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Quali mercati per i prodotti delle imprese alternative?

I prodotti delle imprese alternative, oltre a essere venduti all’interno dei mercati locali e nel mercato capitalista, in concorrenza con le merci che esso produce, hanno ottenuto negli ultimi anni, uno spazio privilegiato, rappresentato dal commercio equosolidale. Questo commercio è nato in Olanda, da una società di importatori ispirata dalla idee di Frans Van del Hoff e di Nico Roozen: si propone di lavorare per lasciare ai produttori una quota maggiore del valore “e promuovere la loro inclusione e accesso al mercato” (Becchetti 2012 p. 148). È iniziato con prodotti, quali il caffè e il cioccolato. Le caratteristiche comuni alle storie dei diversi produttori, che sono entrati a far parte di questo circuito sono: l’iniziale isolamento e la forte dipendenza da un intermediario monopolista, che fissa il prezzo a livelli svantaggiosi per il produttore; la penalizzazione, derivante dalle oscillazioni del prezzo sul mercato. Il produttore che ha aderito a questa forma di commercio, in linea di massima, continua a vendere anche sui mercati locali e agli intermediari “tradizionali”. Tuttavia, i vantaggi che gli derivano dal commercio equosolidale sono maggiori: la stabilità di prezzo è l’elemento centrale,

approfondita delle piante. Una figura analoga esiste anche nel contesto andino, nel quale prevalgono le figure maschile i cosiddetti curanderos. In entrambi gli ambienti la medicina tradizionale, si affianca all’ufficiale.

101 Dalla critica del modello estrattivista è sorta la necessità di sostituire il termine “risorse naturali”, di matrice economicista, con “beni comuni”. Il concetto di bene comune richiama l’esigenza di un uso responsabile del bene stesso, nonché la ricostruzione delle relazioni comunitarie, indispensabili alla sua tutela.

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perché garantisce la possibilità di pianificare la produzione nel tempo. Il prezzo in realtà è più elevato, si configura come un sovrapprezzo che viene suddiviso in due parti: una va direttamente al produttore, l’altra alle strutture che favoriscono la nascita di percorsi associativi, garantiscono miglioramenti nei livelli di salute e un maggiore accesso all’istruzione (Amatucci 1997; Becchetti 2012). I criteri per entrare all’interno del commercio equosolidale, vedendosi riconoscere il marchio, sono molto severi. Il marchio è la garanzia, per i consumatori, che quel bene è prodotto nel rispetto di criteri fondanti, ad esempio senza lo sfruttamento del lavoro minorile.

L’idea alla base di questa esperienza, è creare un collegamento tra le diverse parti del mondo, sovvertendo le regole del commercio internazionale, che hanno acuito la povertà e lo sfruttamento. Questa iniziativa, tuttavia, non è esente da critiche: da un lato degli economisti ortodossi, dall’altro dei teorici dello sviluppo alternativo.

Il primo gruppo contesta in particolare tre aspetti:

1) L’applicazione di un premio di prezzo e quindi in sostanza di un prezzo più elevato, genera effetti distorsivi del meccanismo della domanda e dell’offerta, creando un eccesso di offerta.

2) Le istanze filantropiche potrebbero essere facilmente colmate attraverso la beneficienza; le quote da destinare a queste attività caritatevoli deriverebbero proprio dal risparmio che si ha dall’acquisto di prodotti a prezzo di mercato. 3) Manifestano seri dubbi sui reali impatti che questo circuito ha, sul miglioramento

dell’efficienza produttiva e della qualità della vita.

Becchetti (2012) contesta ciascuna delle critiche: la prima perché non si agisce su mercati perfettamente concorrenziali (ammesso che esistano), ma in una condizione di mercati monopolistici; rispetto alla seconda, afferma che, gli importatori del commercio equosolidale suppliscono alla mancanza di una authority che vigili sulla tutela della concorrenza, questo lavoro serve a combattere le cause strutturali della povertà; l’elemosina non dà dignità. Infine, in risposta all’ultimo punto, l’autore riporta i risultati di alcuni studi condotti su diverse realtà ed evidenzia come, in tutte, siano stati raggiunti, tra gli effetti diretti, il miglioramento della produttività e tra quelli indiretti, il più significativo è l’aumento del tasso di scolarità dei figli dei produttori. Questo dato

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cambia nella sua significatività a seconda delle zone analizzate, ma è in generale positivo.

Accanto alle critiche degli economisti ortodossi, si trovano altre valutazioni condotte da chi, come Silvia Pérez-Victoria (2007), cerca di guardare la realtà da Sud verso Nord, verificando le ricadute degli interventi intrapresi.

L’autrice in particolare analizza uno degli elementi centrali del commercio equosolidale: l’applicazione del sovrapprezzo, cui è collegata l’apposizione del marchio. Rispetto al prezzo scrive:

“Per questo sovrapprezzo il consumatore ha diritto a una contropartita: il marchio applicato dai certificatori. [..] Il capitolato d’oneri imposto ai contadini, contiene impegni sul lavoro, sull’obbligo di fornire «un caffè di qualità che risponde alle norme e alle esigenze tradizionali» e infine sulla necessità di sottoporsi «ai controlli finanziari strutturali e organizzativi di un incaricato dell’impresa certificatrice». Lo vediamo ancora una volta, sono i paesi ricchi che impongono le proprie condizioni. [..] I produttori del Sud del pianeta sono incoraggiati da un sistema che li spinge a produrre per l’esportazione a discapito delle coltivazioni per l’alimentazione diretta” (Pérez- Victoria 2007, p. 117).

Le osservazioni dell’autrice, permettono di intravedere problematiche concrete, quali i vincoli sul lavoro. La produzione agricola (i prodotti del commercio equo non fanno eccezione) è portata avanti dalla famiglia nel suo complesso, tutti contribuiscono con la loro capacità di lavoro, bambini compresi; questo ovviamente non deve dar luogo a uno sfruttamento, ma è parte della vita comune della gente. Il secondo aspetto, critico, è quello di configurare una produzione “extravertita” (Bottazzi 2009). Sebbene essa sia pagata bene, esiste realmente il rischio di utilizzare le superfici terriere a disposizione (spesso molto piccole), per produrre beni di esportazione, piuttosto che cibo per le famiglie.

Un’evoluzione del commercio equosolidale, che si sta studiando, è la vendita dei prodotti non solo nelle botteghe nel mondo, ma anche nei circuiti della grande distribuzione, così come nelle catene come McDonald’s (Pérez-Victoria 2007) e Starbuks. Il fenomeno è oggetto di analisi, ma suscita almeno due considerazioni, che solo uno studio approfondito potrà confermare: da un lato si configura una sorta di incongruenza, dal momento che è in questi spazi che si uniformano le pratiche alimentari sbagliate (soprattutto McDonald); dall’altro dimostra una sempre maggiore

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attenzione ai prodotti, e quindi una crescita di coscienza e conoscenza dei consumatori (Amatucci 1997).

L’EdS ha certamente bisogno di questo spazio di vendita, che, tuttavia, non può prospettarsi come il solo canale perché, per potersi consolidare come settore alternativo al capitalismo e all’economia statale, ha bisogno di riuscire a stare stabilmente sul mercato.

Il commercio equosolidale “intercetta” un tipo particolare di consumatori, che parafrasando l’autore, “votano con il portafoglio”. Il consumo non è un’attività neutrale. Essi hanno capito che: “il mercato siamo noi. Ci vuole poco per cambiare il sistema in cui viviamo se cresciamo nella consapevolezza di quanto possiamo fare insieme” (Becchetti 2012 p. 143).

Nel corso del tempo, il consumo ha subito importanti trasformazioni: si è passati dalla convinzione che il consumo rendesse più felici, alla corsa per accaparrarsi i cosiddetti beni posizionali (Hirsh 2001). Questi beni “conferiscono utilità per lo status che creano, per la posizione relativa nella scala sociale, che il loro consumo consente di occupare” (Bruni, Pelligra 2002 p. 116); per arrivare oggi alla promozione di un consumo critico, informato, sobrio. Come sostiene lo stesso Bruni (Ibidem) è necessario ampliare la nozione di bene economico, ciò che compriamo non è solo un oggetto, racchiude storie, incontri, opportunità, che stiamo dando a produttori più o meno vicini.

Nella formulazione della “Teoria economica comprensiva”, Razeto identifica il tipo di consumo che caratterizza il settore solidale dell’economia:

a) “Preferenza del consumo sociale di massa rispetto a quello individuale. [..] Ciò che è prodotto in maniera comunitaria (grazie al fattore C) è consumato in comune, [..] questo crea un individuo predisposto alle attività in associazione. b) Vicinanza e relazione diretta tra consumo e produzione. [..] I consumatori sanno

chi produce, [..] cooperano con il produttore, dal momento che scelgono di consumare ciò che viene prodotto localmente.

c) Tendenza al soddisfacimento simultaneo di più necessità, attraverso atti di

consumo integrato. [..] Questo sovverte il principio della suddivisione delle

necessità, promuove invece un’integrazione dal momento che, all’interno della stessa associazione vengono programmate una serie di attività, che permettono di vivere attività culturali, consumo di alimenti, insegnamenti di varia natura, tutela della salute. Il consumo comunitario genera un utilizzo più completo ed

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equilibrato dei prodotti.

d) Predominio del consumo di beni e servizi relazionali e culturali. È un settore che favorisce la soddisfazione delle necessità di convivenza, di relazione con gli altri, aspirazioni di natura spirituale, che hanno bisogno di beni e servizi culturali.

e) Tendenza alla spontaneità e semplicità. [..] In questo settore il consumo sfugge simultaneamente alla standardizzazione come alla complicazione, [..] è un consumo relativamente semplice, armonico e naturale, dove si rispettano le differenze individuali, cercando di armonizzarle con quelle del gruppo.

f) Preferenza per beni e servizi che offrono un’utilità immediata e prolungata tanto

ai consumatori primari come a eventuali consumatori secondari. Questa

caratteristica del consumo è conseguenza diretta del carattere solidale delle relazioni [..] ed espressione dei valori di solidarietà e cooperazione che lo distinguono. [..] La partecipazione al settore solidale permette di capire che tutti i fenomeni sono relazionati sia dal punto di vista temporale che spaziale, aumenta così la preoccupazione per ogni sorta di esternalità. [..] C’è una perenne ricerca di adeguare i prodotti alle necessità individuali, comunitarie e sociali. g) Preferenza per un consumo di qualità piuttosto che in quantità. [..] Dal

momento che la scelta per la qualità si configura sempre a discapito della quantità, il consumo in questo settore si configura come austero e frugale; questo non significa prediligere la povertà. È piuttosto il risultato della scoperta che queste scelte di semplicità migliorano la qualità della vita” (Razeto 2015b p. 601).

Nonostante i punti critici, il commercio equosolidale ha il merito di aver mostrato, concretamente, il potere di un consumo fatto in coerenza con i propri principi, oltre che aver aperto nuovi mercati per produttori a lungo esclusi o quasi ridotti in schiavitù dagli intermediari.

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