra parto cesareo e parto naturale. La Corte però mise in evidenza come il profilo della colpa del medico non si basava su un errore diagnostico o su un’imperizia, ma sulla “violazione del dovere di diligenza che imponeva di svolgere la sua attività secondo il modello di agente e ne rispetto delle regole di prudenza, la cui violazione ha determinato le premesse dell’evento letale”; ne consegue che non potevano entrare in gioco le linee guida in quanto regole di perizia e non di diligenza e prudenza331. Per tal ragione, la Corte aderisce all’orientamento secondo cui l’art. 3 della l. Balduzzi “obbliga, infatti, a distinguere tra colpa lieve e colpa grave solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e colpa grave nell’accertamento della colpa penale. Tale norma non può invece involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia”332. Questa impostazione, riprende ciò che era stato sancito dalla Corte Costituzionale nel 1973, secondo cui veniva affermata l’esclusione

331 BELTRANI, La mancata considerazione delle regole di perizia non rappresenta una corretta soluzione dei casi, in Guida al diritto, 20 aprile 2013, pag. 38.

332 BELTRANI, La mancata considerazione delle regole di perizia non rappresenta una corretta soluzione dei casi, in Guida al diritto, 20 aprile 2013, pag. 38.

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della punibilità per colpa lieve del medico, in casi di particolare difficoltà o emergenza, vale esclusivamente per l’ipotesi dell’imperizia e non anche per quella della negligenza e dell’imprudenza.

Un’altra rilevante sentenza è quella del 29 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, che riguarda un intervento di ernia discale recidivante, nel corso del quale venivano recise la vena e l’arteria iliaca. Il Sig. Cantore, esecutore dell’atto chirurgico, aveva disposto il ricovero presso un nosocomio attrezzato per un tempestivo intervento vascolare riparatorio, ma nonostante la rapida operazione in laparotomia, la paziente morì a seguito di una copiosa emorragia.

In tale pronuncia viene analizzata l’interpretazione della nuova disciplina introdotta con l’art. 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, in particolar modo:

• il ruolo e l’efficacia delle linee guida; • la distinzione tra colpa lieve e colpa grave.

La Suprema Corte, appare molto critica verso la l. Balduzzi, in quanto viene affermato che “non vi è dubbio che l’intervento normativo, se sottoposto a critica serrata, mostrerebbe molti aspetti critici. Si è in effetti in presenza, per quel che qui interessa, di una disciplina in più punti laconica, incompleta; che non corrisponde appieno alle istanze maturate nell’ambito del lungo dibattito dottrinale”; nonostante ciò, i giudici di legittimità, tentarono a valorizzare il senso di tali innovazioni.

Prima di entrare nel merito delle problematiche della l. Balduzzi, la Suprema Corte descrive le tappe dell’evoluzione della responsabilità medica e dell’applicazione o meno dell’articolo 2236 c.c. in sede penale. Invero, viene richiamata la sentenza della Cass, pen., sez. IV, del 21 giugno 2007, Buggè, la quale afferma che l’art. 2236 c.c. ha valore di regola di esperienza a cui il giudice può far riferimento per l’addebito di imperizia nei casi di particolare complessità ovvero nei casi d’emergenza; in tal modo, viene valorizzato il criterio soggettivo della colpa e sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa. La Corte sottolinea il principio enunciato dalla sentenza Buggè, riferendosi alla sentenza Montalto333, nella quale viene messa in rilevo la connessione tra colpa grave e urgenza terapeutica; invero è stato rimarcato come una prudente “analisi

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della realtà di ciascun caso può consentire di cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà nella diagnosi, sovente accresciuta dall’urgenza; e di distinguere tale situazione da quelle in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più di quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in emergenza”.

I giudici di legittimità richiamano anche alla sentenza Di Lella334, nella quale viene affermato che il rimprovero personale che fonda la colpa richiede una dovuta ponderazione delle difficoltà nelle quali versava il medico al momento dell’operazione e quindi di “considerare che le condotte che si esaminano non sono accadute in un laboratorio o in una campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto in cui si sono manifestate” quindi “l’art. 2236 cod. civ. non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell’ordine stesso delle cose”.

La Corte analizza, quindi, la struttura e il contenuto delle linee guida sostenendo che la violazione di esse non dia luogo a colpa specifica in quanto regole cautelari improprie ed elastiche; invero, le linee guida dato che sono basate su le massime del sapere scientifico, tentano di dare oggettività e “determinatezza ai doveri del professionista e possono al contempo orientare le pur difficili valutazioni cui il giudice di merito è chiamato”.

In realtà, in tale pronuncia, vengono fornite una serie di ragioni per le quali le linee guida non rientrano nell’alveo della colpa specifica:

1. per la varietà e il diverso grado di qualificazione delle linee guida, soprattutto in rapporto alla loro natura di strumenti di orientamento e di indirizzo privi del carattere della prescrittività propria di una regola cautelare;

2. per le caratteristiche del soggetto o della comunità che ha prodotto le linee guida cioè la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza, l’ampiezza e la qualità del consenso;

3. per la diversità dei soggetti e delle metodiche che influenzano l’impostazione di tali direttive (alcune hanno un approccio speculativo, altre sono orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità, altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero).

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Per queste ragioni, le linee guida “non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità”.

Completata l’indagine sull’attendibilità delle linee guida, la Corte si sofferma sulla contraddizione secondo cui il medico che rispetta le linee guida può essere in colpa. Secondo l’opinione dei giudici di legittimità, la contraddizione è solo apparente in quanto, a differenza dei protocolli e delle checklist che indicano un’analitica successione di adempimenti, le linee guida propongono delle direttive generiche, orientamenti o istruzioni di massima. Quindi, potrà accadere che il medico commetta un errore nell’adattamento delle linee guida al caso concreto e, in certi casi, date le condizioni singolari del paziente e lo sviluppo della patologia, egli si dovrà discostare da tali direttive. A parere della Corte “potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore non sia lieve” invero potrà accadere anche che “sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determinata strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscono addirittura di discostarsi dallo standard, cioè disattendere la linea d’azione ordinaria”.

In conclusione, si può affermare che le linee guida accreditate dalla comunità scientifica rappresentino una direttiva scientifica per l’esercente la professione sanitaria e che, tali direttive, rientrino nell’ambito dell’imperizia.

Infine, la Suprema Corte si occupa della distinzione tra colpa lieve e colpa grave affermando, in prima battuta, che il giudizio sulla gravità della colpa non è estraneo all’esperienza penalistica, poiché esso si riscontra nell’art. 133 c.p. in rapporto alla commisurazione della pena; ma non solo, in quanto la graduabilità della colpa si desume anche dagli artt. 43 e 61 n. 3 c.p. i quali configurano la colpa cosciente come un grado particolare e non come una figura autonoma della colpa.

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Nell’analizzare tale problematica, i giudici di legittimità seguono l’impostazione della ‘doppia misura’ della colpa soffermandosi, quindi, sul profilo oggettivo e successivamente anche sul profilo soggettivo.

Il profilo oggettivo, deve essere valutato in base alla “divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere” e quindi sarà necessario valutare di quanto il medico si sia discostato dalla regola di obiettiva diligenza.

Il profilo soggettivo determina la misura del rimprovero in rapporto alle specifiche condizioni dell’agente concreto; invero, il quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole di condotta è un fattore fondamentale nella gradazione della colpa. Ad esempio, la violazione di una regola terapeutica ha un maggiore disvalore per un abile specialista che per un medico generico o, viceversa, il disvalore della condotta sarà minore quando l’agente, al momento dell’operazione, ha avuto uno shock emotivo o un leggero malessere.

Un altro elemento che deve rilevare nella gradazione della colpa è anche la ragione d’urgenza dell’operazione ma non solo; si deve anche tenere conto della consapevolezza del medico di tenere una condotta pericolosa; in tal caso, dato che sussiste anche la previsione dell’evento in capo al soggetto agente si riscontrerà la colpa cosciente, la quale rappresenta la forma più prossima al dolo. Tenendo conto di tutti questi fattori, il giudice dovrà “procedere alla ponderazione comparativa di tali fattori, secondo un criterio di equivalenza o prevalenza non dissimile da quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze”. Questa valutazione è altamente discrezionale e segna anche “l’essere o il non essere del reato”, sicché è necessario definire con precisione il confine tra la punibilità e la non punibilità.

Dato che non esiste una definizione di colpa grave, la Corte di Cassazione l’aveva definita come la “macroscopica violazione delle regole più elementari dell’ars medica: la plateale ignoranza o altrettanto estrema assenza di perizia nell’esecuzione dell’atto medico”. In realtà, questa definizione è riduttiva, in quanto l’adeguatezza del trattamento terapeutico non può rapportarsi a poche ed essenziali regole basilari, soprattutto nei contesti specialistici nei quali risulterebbe essere riduttivo riscontrare la colpa grave con la mera violazione delle regole basilari dell’arte medica.

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Secondo la Corte, la violazione delle prescrizioni terapeutiche “va rapportata agli standard di perizia richiesti dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, da corroborate informazioni scientifiche di base. Quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione”. Attraverso questa valutazione, si riduce il potere discrezionale del giudice che viene delimitato da dati oggettivi e regole definite.

È importante precisare che a questo primo passaggio, di natura oggettiva, vi dovrà essere un secondo momento, di natura soggettiva, che rapporta la figura del professionista al parametro dell’agente modello e quindi si dovrà “comprendere se l’agente concreto si sia altamente discostato dallo standard di qualità dell’agire terapeutico che il professionista archetipico esprime regolarmente. Si tratta del classico modello dell’homo eiusdem professionis et

condicionis, di un professionista, cioè, che opera al livello di qualificazione

dell’agente concreto e che esprime un modo di operare appropriato”.