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Che la pubblicità italiana dopo la guerra rinascesse, parimenti all’industria, con modalità rinnovate appare subito evidente. Nonostante nei primissimi tempi la cartellonistica conservi una forte centralità, e i legami e le parentele con l’arte non solo permangono ma continuano a ricoprire un ruolo fondamentale, già a partire dal 1946 si intravede un certo dinamismo. Ma è soprattutto sul versante dell’organizzazione aziendale che si registrano i primi interessanti cambiamenti, con l’apertura di parecchi nuovi studi pubblicitari e con l’arrivo in Italia delle grandi agenzie anglosassoni.

L’arrivo massiccio delle agenzie americane negli anni a cavallo fra il ’48 e il

’52 non pare, infatti, essere giustificato dall’andamento ancora debole del mercato italiano, nonostante quell’arrivo si inserisse in un approdo generalizzato delle agenzie in Europa e nonostante esse promuovessero inizialmente solo prodotti statunitensi. A fianco alle relazioni diplomatiche, oltre al condizionamento degli aiuti monetari e ad una lotta decisa al consumismo , gli Stati Uniti operano sull’Italia una pressione di tipo sociale-culturale. Il Piano Marshall, infatti, oltre ad essere stato un

17 aiuto decisivo per la ripresa delle economie europee, è stato anche il veicolo di quel sistema di valori di natura sociale ed economica statunitensi, che, in qualche modo hanno condizionato la modernizzazione delle società occidentali. Naturalmente, ha avuto miglior penetrazione laddove, come in Italia, il tessuto socio-economico si presentava vulnerabile, arretrato, condizionato da nei antichi.

In questo quadro di sviluppo, le agenzie di pubblicità americane hanno generalmente ricoperto un ruolo fondamentale, da un lato rappresentavano gli interessi delle grandi imprese d’oltreoceano, dall’altro introducendo tecniche e modalità operative nuove sul versante della struttura aziendale e della gestione del mercato, quindi, della realizzazione con i consumatori. Questo ruolo di ambasciatrici di un modello e di un sistema socio-culturale è vissuto in modo assolutamente consapevole dalle agenzie americane, tanto che nei primi anni Cinquanta

“Advertising Age”, la pubblicazione periodica dell’associazione pubblicitaria americana, riconosce ed esse un ruolo diplomatico ufficioso, essendo capaci di rappresentare e di esportare gli stili di vita del proprio paese in modo più realistico e più efficace delle ambasciate e del Dipartimento di Stato.11

Negli anni Trenta la concezione del mercato si era trasformata radicalmente quando i modelli di evoluzione degli scambi prospettati dagli economisti si erano dimostrati vulnerabili ed estremamente fallaci. Alla centralità dell’ideologia produttivistica, si era sostituito un capitalismo della distribuzione, perché gli imprenditori avevano preso coscienza di un fatto: che produrre e vendere sono obiettivi industriali organicamente collegati e che l’offerta dei beni deve essere equilibrata sulla base della struttura della domanda. Questa nuova consapevolezza aveva dato luogo nell’industria a un modo completamente diverso di operare:

rafforzare le funzioni commerciali, porre maggiore attenzione all’ottica del consumatore. In un contesto di mercato di tal genere, anche il ruolo e le funzioni dell’agenzia di pubblicità si sono evolute. La campagna pubblicitaria diviene soltanto una fase di un più ampio processo commerciale, e il messaggio pubblicitario, un tramite tra il produttore e consumatore che dà origine a un circuito informativo all’interno del quale essi giocano alternativamente il ruolo di emittente e di destinatario. La gestione di una campagna richiede una struttura complessa, le cui

11 Cfr. MATTELART ARMAND , L’Invenzione della comunicazione,Saggiatore editore,1998.

18 doti principali non risiedono più esclusivamente nella capacità creativa, ma soprattutto in quella di coordinamento di attività certamente complementari. Nella stessa impresa, convivono difatti il servizio di ricerca e lo studio d’arte, la gestione dei budget e la redazione degli annunci, l’acquisto di spazio pubblicitario e la fabbricazione di materiale promozionale.

A partire dagli anni Cinquanta, anche l’agenzia di pubblicità diventa luogo diffuso e delocalizzato del lavoro di produzione dell’immaginario collettivo. Ci troviamo di fronte ad un mercato molto dinamico, estremamente diversificato, e variabile nei diversi settori, quindi in trepidazione 12. I pubblicitari italiani, tuttavia, pur ampliando le proprie specificità e aprendosi a una logica più articolata e attenta al mercato, negli anni immediatamente seguenti la guerra , continuano a preferire strutture piccole e agibili, ancora fortemente centrate sulla figura del fondatore, dove l’aspetto creativo continua a prevalere. Anche se, a differenza del passato, l’applicazione creativa inizia ad abbracciare contesti sempre più vasti, inventando dunque modalità creative di fare marketing o modalità nuove di utilizzare i media e le tecniche ad essi legate. Una direzione che si rivelerà particolarmente utile, dapprima nel corso degli anni Sessanta, quando le strutture pubblicitarie si troveranno ad agire in un mercato bloccato e condizionato dalla politica, successivamente, negli anni Settanta, quando dovranno rispondere alle esigenze comunicative delle piccole imprese dai budget molto limitati. Circostanze che consentiranno loro di “professionalizzarsi” sul versante del below the line (promozioni, eventi, sponsorizzazioni). I segni di rinnovamento della pubblicità italiana non si leggono solo sul versante della struttura aziendale e delle modalità operative e strategiche, ma anche su quello linguistico ed espressivo. Nell’immediato dopoguerra, l’ambiente dell’arte si allontana dallo specifico pubblicitario, quasi a voler ribadire quella differenza fra arte pura e arte applicata.

Fra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, si sviluppa in tutta Europa un acceso dibattito su quella che viene definita arte popolare, tutto ciò che ha a che vedere con la cultura urbana di massa. La pubblicità diviene uno dei temi centrali di tale dibattito, perché è l’essenza dell’esaltazione che di se stessa fa la

12 Cfr. RAGONE-LAURENZI, Analogie. Introduzione al linguaggio della pubblicità,Liguori editore, 2001.

19 società dei consumi. Ma tutti i movimenti artistici si confrontano con essa, sono costretti ad affrontarsi con essa, perché

“ la rottura delle frontiere fra le diverse arti e le diverse tecniche, comporta per tutti il confronto” 13.

Dal punto di vista teorico, l’atteggiamento si focalizza su due posizioni. Una è di apertura, l’altra è di totale rifiuto. Della prima si fa in qualche modo portavoce L’Indipendent Group, un movimento di artisti, designer, critici d’arte formatosi all’interno dell’Institute of Contemporary Art di Londra, secondo cui l’approccio non è di studio e di critica, ma di accettazione. La seconda è espressa da alcuni teorici di punta del pensiero marxista, che proprio per segnare una linea di demarcazione netta con la cultura di massa, coniano con l’accettazione negativa l’espressione industria culturale. L’artista cambia ruolo e cambia la sua relazione con la pubblicità. Essa, è già di per se stessa una forma espressiva autosufficiente, è un linguaggio con una propria sintassi e con una propria grammatica autonome, che certamente attinge anche ai linguaggi dell’arte, del cinema, dei media, ma li trasforma, li adatta e li rifonda, generando qualcosa di nuovo e di diverso da essi.

Anche la pubblicità si interroga sul proprio rapporto con l’arte. Tendono a contrapporsi due visioni differenti, l’una ancora percossa dal dilemma industriale fra cultura d’autore e cultura di massa; l’altra incline a formulare nuovi linguaggi per una società complessa, diffusa14. Il dibattito si accende attorno al ruolo del manifesto, che nel secondo dopoguerra entra palesemente in crisi, sospinto dall’arrivo delle agenzie di modello americano, dalla nascita di nuovi media, soprattutto dalla trasformazione urbana, dal mutamento stesso del concetto di città e dalla ridefinizione radicale degli spazi di socializzazione interni ad essa. Il manifesto pubblicitario è una parte stessa della metropoli, è uno degli ingranaggi della civiltà metropolitana. Al mutare della città, muta anche il manifesto.

13 Cfr. GRAZIOLI ELIO, Arte e pubblicità,Mondatori editore,2001.

14 Cfr. ABRUZZESE ALBERTO, Archeologie dell’immaginario. Segmenti dell’industria culturale tra ‘800 e ‘900, Liguori editore, 1988.

20 Essendo mutato lo spazio di interazione fra pubblico e produttori, essendosi moltiplicati i modelli culturali, sorge un interrogativo: la pubblicità deve liberarsi dal rapporto con l’arte e affidarsi alla tecniche sofisticate di marketing? o può ancora trovare nella sensibilità dell’artista elementi di divulgazione e di comunicazione efficaci? E’ Armando Testa, un pittore, a fornire una risposta. Il creativo contemporaneo non deve pensare il manifesto per il territorio della città, bensì per il territorio dei media, deve congiungerlo ai flussi di informazione, scioglierlo nella moltiplicazione delle immagini, calarlo nell’immaginario. Deve produrre un’immagine multimediale, capace non più soltanto di sedurre lo spettatore, bensì anche di intrattenerlo con le tecniche più evolute di marketing.

Per quanto inizialmente ancora affidata all’uso del manifesto, la pubblicità del dopoguerra tende a modificare sin da subito lo stretto legame con il mondo dell’arte e del progetto. Le immagini e le illustrazioni perdono quasi immediatamente l’abito creativo e artistico che fino al ’39/’40 le aveva contraddistinte e si associano in modo inseparabile alla parola. Inizia a conformarsi quella struttura tipica di equilibrio della pagina pubblicitaria fra visual e copy, fra la componente visiva, quindi la veste grafica dell’intero annuncio, e la componente verbale, che rappresenta uno degli elementi maggiormente percepibili dell’innovazione pubblicitaria dell’immediato dopoguerra. Se nell’uso della grafica il distacco dall’arte si palesa sotto forma di semplificazione dell’immagine, nell’uso della parola sono avvertibili le prime sostanziali novità sotto il profilo della semplificazione del linguaggio. Anche la figura degli slogan si semplifica, affidandosi maggiormente alle tradizionali figure della retorica e quindi a una ricerca di efficacia diretta e immediata, utilizzando parole di uso comune vicine all’essenziale e popolare vocabolario dei rotocalchi.

Anche alla radio la pubblicità recupera poco alla volta un proprio ruolo centrale. L’ente radiofonico riesce a dotare il mezzo di una conformazione e di una struttura abbastanza precisa e caratterizzata. Il palinsesto diventa progressivamente più ricco e articolato ed è suddiviso, a partire dal 1952, in tre reti che assolvono alle funzioni di informare, divertire ed educare, rispondendo in maniera puntuale alle richieste di divulgazione a livello di acculturazione di base, di approfondimento di conoscenze, di arricchimento colto e superiore. Nascono numerosi programmi di

21 ottimo livello, grazie anche al contributo di numerosi attori e di numerosi intellettuali.

Nel 1951 la drammatica alluvione del Polesine rileva che la radio aveva raggiunto un’indubbia maturità anche sul versante dell’informazione. A differenza che in passato, i servizi dal delta del Po si segnalano non solo per la tempestività, per l’elevata componente tecnica e per la copertura continua, ma anche per la qualità giornalistica in cui la faziosità che l’aveva caratterizzata negli anni Quaranta appare decisamente stemperata, non certamente scomparsa, ma addolcita in un flusso di notizie e di commenti che tentano di cogliere e di raccontare il disastroso evento con uno sguardo a trecentosessanta gradi. E’ l’inizio di un genere radiofonico, il documentario, molto innovativo, teso a mostrare aspetti differenti della realtà sociale non soltanto utilizzando le armi del giornalismo, ma anche le capacità tecnologiche del mezzo e il loro potere suggestivo: i suoni, i rumori, le voci di sottofondo. Anche in radio il linguaggio tende a semplificarsi, a seguire le stesse modalità utilizzate sulla stampa, tentando tuttavia di mantenere una specificità propria del mezzo e dunque affidandosi sempre all’uso della musica e del jingle che, a partire dal 1951 a seguito del grande successo del primo Festival di Sanremo, diverrà la forma più utilizzata di comunicazione pubblicitaria.