• Non ci sono risultati.

1.2.2.2.1 Problemi di costruzione del personaggio cinematografico

L’autore distingue la costruzione divistica del personaggio in due aspetti: la sua presenza e la sua performance. Spiega l’analisi della recitazione delle star è indissolubilmente collegata allo studio del personaggio e propone di studiare la performance tramite l’analisi del modo in cui l’attore agisce, come dice delle battute, proponendo come parametri d’analisi della performance o segni di performance: l’espressione del volto, la voce e i gesti, la postura e i movimenti del corpo. Ricorda inoltre il carattere culturale presente nella gestualità.

Se, come spiega Paul Ekman, l’espressione delle emozioni sono di natura universale e involontaria, la gestualità invece, così come il tentativo di controllare l’espressione delle emozioni possono subire influenze culturali. In tali casi, è particolarmente rivelatore lo studio delle micro-espressioni, così come le osservazioni pubblicate nel saggio Should we call it expression or communication61.

Ekman62 propone una riflessione sui concetti di comunicazione ed espressione, cercando di distinguerli dall’origine deliberata, ovvero, se essa è intenzionale o no. Spiega che in un processo comunicativo non tutto è intenzionale, come l’espressione dell’emozione che si può provare a controllare, ma che in caso di emozione autentica lascerà trasparire qualche traccia anche involontaria nella comunicazione. A proposito di come il viso esprime le emozioni, l’autore ha evidenziato le influenze di sette categorie di informazioni: precedenti, pensieri, lo stato interiore, una metafora, cosa l’individuo vuole che l’altro faccia, cosa sta per fare, o una parola emotiva.

61 P. Ekman, Should we call it expression or communication, in “Innovation”, vol. 10, n. 4, 1997, pp. 333- 344.

40

Rispetto allo studio dell’espressione delle emozioni tramite la voce, sulla stessa linea di Paul Ekman e anche in collaborazione con lui, l’autore Klaus Scherer, dell’Università di Giessen, Germania, ha condotto una serie di ricerche sull’espressività vocale. In un loro saggio What you say and how you say it: the contributions of speech content and voice quality to judgement of others63 hanno realizzato la comparazione fra tre studi che

osservavano il giudizio basato in canali di informazioni diverse o correlate. In un primo momento il contenuto verbale della parola, la qualità vocale, soltanto il viso, soltanto il corpo, in seguito cercando di combinare i canali comunicativi: parola, parola più espressione faciale, e parola più espressione faciale più corpo. I valutatori dovevano osservare il comportamento spontaneo in due situazioni diverse di interviste e valutare diversi parametri. Alla fine, i ricercatori hanno trovato una differenza significativa nella valutazione dei parametri quando sono isolati o combinati rispetto agli altri canali di comunicazione.

La comunicazione umana faccia a faccia avviene dando la possibilità ai comunicanti di accedere a tutti i canali comunicativi, tranne in situazioni come un dialogo al telefono, o dell’ascoltatore di una radio, per esempio. Nel caso del cinema, oltre ai canali comunicativi nella sfera dell’attore, si trovano altri canali comunicativi nella mise en scene, che possono influenzare la percezione dello spettatore.

Il libro Reframing screen performance, di Baron e Carnicke64, ha due obiettivi principali. Il primo di essi tenta di illuminare i fraintendimenti, a lungo diffusi, sulla recitazione cinematografica in un tempo in cui il cinema aveva bisogno di affermarsi come arte, non trattandosi di una mera registrazione della realtà, ma di un'arte compositiva possibile grazie a una serie di strategie tecnologiche e a tutti i suoi elementi non performativi – ovvero quelli non legati alle azioni e forme di agire dell'attore –

63 M. O’Sullivan, P. Ekman, W. Friesen, K. Scherer, What you say and how you say it: the contributions

of speech content and voice quality to judgement of others, in “Journal of personality and social

psychology”, vol. 48, n.1, 1985, pp. 54-62.

64 C. Baron, S.M. Carnicke, Reframing screen performance, University of Michigan Press, Michigan 2008.

41

sviluppata per produrre un linguaggio narrativo che include inquadratura, frammentazione, montaggio, movimento della macchina da presa, angolazione, illuminazione, colori, colonna sonora, effetti speciali e così via. Le autrici hanno cercato di dimostrare, tramite le proposte semiotiche degli studiosi di Praga e degli studi di cinema e teatro selezionati apposta per illustrare il loro ragionamento, che tali affermazioni teoriche non corrispondono a tutte le realtà65.

Se ci sono dei film che sono veri capolavori delle tecniche cinematografiche, dando enfasi agli spazi e alle riprese di non attori, persone prese dalla strada, in situazione quasi naturale, ci sono anche dei capolavori della recitazione cinematografica, film in cui la recitazione occupa un ruolo fondamentale tra gli elementi che compongono il film, se non il più rilevante in certi casi.

Allora, come dimostrano le due studiose, le teorie che considerano il linguaggio tecnologico come l'unico responsabile della costruzione narrativa e dei suoi significati sono come minimo limitate e non rappresentano la realtà del lavoro attoriale in questo campo. È vero che il linguaggio tecnologico influisce nella costruzione, ma l'attore ha il suo ruolo, spesso primario, come capita nei casi dei film in cui il pubblico ricorda, non la trama, e nemmeno come il film finisca, ma una scena in cui la prestazione attoriale risulta memorabile, un gesto dell’attore, una sua espressione, una sua battuta per il modo in cui è stata detta66.

Se Metz ha proposto che lo sguardo dello spettatore si identifica con lo sguardo della macchina da presa o con i personaggi, Baron e Carnicke cercano di offrire delle prove dell'influenza delle scelte fisiche e vocali degli attori sul pubblico, portando a una discussione sulla performance attoriale come un componente del film a pieno titolo, non meno e non più importante della frammentazione, del montaggio, dell’illuminazione,

65 Ivi, pp. 1-7.

42

del figurino, del sound design, e così via67.In questo modo hanno messo in discussione la prospettiva limitante che considerava la vera recitazione quella teatrale, in opposizione al non recitare del cinema, inteso come registrazione di un comportamento naturale.

Come secondo grande obiettivo del libro, le autrici propongono diversi modi di descrivere68 e di analizzare la recitazione cinematografica, da una macro-prospettiva che coinvolge tutta la scena filmica a un’analisi più centrata sulla performance attoriale. A proposito di quest’ultima si appoggiano sulle teorie di Delsarte e di Laban per classificare e qualificare le posture, i gesti, le espressioni e i movimenti, oltre all’analisi delle unità d'azione proposta da Stanislavskij, come proposta per mettere in evidenza il rapporto fra i personaggi, le azioni (strategie) da loro utilizzate e la qualità di queste azioni, per produrre un impatto sull'altro, in un catena di azione-reazione.

In relazione all'analisi della performance nella recitazione, lo studioso Claudio Vicentini ha portato grandi contributi. Il suo studio intitolato L'arte di guardare gli attori: manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione69 mostra come ci si possa interessare a un esame attento della performance attoriale senza limitarsi a giudicarla buona o cattiva, ma nel tentativo di comprendere cosa c’è dietro le forme dei gesti, gli spostamenti, le posture, il rapporto fra gli oggetti in scena, il modo in cui i personaggi si relazionano. Così come l’obiettivo di questa tesi non è soffermarsi sugli elementi visivi della performance, ma su quelli udibili, questo studio sarà presentato in maniera sintetica con lo scopo di aiutare a capire, attraverso le categorie di analisi proposte da Vicentini (2007), cosa succede alla voce e alla parola, oltre a cercare un dialogo fra gli studi sulla recitazione e sulla conversazione, per arricchire il potenziale percettivo delle analisi vocali nella recitazione cinematografica.

67 Ivi, p. 232.

68 Ivi, p. 5.

69 C. Vicentini, L'arte di guardare gli attori: manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema,

43

Vicentini racconta l'inizio della sua carriera, quando studiò al Dipartimento di Studi Teatrali nella New York University, ricorda i consigli ricevuti da Richard Schechner, fra i teorici più eminenti del teatro americano d'avanguardia, sull'osservazione di uno spettacolo teatrale, sul bisogno di guardare diverse volte lo stesso spettacolo, scrivendo tutto quello che era possibile percepire, senza cercare esattamente di capirlo, in un primo momento. La difficoltà di distinguere tra cosa era importante, cosa secondario e cosa casuale, in una messa in scena d'avanguardia o in quella tradizionale, era la stessa ed era sempre legittima70. Allora, propone:

[...] per imparare a guardare un attore bisognava partire da una considerazione proprio banale, assolutamente ovvia. Cioè che gli attori non recitano tutti nella stessa maniera.71

Anche se lo strumento di lavoro dell'attore resta il corpo (e le sue facoltà fisiche, come la voce), Vicentini mostra che il modo di recitare cambia da un attore all'altro, il che non li rende più bravi degli altri, ma anche che il modo recitare di alcuni è molto simile a quello di tanti altri, perché hanno un’impostazione o una tecnica di base in comune.

Le tecniche di base offrono una determinata sfumatura di possibilità e di limiti nel lavoro dell'attore, e a queste si aggiunge l'influenza dello stile personale, come del periodo, del genere cinematografico e della regia. Il modo in cui un attore utilizza lo spazio scenografico, come si sposta, come si relaziona con gli oggetti, se li manipola mentre parla, le categorie gestuali impiegate, come si relaziona con la MDP, con gli altri personaggi, se gli guarda negli occhi, come esprime l'emozione, le sensazioni, come si concentra, dove va il suo pensiero, ecc72.

70 Ivi, p. 14.

71 Ibidem. 72 Ivi, p. 15.

44

Giulia Carluccio, riguardo alla monografia di Mariapaola Pierini sull’attore Gary Cooper, spiega che tale studio incrocia «le problematiche e le questioni che ne interessano l’attorialità e la dimensione divistica con quelle che riguardano la storia di un’industria e di una cultura, quella del cinema hollywoodiano, che proprio negli anni di attività di Cooper, ha coinciso con l’egemonia, e poi il ridimensionamento, di quel grande medium che è giunto a porsi come ‘occhio del Novecento’, secondo la nota definizione di Francesco Casetti»73. Poi aggiunge «lo studio dell’attore/divo (…) può costituire una direzione di ricerca estremamente fertile per la storia e la storiografia del cinema, accanto e oltre a quelle più tradizionali e (tuttora) maggioritarie: in particolare l’autore (…) e il genere»74. Lo studio della recitazione, però, è un aspetto dello studio

dell’attore che si affaccia alle questioni d’autorialità e di genere, in certo modo, per cercare di capire attraverso la sua analisi come si caratterizza il lavoro dell’attore, in che cosa è originale e come si comporta, quali soluzioni incontra per adattarsi ai contesti diversi, sia la trama, che la regia e il genere.

Pierini (2011), superando buona parte della letteratura attoriale, spesso dedicata alla prospettiva biografica o celebrativa, ha agganciato allo studio della star:

[…] la dimensione storica e sociologica della costruzione di fenomeni e personalità divistiche con gli aspetti che ne interessano la dimensione semiotica e testuale, in relazione a caratteristiche tecniche e stilistiche della performance, portando con sé le ragioni e gli strumenti del grande rinnovamento della ricerca storiografica che, dagli anni Settanta a oggi, ha ridefinito i modi di pensare il cinema classico75.

Attraverso una rigorosa ricerca d’archivio in cui si distaccano passaggi, tappe e svolte fondamentali, pensato soprattutto alla luce di una storia plurale, Pierini ha messo

73 G. Carluccio, Prefazione, in M.P. Pierini, Gary Cooper: il cinema dei divi, l’America degli eroi. Genova: Le mani, 2011, p. 7.

74 Ivi, p. 8.

45

insieme il materiale e l’immaginario, analizzando le politiche contrattuali dell’industria hollywoodiana così come i desideri del pubblico cui queste rispondono o che contribuiscono a formare, tra stardom e fandom, attenendosi a «come l’attore Cooper e il suo stile siano gli operatori e i regolatori fondamentali di questo sistema complessivo»76.

Era una grande star dello schermo, nessuno può negarlo. Ma durante le riprese ho scoperto che era anche un attore. In effetti è l’attore che, nel suo caso, ha creato la star. Il modo di parlare lento, esitante, con gli occhi bassi, l’andatura apparentemente goffa, sono tutti atteggiamenti inventati dall’attore, per affrontare la cinepresa con quell’apparenza di realismo che questo mezzo esige. Nella vita era completamente diverso77.

Le parole del regista americano Otto Preminger si riferiscono a Cooper come star e come attore, sintetizzando lo stile creato da lui per recitare, oltre ai suoi personaggi, la parte della star, ribadendo che nella vita era completamente diverso.

Ma che cosa vuol dire «imitare»? Come ha osservato Jacqueline Nacache, il rapporto dell'attore cinematografico con la mimesis è «confuso», in quanto «il suo impegno nella menzogna mimetica è a volte difficile da definire quanto il suo lavoro».

Nacache, nel suo libro L’attore cinematografico78, fa una lunga e strutturata discussione sull’analisi della recitazione, sulle difficoltà affrontate nello stabilire le direttrici metodologiche ed espone in modo critico le analisi proposte nei diversi studi sull’attore cinematografico. Tra l’altro, l’autrice ribadisce l’importanza di guardare la

76 G. Carluccio, Prefazione, in M. Pierini, op. cit., pp. 8-9.

77 O. Preminger, Autobiographie, trad. fr. A.C. Cohen, J.C. Lattes, Paris 1981, p.159. 78 J. Nacache, L’attore cinematografico, Negretto Editore, Mantova, novembre 2012 (2003).

46

totalità e intravede in Pavis una strada valida per studiare la recitazione cinematografica79.

Per Nacache80, l’analisi incentrata sulla differenza tra recitazione mimetica e la

recitazione energetica può essere molto utile per comprendere l’economia dello stile di recitazione, che non deve più essere considerata unicamente nella sua dimensione mimetica e non deve nemmeno essere valutata secondo i criteri di visibilità o di talento.