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La diffusione del cristianesimo contribuisce alla rilevante differenziazione linguistica nella produzione letteraria che caratterizza la tarda antichità1; con variazioni che si manifestano nella semantica, nel lessico, nella morfologia e nella sintassi2. La formazione di comunità cristiane implica lo sviluppo di una lingua speciale, che in Occidente è il latino cristiano.

L’importanza di un’analisi lessicale per un’efficace comprensione della società che descrive Eugippio nella Vita Seuerini è riconosciuta dai numerosi studiosi che si sono occupati dell’opera, con attenzione all’usus scribendi dell’autore3.

In coerenza con la scelta narrativa di Eugippio, che descrive individui di ogni estrazione sociale in rapporto con il santo protagonista della narrazione, appartenenti a ceti superiori e inferiori, ho prestato particolare attenzione al valore sociologico emerso dall’agiografia e quindi soprattutto al lessico che sia di possibile pertinenza a tale ambito. Termini come rex e populus, limitandomi solo a due esempi di quelli che tratterò, rimandano inoltre ad altri piani interagenti, quello politico, religioso e letterario; l’agiografo della Vita Seuerini è probabilmente conscio della dialettica tra i vari livelli e sembra decidere con consapevolezza quando far prevalere l’uno sugli altri.

Propongo appunto come primo termine dell’analisi la nozione di rex, che si inserisce in un vasto e antico gruppo di parole relative sia alla religione sia al diritto4. Secondo l’etimologia originaria indoeuropea il rex non è tanto colui che si trova al grado più alto di potere, con compito principale il comando, ma piuttosto colui che determina ciò che è ritenuto “retto” e quindi stabilisce le regole da seguire.

Il concetto si trasforma, su un piano diatopico e diacronico, e se nell’antica cultura latina il rex è colui che è investito di poteri divini (rex sacrorum), nella cultura ellenica e nel linguaggio neotestamentario ogni funzionario romano e giudaico è designato come ἄρχων, a significare sia il soggetto detentore di un’alta carica sia l’individuo in senso assoluto più autorevole5.

Presso le popolazioni germaniche il valore di regalità è privo di qualsiasi connotazione religiosa; il più abile condottiero acquisisce la possibilità di esercitare la propria autorità sugli altri.

Eugippio quando scrive rex sembra alludere proprio a quest’ultimo significato, infatti nel suo testo agiografico la carica è designazione indistinta del capo-guerriero di ogni gens: Attila (VS 1,1), Flacciteo(5,1), Odoacre (7, 32,1), Feleteo (8,1.3), Gibuldo (19,1) e Teoderico (44,4).

La nozione di rex nella Vita Seuerini è inoltre elemento lessicale distintivo delle etnie barbariche, il potere romano e cristiano è infatti sempre designato soltanto con il termine imperium6. L’introduzione di questa forma astratta mi fornisce il pretesto per passare dalla breve rassegna delle maggiori differenziazioni semantiche di rex alle sue variazioni di natura morfologica, tipiche del latino tardo, che interessano anche l’usus di Eugippio.

1

Sul piano sia storico sia linguistico l’Impero tardo antico si presenta fortemente differenziato nelle singole realtà locali; la lingua dell’amministrazione, il latino, si diffonde su un’area molto estesa ed entra in contatto anche con lingue senza una tradizione scritta – cfr. Momigliano, Schiavone 1989:679-691.

2

Per una indicazione puntuale degli studi di settore cfr. Schrijnen 2002:26. Ritengo opportuno segnalare tuttavia quanto argomentato da numerosi studiosi e ben articolato in Löfstedt 1980:61-86, secondo cui il latino cristiano conserva i caratteri stilistici della tradizione classica e retorica, benché sia innovativo il pensiero divulgato. Di questa lingua speciale sono stati posti in evidenza comunque soprattutto i volgarismi, i calchi e i neologismi, i prestiti dal greco e da alcuni sottocodici, fra cui specialmente il gergo militare.

3

Su tutti il più dettagliato: Ruprechtsberger 1976:227-299.

4

Benveniste 1976/II:291-6; Du Cange VII, s.v. rex, pp. 178-80; Blaise Patristico, s.v. rex, p. 800: Rex è l’imperatore, il

dux, il comes, ma anche il canonico o comunque colui che presiede a un servizio ecclesiastico nel ruolo più alto.

5

TLG II, s.v. ἄρχων, col. 2136; GLNT I, s.v. ἄρχων, coll. 1298-1302: nel significato religioso è designazione di Mosè (Act. 7,35) e Cristo (Apoc. 1,5), ma anche di potenze sovraumane nemiche di Dio.

6

VS 3,3: dei imperium; 12,4: imperium diuinum; 20,1: Romanum imperium. Soltanto in un’unica occorrenza imperium è designazione anche del dominio barbarico (VS 17,2: barbarorum imperium), ma forse Eugippio qui intende proprio sottolineare l’accezione negativa del termine, inteso come sopruso (Cic. Rep. 2,23), giacché sta descrivendo un quadro generico di desolazione dovuto alla dominazione di barbari, di cui non riferisce nemmeno l’etnonimo.

A partire dal IV secolo la metonimia diviene la figura retorica privilegiata da diversi autori e spesso è preferito l’impiego del termine regnum in sostituzione di rex7. Sembra plausibile che si tratti di un richiamo alla tradizione poetica e all’oratoria classica, ma il modello principale è ancora probabilmente la prima letteratura cristiana8.

Nella Vita Seuerini è documentato l’utilizzo di entrambe le parole, ma c’è una particolarità che merita di essere evidenziata: rex e regnum compaiono insieme soltanto quando l’agiografo si riferisce alla dinastia dei Rugi e a Odoacre9, come se Eugippio volesse circoscrivere i requisiti dell’autorità suprema soltanto a una specifica etnia e a un solo condottiero, meritevoli di essersi mostrati rispettosi nei confronti di Severino e della religione cristiana, quindi tolleranti di fronte al costume romano vigente.

Peraltro nel capitolo più esteso che Eugippio dedica alla descrizione dei rapporti tra i Rugi e Severino (VS 8,1-6) la terminologia appartente al campo semantico della regalità è frequente: rex,

regnum (8,1); regalis, rex, regium (8,3); regina (8,4.6).

Un termine che invece si riscontra un’unica volta, ma nel momento più importante della narrazione, mentre Severino svolge il proprio discorso di commiato prima di morire, è proprio il uocabulum

religionis (VS 43,5); Eugippio riferisce il seguente discorso: scientes non prodesse nobis humilitatem uestis, nomen monachi, uocabulum religionis, speciem pietatis, si circa obseruantiam mandatorum degeneres inueniamur et reprobi.

La parola “religione” perde significato senza l’osservanza dei precetti, questa affermazione si può leggere come sintesi dell’intero pensiero di Eugippio, ma ora ci interessa soprattutto un’analisi lessicale e lo stesso autore introduce il concetto con il termine uocabulum, quasi invitando il lettore a soffermarsi sul significato della parola religio.

L’agiografo non intende rinviare in questa occorrenza a nessun’altro piano se non a quello strettamente attinente alla vita religiosa, alla pratica monastica10; per farlo richiama, attraverso la “spia linguistica” uocabulum, a una discussione sull’etimologia di religio.

Dalla Vita Seuerini emerge il senso di un dovere alla pratica cristiana, che deve contraddistinguere il monaco; la religio non è più però l’esito di una scelta soggettiva, come nel mondo classico romano quando si esplica nella consultazione degli àuguri o nel rispetto dei riti propiziatori11, tra gli autori cristiani tardo antichi prevale il concetto di religio come conformità a un sistema di obbligazioni comunitario, in cui le regole formali sono trasmesse dalla tradizione12.

7

Peregr. Aeth. 4,2.3: sicut scriptum est in libris regnorum / lectus est ipse locus de libro regnorum – la citazione è richiamata e analizzata sia nel commentario filologico alla Peregrinatio Aetheriae sia in studi successivi sul latino tardo (Löfstedt 1911:112, 1980:219). Libri Regnorum invece che Libri Regum è metonimia dovuta peraltro al fatto che si tratta della traslitterazione latina dal greco βασιλείων. L’esempio assume notevole valore in rapporto all’opera di Eugippio, proprio perché si tratta di una citazione biblica. Il libro dei Re è infatti il quarto libro della raccolta ebraica dei “Profeti”e celebra la storia dei Re di Israele, dall’avvento di Salomone fino all’esilio di Babilonia. Per gli studiosi risulta tuttavia ancora difficoltoso stabilire lo statuto di regalità espresso in tale contesto.

8

Per la tradizione retorica e poetica: Pacat. pan. ad Theod. 12; Stat. Theb. 12,380. La Vetus Latina della lettera di Barnaba 4,4, di nuovo in modo conforme al testo greco, riporta: dicit autem sic propheta: regna in terris decem

regnabunt.

9

VS 5,1: rex Flaccitheus/in ipsis regni; 8,1: Feletheus rex/pro regni sui; 32,1.2: Odouacar rex/”Odouacar”, inquit,

“integer inter tredecim et quattuordecim”, annos uidelicet integri eius regni significans […]; 40,1.3: Rugorum rex Feua cum uxore / Cui ipse (seruus dei) ait […] regnum uestrum auctore domino prosperatum est.

10

Blaise Patristico, s.v. religio, p. 786: una dei significati precipui di religio nel latino cristiano è proprio quello di vita religiosa, monastica o ordine religioso.

11

Secondo l’etimologia di religio derivata da legere, quindi cogliere, raccogliere, ma anche scegliere. Una scelta che peraltro è connessa anche alla pratica politica – cfr. Cic. de leg. 1,7,23 per cui la religio è instrumentum regni e la res

publica è data dal sinecismo tra dèi e uomini, finalizzato al bene reciproco. La religione romana è caratterizzata da

un’esigenza di ortoprassia, quindi da una corretta esecuzione dei riti prescritti; tuttavia non ha dogmi e vige la libertà di credo – cfr. Scheid 2009:29.

12

L’etimologia è quindi in questo caso derivata da religare, nel significato di legare. Il legame è dato dal vincolo di pietà del fedele all’unico Dio. Per la scelta problematica di questa etimologia in Agostino de Ciu. Dei 10,2 cfr. Den Boeft 1979:247-248.

Del resto il termine religiosus, che in età romana è connotato negativamente come eccesso di scrupolo, nel testo di Eugippio designa l’appartenenza a una specifica categoria di individui, i membri di una comunità religiosa; si legge infatti nell’epistola a Pascasio: Nam cum multi

sacerdotes et spiritales uiri nec non et laici nobiles atque religiosi […](Ep. ad Pasch. 8).

Permangono tuttavia forme di religiosità smisurata nel mondo latino tardo antico; nell’antichità tali pratiche sono denotate dalla parola superstitio.

Il termine non è mai utilizzato da Eugippio, ma ritengo importante considerarlo perché nel corso del tempo è risultato funzionale all’interpretazione delle persecuzioni, da un lato cristiane e dall’altro pagane. Si tratta di fenomeni storici causati da sentimenti di natura religiosa, ma determinanti anche per analizzare contrapposizioni storico-politiche tra l’elemento Romano e l’Altro13: un binomio centrale anche nella Vita Seuerini.

Nella Roma imperiale le divinità garantiscono l’imperium romanum, coloro che si occupano di amministrare il culto agiscono per preservare la ciuitas Romana, al rispetto della religio tradizionale corrisponde la qualità di humanitas; la superstitio è ritenuta l’elemento perturbante della situazione descritta, ma ciò che gli antichi Romani ritengono superstitiosus è quindi lo straniero, che non pratica le stesse usanze e che è per questo privo di humanitas14.

La parola superstitio è stata interpretata diversamente in numerose circostanze; essa avrebbe implicato una forma di divinazione esterna alle usanze della tradizionale religione romana: pratiche magiche ed eccessi nella ritualità, in contesto sia pagano sia cristiano15.

Il significato originario del termine rimane incerto, le prime definizioni etimologiche alludono forse a uno stato di esaltazione religiosa16, ma un’interpretazione letterale di superstitio nel senso di

super-stare veicola anche un’idea di superiorità sull’altro17. Tuttavia quest’ultima etimologia non è

accettata da tutti, superstitio potrebbe derivare da superstes, nel senso di testimone; di nuovo con allusione a pratiche divinatorie associate alla capacità di testimoniare di eventi del passato e del futuro18.

In relazione a quest’ultima interpretazione della parola subentra un eccessivo timore del divino, che annovera tra le più evidenti conseguenze la prima persecuzione contro i cristiani nel primo secolo d.C. La risposta non si fa attendere, la letteratura cristiana di III-V secolo definisce il paganesimo come superstitio romana o superstitio gentilium19.

Dopo l’atto di tolleranza del cristianesimo espresso da Costantino, l’Impero gradualmente sancisce una serie di provvedimenti contro divinazione e paganesimo, forme religiose che sono tutte incluse nel concetto di superstitio, come documentato nelle disposizioni legislative degli inizi del IV secolo20.

Tuttavia l’applicazione di tali norme non avviene in ogni occasione e in modo sistematico in ogni area dell’Impero, infatti, come testimonia la Vita Seuerini, permangono ancora nel V secolo nel territorio isolato di Cucullae, pars plebis in quodam loco nefandis sacrificiis inhaerebat (VS 11,2). Sembra lecito chiedersi a quale etimologia di sacrificium alludesse Eugippio in questa circostanza, tanto più che soltanto un paio di capitoli dopo scrive invece di sacrificium uespertini temporis (13,2). Nel primo caso sono abominevoli sacrifici, nel secondo si tratta della liturgia della sera.

13

A titolo di esempio riporto per esteso i titoli di due contributi apparsi nella rivista Vigiliae Christianae: “Superstitio”

and the persecutions of the Christians (33/1979) e “Superstitio” in the “Codex Theodosianus” and the Persecution of Pagans (41/1987).

14

Cfr. Janssen 1979:152.

15

Benveniste 1976/II:496. Nelle fonti: Cic. de nat. deor. 1,42,117;2,60,125; Liv. 7,2,3; Sen. epp. 123,16,121.

16

Cfr. Otto 1909:533-554.

17

Cfr. Wagenvoort 1980:236-237.

18

Benveniste 1976/II:494-495. Il riferimento a pratiche divinatorie, originarie di territori esterni al contesto italico, è supportato anche dalle fonti letterarie latine dei primi secoli (Plaut. Curc. 397, Rud. 1139).

19

Lact. 4,28,11; Tert. adu. Marc. 1,9,2; Ambr. ep. 17,16; August. de Ciu. Dei 16,12

20

Sacrificium è termine che deriva dall’antica radice indoeuropea *sakro-dhō-ts21 ed è dunque riferibile all’ambito semantico della sacralità; si riscontra parentela linguistica anche con le forme latine sacrificus e soprattutto sacrilegus; in un senso si intende colui che compie atti sacri, nell’altro il ladro, il profanatore di oggetti sacri.

Risulta evidente che Eugippio, di fronte a riti che non include fra quelli ammessi dalla religione tradizionale, richiama l’accezione negativa del termine; infatti subito dopo aver scritto nefandis

sacrificiis introduce il nuovo paragrafo con l’espressione: Quo sacrilegio comperto […].

Quando si riferisce invece alla celebrazione liturgica l’agiografo della Vita Seuerini con l’uso di

sacrificium elabora la nozione religiosa di res diuina, secondo un procedimento familiare già a

Agostino22. Ritorna la dimensione comunitaria già evocata per l’uso di religio; il vero sacrificio per Eugippio, in coerenza con il pensiero agostiniano, è ciò che facciamo per essere uniti a Dio in una

sancta societas23.

Il sacrificium, nel suo senso rituale, per gli autori cristiani di V secolo è autentico quando è rivolto a Dio e proprio in virtù di questa disposizione l’espressione res diuina è utilizzata come sinonimo di

sacrificium.

Si tratta peraltro di terminologia nota e frequente già nel paganesimo, ma la letteratura cristiana e il linguaggio ecclesiastico adottano tali parole come tecnicismi, che denotano una componente specifica della liturgia24; Eugippio precisa infatti il momento di esecuzione del rito: sacrificium

uespertini temporis.

Sopra ho richiamato l’idea di societas nell’autore della Vita Seuerini e ritengo importante dedicare un po’ di attenzione anche all’uso di questo concetto nella sua opera agiografica. Eugippio scrive di una beniuola societas tra Romani e Rugi (VS 31,6), ma pure di una sancta e pacata societas (40,6; 42,3) tra i cristiani della comunità istituita da Severino.

La prima formula utilizzata dall’agiografo sembra ricollegarsi alla tradizione storico-giuridica; fin dall’antichità i rapporti tra Roma e i popoli italici erano modellati sulla societas, intesa come alleanza militare stabilita fra due o più gruppi. Un esame della documentazione letteraria a partire dal III secolo a.C. in poi permette di verificare un’interscambiabilità di uso tra il termine socius e

amicus, sempre per qualificare una collaborazione militare idonea alla sottomissione di una

popolazione straniera25. Sul piano giuridico l’associazione delle parole societas e amicitia fa presumere una situazione paritaria tra le parti, con l’aggiunta del fattore di vicendevole supporto militare espresso nella nozione di societas26.

Tuttavia nella letteratura cristiana alcuni termini di uso antico mutano il loro significato e ottengono una connotazione profondamente diversa, il processo è evidente soprattutto nella sfera dei concetti politici e del resto è difficile ipotizzare altrimenti, considerando le notevoli trasformazioni storiche intercorse tra periodo repubblicano e tarda antichità27.

Nella beniuola societas di cui scrive Eugippio l’elemento militare è quasi scomparso: i Rugi sono guerrieri, ma di fronte si trovano civili Romani, non soldati; la societas è presentata dall’agiografo

21

TLL V/1, s.v. diuinus, coll. 1619-23; Ernout, Meillet, s.v. sacer, pp. 585 s.

22

August. de Ciu. Dei 10,6: De uero perfectoque sacrificio – per un commento al brano cfr. Den Boeft 1979:249-250.

23

Id. de Ciu. Dei 10,6 (PL XLI, col. 283): Proinde uerum sacrificium est omne opus, quod agitur, ut sancta societate

inhaeraemus Deo […]

24

Secondo il canone liturgico romano i sacrificia corrisponderebbero alle offerte che sono presentate nella liturgia della messa dopo la consacrazione – cfr. Ellebracht 1963:77-80. Per uno studio dettagliato dell’adozione di parole come

sacrificium, res diuina, in quanto terminologia tecnica della letteratura cristiana e del linguaggio ecclesiastico cfr.

Mohrmann 1961:20/102; Bartelink 1965:194-197.

25

TLL I, s.v. amicitia, coll. 1891-8; Ernout, Meillet, s.v. socius, p. 631.

26

Cfr. De Martino 1973:33. Livio (34,57,8) analizza i foedera tra Romani e non Romani e attesta la prassi dei trattati vigenti: una stretta correlazione tra amicitia e societas, in cui la seconda è strumentale alla prima.

27

Il rapporto tra Impero romano e cristianesimo non si esprime in termini di contrasto politico, ma piuttosto religioso; per questo i concetti politici pagani sono adottati senza ostacoli dal linguaggio cristiano, ma per indicare situazioni assai diverse.

come il possibile esito di un processo di acculturazione28, nell’uso di societas si avverte ancora l’anelito a una parificazione, ma non è inoltre irrilevante l’aggiunta dell’aggettivo beniuola, di nuovo appartenente al campo semantico di amicitia. Gli stessi termini non descrivono più la pattuizione di un foedus, ma evocano il rispetto di una tradizione culturale.

Eugippio ritorna infine su un piano puramente monastico scrivendo di sancta societas, egli stesso infatti poco prima la definisce come congregatio fratrum. Si tratta di un insieme di discepoli che rimangono uniti in memoria dell’uomo santo che li ha guidati.

Ciò che mantiene saldo il vincolo comunitario, quindi che si trova alla base della costituzione della

sancta societas, è l’esempio di caritas dimostrato da Severino. Il modello per Eugippio è di nuovo

Agostino, secondo cui soltanto le qualità di caritas e beneuolentia sono fondanti per instaurare un rapporto di amicizia29, che è necessario allo sviluppo di una uita communis.

Il concetto di sancta societas del vescovo di Ippona, condiviso da Eugippio, si esplica nella volontà di proporre il monastero come emblema di una “società beatificata”; nel desiderio di riprodurre la vita della prima comunità di cristiani in Gerusalemme30.

Non è infatti casuale la citazione biblica che l’agiografo della Vita Seuerini inserisce in questo punto della narrazione: indiuisa fratrum, quos adquisierat, congregatio proficiscens optentu

memoriae eius in uno societatis sanctae uinculo permaneret (VS 40,6); la relativa che ho

evidenziato è ripresa dagli Atti degli Apostoli: Attendite uobis et uniuerso gregi, in quo uos Spiritus

sanctus posuit episcopos regere ecclesiam dei, quam adquisiuit sanguine suo31.

Un altro termine che Eugippio impiega sia nel senso proprio sociologico sia come tecnicismo agiografico è seruus; l’etimologia del termine rimanda come primo significato alla condizione di assenza di libertà, che caratterizza la classe sociale degli schiavi32. Tuttavia l’origine esatta e l’evoluzione della nozione di schiavitù è ancora indeterminabile.

Nella Vita Seuerini le parole seruus dei e seruus appaiono intenzionalmente accostate; si legge in un discorso della regina dei Rugi, Giso, a Severino: tibi, serue dei, in tua cellula delitescens: liceat

nobis de seruis nostris ordinare quod uolumus (VS 8,2).

L’agiografo inserisce una variazione semantica forse per evidenziare l’opposizione tra una condizione di religiosità e una di assenza della stessa; giacché nel primo caso usufruisce di un epiteto di santità investito di una valenza positiva, nell’altro allude a una situazione sociale degradante, provocata da individui non tolleranti sul piano religioso. Sembra riproporsi il binomio

humanitas – immanitas incontrato nell’analisi dei termini religio e superstitio.

Eugippio chiarisce ancora meglio il suo pensiero qualche paragrafo dopo, avvalendosi del contrasto tra seruus e liber, e ancora una volta enfatizzando attraverso l’uso ripetuto di varianti morfologiche dei due concetti: omnipotentia saluatoris, ut, dum liberos saeua mulier subicit seruituti, seruientes

cogeretur reddere libertati (VS 8,5).

In un’altra occorrenza nel testo è riferito un episodio che vede protagonista uno schiavo di Stilicone (VS 36,2), secondo la citazione indiretta di un’altra opera agiografica, la Vita Ambrosii di Paolino33. In questo caso Eugippio richiama una figura precisa: un seruus che è invasato dal demonio e viene affidato al vescovo dal suo padrone per essere curato34.

Ancora l’immagine dello schiavo è connotata negativamente, ma il seruus riesce a ottenere la salvezza grazie all’intervento di Stilicone, che è una figura esemplare per il messaggio che l’agiografo vuole trasmettere, poiché è di origine barbara, ma pienamente integrato nella società romana, al punto di divenire tutore del giovane imperatore Onorio.

28

L’uomo perde la sua stessa umanità se non è inserito nella societas hominum et communitas di ciceroniana memoria (Cic. de off. 3,21-31). 29 Cfr. Pizzolato 1974:208. 30 Cfr. Leyser 2000:3-32.