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Le prospettive monetarie internazionali dopo gli accordi di Washington

Giorgio Brosio

1. La portata dell'accordo.

Anche se non siamo di fronte all'c accordo monetario più significativo della storia del mondo », come è stato definito dal Presidente Nixon, con evidente concessione alla retorica e all'iperbole, la trattativa faticosamente con-clusa il 17-18 dicembre a Washington dai rappresentanti dei dieci paesi più industrializ-zati dell'occidente rappresenta pur sempre un risultato importante. L'ombra di una recessione mondiale simile a quella degli anni '30, proiet-tata dalla rincorsa alle misure protezionistiche, che aveva avuto inizio nell'agosto, è stata per il momento allontanata. Il sistema monetario internazionale è ritornato in una situazione più normale e meno precaria di quella seguita alla decisione americana dell'agosto di sospendere la convertibilità del dollaro in oro e di applicare la nota sovratassa sulle importazioni LISA.

La sostanza dell'accordo è nei punti essen-ziali la seguente:

- Il ritorno al sistema dei cambi fissi con la definizione delle nuove parità. Non vi è dubbio che la decisione più spettacolare è stata la svalutazione del dollaro del 7,89%, ottenuta attraverso un aumento del prezzo ufficiale dell'oro da 35 a 38 dollari l'oncia. La svaluta-zione del dollaro è stata combinata con la rivalutazione, sempre rispetto all'oro, dello yen giapponese, del marco tedesco, del fiorino olan-dese, del franco belga. Il franco francese e la sterlina hanno mantenuto immodificate le loro parità ufficiali, mentre la lira e la corona svedese sono state leggermente svalutate.

Il risultato netto di questi movimenti è una rivalutazione, rispetto al dollaro, del 16,88 % per lo yen, del 13,57% per il marco, dell'11,57% per il franco belga e il fiorino olandese, dell'8,57% per il franco francese e la sterlina e del 7,49 % per la lira e la corona svedese (vedi tabella n.l). Il Canada ha invece deciso di continuare con il sistema dei cambi fluttuanti. Secondo i calcoli americani, la percentuale media di riva-lutazione delle monete dei paesi del « Gruppo

dei Dieci », (percentuale che tiene conto della quota di scambi effettiva di ogni paese con gli Stati Uniti) si aggirerebbe sul 12%, mentre i calcoli del Fondo Monetario danno una per-centuale leggermente inferiore: 9,80%.

— L'allargamento dei margini di fluttuazione fra le monete. I tassi di cambio potranno d'ora in poi fluttuare all'intorno del 2,25% delle nuove parità fissate, in luogo del precedente margine di oscillazione dell'I %, fissato a Bretton Woods. Si tratta di una fascia piuttosto ampia, se si considera che lo scarto massimo fra due monete diverse dal dollaro potrà d'ora innanzi raggiungere il 9 %.

— La soppressione della sovratassa ameri-cana alle importazioni. L'abolizione è stata decisa senza porre condizioni per la soluzione degli altri problemi iscritti sull'agenda del Gruppo dei Dieci (nuova distribuzione degli oneri militari, accordi commerciali e aiuti ai paesi sottosviluppati).

— informa del sistema monetario internazio-nale. La parte finale dell'accordo prevede che i paesi firmatari dello stesso intavoleranno prontamente discussioni e trattative per la soluzione dei più importanti problemi riguar-danti l'evoluzione del sistema monetario inter-nazionale, quali: la divisione delle responsabi-lità per la difesa delle parità; il giusto grado di convertibilità del sistema; il ruolo dell'oro, delle monete di riserva e dei diritti speciali di prelievo nel funzionamento del sistema ed, infine, le misure da prendere per regolare i movimenti internazionali di capitali.

È evidente che, se i provvedimenti decisi a Washington sono sufficienti ad allontanare le preoccupazioni di breve periodo, cioè di assicurare una relativa stabilità al sistema, l'equilibrio raggiunto non può essere conside-rato durevole, malgrado il comunicato del Gruppo dei Dieci, che afferma recisamente di avere assicurato: « un equilibrio nuovo e durevole all'economia mondiale ». E neppure, l'accordo ha fornito soluzioni ai problemi di

Tabella 1. L E M O D I F I C A Z I O N I N E L L E P A R I T À D E L L E P R I N C I P A L I M O N E T E

MONETE

PARITÀ RISPETTO ALL'ORO

PARITÀ RISPETTO AL DOLLARO

MONETE

PARITÀ RISPETTO ALL'ORO VALORE DEL DOLLARO IN MONETE NAZIONALI AL 17 DICEMBRE 1971 NUOVA PARITÀ UFFICIALE SVALUTAZIONE IN % DEL DOLLARO MONETE PRIMA DELL'ACCORDO (IN GRAMMI) DOPO L'ACCORDO (IN GRAMMI) DIFF. IN % PARITÀ UFFICIALI SUL MERCATO DEI CAMBI NUOVA PARITÀ UFFICIALE IN RAPPORTO ALL'ANTICA PARITÀ UFFICIALE IN MONETE NAZIONALI IN RAPPORTO ALL'ULTIMO CORSO SUL MERCATO DEI CAMBI yen . . . 0,0024685 0,0026576 + 7,66 360 320,58 303 — 16,88 — 4,08 marco tedesco . . 0,242806 0,25399 + 4,61 3,66 3,2580 3,2230 —13,57 — 1,08 fiorino . . 0,245489 0,252264 + 2,76 3,62 3,28 3,245 —11,57 — 1,07 franco 3,245 —11,57 — 1,07 belga . . . 0,177734 0,182639 + 2,76 50 45,45 44,81 —11,57 — 1,42 sterlina 2,13281 2,13281 inv. 0,4166 0,3953 0,3838 - 8 , 5 7 — 3 franco - 8 , 5 7 frane. comm. . . 0,166 0,166 inv. 5,554 5,5125 5,116 — 8,57 — 7,76 franco 5,5125 — 8,57 — 7,76 frane, e finanz. . . 0,166 0,166 inv. 5,554 5,26 5,116 — 8,57 — 2,81 lira . . . 0,0014218 0,00140766 — 1 625 599 581,5 — 7,49 — 3,01 dollaro . . 0,888671 0,81851265 — 7,89 1 1 1 1 1

fondo che travagliano l'attuale sistema mone-tario internazionale, come del resto esplicita-mente riconosciuto nella affermazione di buona volontà, contenuta nella parte finale. Esso apre piuttosto una parentesi di relativa calma, che appare quanto mai necessario utilizzare per procedere ad una ricostruzione radicale del sistema, senza la quale le crisi che l'hanno ripetutamente e gravemente tormentato negli ultimi anni continueranno inevitabilmente a riprodursi.

Una valutazione completa dell'accordo e delle sue implicazioni future richiede però un breve esame critico del sistema in cui siamo vissuti finora — quello di Bretton Woods — e dei più recenti avvenimenti che hanno condotto alla crisi testé superata.

2. Un po' di storia.

È-noto che con gli accordi di Bretton Woods, istitutivi del Fondo Monetario Internazionale, venne instaurato all'indomani della seconda guerra mondiale un sistema di cambi fissi. Ogni nazione, cioè, per aderire al Fondo doveva dichiarare la parità della propria moneta ri-spetto all'oro o, — alternativamente — al dollaro legato strettamente al primo della con-vertibilità, e impegnarsi successivamente a mantenere tale parità dichiarata all'interno di un margine massimo di scostamento dell'I %

(in più o in meno). Per tenere fede a questo impegno, i vari paesi erano dunque obbligati a detenere, attraverso la loro Banca Centrale, un certo volume di attivi, le riserve internazio-nali, con cui effettuare gli interventi sul mer-cato dei cambi, qualora gli squilibri temporanei negli scambi con l'estero avessero teso a far oltrepassare al tasso di cambio il limite massimo di scostamento permesso. Qualora lo squilibrio esterno avesse assunto un carattere « fonda-mentale » (la cui definizione è rimasta però irrisolta), lo statuto del Fondo prevedeva una clausola di salvaguardia: il Paese interessato era abilitato, nel rispetto di determinate condi-zioni e procedure, a modificare la propria parità ufficiale.

È opinione non contestata che il sistema cosi congegnato ha saputo adempiere piuttosto bene al suo compito istituzionale: la ripresa e lo sviluppo degli scambi mondiali, fino almeno agli inizi degli anni Sessanta. Il commercio internazionale si è sviluppato, infatti, in misura perfino superiore alle previsioni, sulla spinta delle politiche di ricostruzione e di sviluppo intraprese alla fine della guerra. I cambiamenti di parità sono stati agli inizi abbastanza fre-quenti, nell'intento di adeguare i rapporti monetari con l'estero alle mutate condizioni economiche interne. Le riserve valutarie sono cresciute abbastanza rapidamente in seguito

alla politica di aiuti praticata dagli Stati Uniti, alla rinnovata produzione di oro e alle risorse messe a disposizione dello stesso Fondo Mone-tario Internazionale.

A partire dagli inizi degli anni Sessanta, la rigida costruzione elaborata a Bretton Woods ha cominciato a mostrare le prime tensioni e le prime crepe: basti ricordare l'opposizione della Francia gollista all'accumulo massiccio di dollari nelle proprie riserve ed il tentativo di convertirne una parte in oro. Alcune delle ten-sioni sono successivamente sfociate in crisi. Si è avuta la svalutazione della sterlina nel 1967, il sistema ha attraversato momenti deli-cati nel 1968 con l'esplodere della speculazione sull'oro, terminata poi con lo sdoppiamento del suo mercato. Delle contraddizioni e debolezze del sistema ha potuto approfittare una rinata speculazione internazionale: il 1969 è stato particolarmente travagliato per alcune monete, soprattutto per la sterlina e per il franco francese. Il marco tedesco ha sofferto invece di una crisi di « salute », se cosi si può dire, cioè di un avanzo eccezionale nella bilancia dei pagamenti, che ha posto la banca centrale tedesca in difficoltà, nel fronteggiare un afflusso massiccio di capitali speculativi. Poi abbiamo avuto la rivalutazione del marco e la svaluta-zione del franco nell'agosto dello stesso 1969. Nel gennaio del 1970 è stata effettuata una prima distribuzione di diritti speciali di prelievo. L'attivazione della nuova moneta internazio-nale è stata senza dubbio la prima importante innovazione del sistema introdotta dalla sua fondazione. Nel 1970, comunque, il sistema ha conosciuto una relativa calma, foriera però di difficoltà maggiori.

E evidente, soffermandoci un momento in questo breve riesame storico, che l'incapacità del sistema di adeguarsi ad una realtà economica profondamente mutata è all'origine delle crisi ricorrenti. In particolare, gli estensori dell'ac-cordo di Bretton Woods non avevano previsto, né è logico pretendere avessero potuto preve-dere, il deterioramento progressivo della bilan-cia dei pagamenti americana, lo sviluppo vistoso dei movimenti sjDeculativi di capitale e le difficoltà del loro controllo e, ciò che più im-porta, la riluttanza dei paesi aderenti al sistema ad aggiustare prontamente i rapporti di cambio alle nuove situazioni; non avevano, in altre parole, previsto la vischiosità del sistema di aggiustamento istituito.

3. I meccanismi di aggiustamento.

Alcune considerazioni sono necessarie su questi problemi. Iniziamo dall'ultimo: il mec-canismo di aggiustamento delle bilance dei

pagamenti. Il sistema di cambi fissi, instaurato a Bretton Woods, presuppone per il suo corretto funzionamento una serie di condizioni di assai improbabile realizzazione. Innanzitutto, la sta-bilità dei prezzi interni o l'aumento in uguale proporzione in tutti i paesi interessati agli scambi. L'ipotesi è alquanto irreale ed inevita-bilmente si producono gli squilibri (un paese che registra aumenti nei prezzi interni superiori a quelli subiti dai paesi concorrenti perde gradualmente la propria concorrenzialità e va incontro necessariamente a difficoltà nella bi-lancia dei pagamenti), per la correzione dei quali, se si vogliono mantenere fìssi i cambi, è neces-sario ricorrere a manovre di politica economica interna: inflazionistiche o deflazionistiche a seconda dei casi. Il regime di fissità dei cambi ha dunque come conseguenza diretta la subordi-nazione della politica interna al mantenimento dell'equilibrio negli scambi con l'estero. È vero che lo Statuto del Fondo prevede, nel caso di squilibrio fondamentale, la possibilità di modificare la parità, ma il ricorso a tale misura non solo può dimostrarsi in taluni casi inefficace (in particolare nei paesi come il nostro, in cui le importazioni sono costituite prevalentemente da materie prime e da generi alimentari); soprattutto esso si è venuto confi-gurando negli ultimi tempi come un rimedio estremo, la cui adozione in particolare nel caso di svalutazione) ha ormai preso il significato di un riconoscimento del fallimento della poli-tica economica perseguita.

Dato ciò, i Governi sono diventati sempre più riluttanti a mutare il cambio ed il mancato aggiustamento produce inconvenienti di note-vole portata. I paesi deficitari vedono ridursi il saggio di sviluppo interno per la necessità di ricorrere frequentemente a politiche defla-zionistiche, atte a riportare in equilibrio i conti esterni, (caso tipico della Gran Bretagna), mentre i paesi creditori sono obbligati ad adot-tare politiche inflazionistiche, per eviadot-tare l'ac-cumulo eccessivo di riserve e a mettere a dispo-sizione dei paesi deficitari l'avanzo, che potrebbe essere meglio utilizzato per incrementare lo sviluppo interno. Ma vi è di più. La diversità degli andamenti congiunturali non deriva sol-tanto dalle dinamiche dei prezzi interni, ma anche dalla diversa elasticità di reddito delle esportazioni e delle importazioni, sulla quale evidentemente non è possibile influire. Il risul-tato è che lo sviluppo del commercio interna-zionale può avvenire senza scosse — in man-canza di un efficace meccanismo di aggiusta-mento — solo attraverso la creazione, ed im-missione continua di nuova liquidità interna-zionale, di nuovi mezzi di pagamento, che

rinviano la correzione degli squilibri per i paesi deficitari, ma non ne favoriscono in alcun modo la soluzione corretta. La fissità dei cambi impone una difficile scelta: o si frena il commer-cio internazionale o si dilata il volume della liquidità internazionale, per permettere ai paesi già deficitari di aumentare ulteriormente il loro disavanzo.

4. Il dollaro e la bilancia dei pagamenti americana.

Ma l'aumento della liquidità internazionale non è di per se stesso privo di problemi, quando si pensi che nel periodo in esame esso è stato in gran parte soddisfatto attraverso il deficit della bilancia dei pagamenti americana. Agli inizi del dopoguerra la posizione del dollaro appariva particolarmente forte, erano gli anni della fame di dollari — del « dollar gap ». I paesi europei, prostrati dalla guerra e con le riserve valutarie dissanguate, cercavano affannosa-mente di rimpinguare i proprii jsossessidi dollari. Ciò permetteva agli Stati Uniti di smaltire l'avanzo della loro bilancia dei pagamenti e sostenere la produzione interna con massicce politiche di aiuti, con prestiti ed esportazioni di capitali. Negli anni Cinquanta, la bilancia dei pagamenti americana ha mostrato i primi deficit complessivi, salutati però col benvenuto dai paesi europei intenti a ricostruire faticosa-mente le proprie riserve. Dal I960, la situazione ha avuto una svolta decisiva: i paesi europei hanno mostrato stabilmente un avanzo negli scambi correnti con gli Stati Uniti, mentre questi hanno proseguito senza soste nell'espan-sione delle esportazioni di capitali, destinati a finanziare i programmi di aiuti militari ed economici all'estero, la guerra in Indocina e l'acquisizione, da parte americana, delle aziende europee. L'incremento delle riserve in dollari dei paesi terzi si è quindi sviluppato in misura vertiginosa. Con il che la posizione del dollaro come valuta di riserva ha incominciato ad inde-bolirsi. All'aumento continuo dei dollari dete-nuti nelle riserve dei paesi terzi non corrispon-deva infatti un incremento parallelo nelle ri-serve auree statunitensi, anzi queste diminui-vano continuamente sia per le richieste di conversione avanzate, sia per gli interventi di sostegno (effettuati fino al 1968) sul mercato privato dell'oro. La convertibilità dei dollari in oro era divenuta, per buona parte di quelli posseduti dalle banche centrali (le famose « dollar balances »), puramente teorica: qualora tutti i dollari fossero stati presentati per la conversione, il Tesoro americano avrebbe po-tuto esaudire una parte limitata delle richieste.

Il dollaro, comunque, non è posseduto soltanto per la possibilità di conversione in oro. La sua funzione internazionale deriva, anche ed in gran parte, dalle possibilità di utilizzazione nelle transazioni internazionali. Ma per assolvere alle sue funzioni esterne in particolare per continuare ad essere moneta di riserva anche senza la convertibilità aurea, è necessario che il potere d'acquisto interno del dollaro non diminuisca più rapidamente di quello delle altre monete. Condizione questa che non si è verificata più negli ultimi anni.

Tabella 2.

S A L D O D E L L A B I L A N C I A D E I P A G A M E N T I D E G L I S T A T I U N I T I

(in miliardi di dollari)

ANNI SALDO SULLA BASE DELLA LIQUIDITÀ

SALDO SULLA BASE DELLE TRANSAZIONI UFFICIALI 1961 — 2,4 — 1,3 1962 — 2,2 — 2,7 1963 — 2,7 — 2,0 1 9 6 4 — 2 , 8 — 1,6 1965 — 1,3 — 1,3 1966 - 1 , 4 0,3 1967 — 3,5 — 3 , 4 1968 0,2 1,6 1969 — 7,2 2,7 1970 — 3,9 — 9,8 1971 (1° trini.) — 2,5 — 5,5 1971 (l»/4-15/6) — 1 1 , 5 — 13,0

Di qui la contraddizione del sistema. Lo sviluppo indisturbato degli scambi abbisogna della creazione continua di liquidità interna-zionale, questa può provenire essenzialmente solo dal deficit della bilancia dei pagamenti americana. Si ingrossano le riserve valutarie dei paesi terzi, ma si tratta di riserve la cui converti-bilità aurea è diventata teorica e che si svili-scono in valore, per effetto dell'inflazione ame-ricana.

La crisi del dollaro ha comunque raggiunto il suo apice nella primavera del 1968, in conco-mitanza con i sussulti del mercato privato dell'oro, per poi rientrare in seguito allo sdop-piamento del prezzo del metallo giallo. Gli Stati Uniti si sono infatti opposti recisamente a nuove conversioni di dollari in oro, mentre, dall'altro lato, si è assistito all'inizio di un mas-siccio riafflusso di dollari verso i mercati finan-ziari americani, attirati dall'aumento nei saggi di interesse seguito dall'adozione di una politica monetaria più restrittiva da parte del governo

federale. Le banche americane, cioè, non po-tendosi più finanziare in misura sufficiente sul mercato americano hanno cominciato ad attin-gere fondi in Europa mediante le proprie filiali. Si è avuta quindi la calma di cui si è fatto cenno prima: i detentori privati di dollari, anziché portare tale valuta alle banche centrali per la conversione in oro, hanno trovato più conveniente depositarla presso le filiali europee delle banche americane o, più in generale, sul mercato dell'eurodollaro. L'afflusso di dollari nelle riserve valutarie è stato temporaneamente frenato, rinsaldando cosi temporaneamente la posizione della moneta americana. Il fenomeno, comunque, non è stato privo di conseguenze negative per i paesi europei. La corsa al rialzo dei tassi di interesse, innescata dalla politica americana, ha provocato tensioni sui mercati monetari e finanziari e ha rallentato lo sviluppo. Gli spostamenti di capitali a breve di natura speculativa hanno mostrato una forza dirom-pente assai superiore alle difese approntate dai singoli stati. Infine, l'espansione del deficit dei pagamenti degli Stati Uniti ha significato il perdurare del finanziamento dello sviluppo americano a scapito di quello europeo, mentre è divenuta evidente la subordinazione delle po-litiche economiche europee e quella americana.

5. La crisi dell'ultimo anno.

All'inizio dello scorso anno, il 1971, si vede-vano riunite le premesse per lo scoppio di una nuova e più importante crisi nel sistema inter-nazionale. Assumeva infatti un ritmo assai più rapido il riafflusso di fondi bancari dagli Stati Uniti verso 1 Europa, che era incominciato già nei mesi precedenti. Il motivo: le vistose diffe-renze esistenti, fra le due sponde dell'Atlantico, nei mercati bancari e nelle strutture dei saggi di interesse. Le autorità americane avevano accentuato infatti la loro politica di allenta-mento delle restrizioni del credito (iniziata nella primavera del 1970, dopo il fallimento della Penn Central, che rimane un punto impor-tante di spiegazione degli avvenimenti succes-sivi). La discesa dei saggi di interesse, che ne era seguita, permetteva alle banche americane di raccogliere nuovamente fondi sul mercato interno, dopo la abolizione della regolamenta-zione sui depositi. Al medesimo tempo, invece, i principali paesi europei, sotto la pressione di un'inflazione accelerata, praticavano una poli-tica di costo elevato del denaro. In conseguenza di ciò, le banche americane erano in grado di rimborsare fra il 1970 ed i primi mesi del 1971 circa 13 miliardi di dollari precedentemente drenati sul mercato dell'eurodollaro. Il quadro era completato dal rapido deterioramento della

bilancia americana di base (partite correnti più movimenti di capitale a lunga), che si pre-vedeva avrebbe raggiunto entro la fine dell'anno un deficit di circa 8 miliardi di dollari (contro una media di 2 miliardi nel decennio precedente). E evidente che l'aggravarsi del deficit acuiva l'instabilità monetaria ed il trasferimento in Europa di capitali a breve, incoraggiati, oltre che dai differenziali nei tassi di interesse, dalla prospettiva di un guadagno di capitale, nell'ipo-tesi sempre più vicina di future rivalutazioni. I capitali a breve si riversavano soprattutto nella Repubblica Federale tedesca (più di dieci miliardi di dollari nell'anno terminato il 5 maggio) ed in misura minore in Gran Bretagna, con il risultato — in quest'ultimo caso — di far passare la sterlina nel novero delle monete forti, malgrado la precaria situazione nei conti correnti con l'estero, e di allineare, ciò che è più importante, le posizioni inglesi su quelle europee nella futura trattativa politica.

Sommerse dalla pioggia di dollari, le banche centrali europee non trovavano altra soluzione che il loro reimpiego sul mercato degli euro-dollari, che trovava nuova alimentazione e dal quale — almeno in parte — i fondi rifluivano nelle casse centrali. Di fronte al pericolo del-l'insorgere violento dell'inflazione, la Germania (che evidentemente non ha ancora dimenticato la lezione del primo dopoguerra) decideva il 5 maggio di chiudere il mercato dei cambi. II 9 maggio si riunivano a Bruxelles i Sei del Mercato Comune. Tedeschi e olandesi propo-nevano di abbandonare la difesa delle parità con il dollaro, mantenendo però le parità fìsse fra le monete comunitarie. La proposta riceveva l'opposizione della Francia, ed in una certa misura dell'Italia, timorose di vedersi aggregate al carro tedesco e olandese in una rivalutazione rispetto al dollaro, che avrebbe seriamente compromesso le possibilità concorrenziali sul