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Rassegna della giurisprudenza in materia

Nel documento Enti non commerciali (pagine 30-33)

Adesso dato i molteplici contrasti che si sono avuti tra la dottrina, che individua nell’economicità il limite della commercialità, e la amministrazione finanziaria, che considera commerciale qualsiasi attività riconducibile a quelle elencate dall’art 2195 c.c., per formulare un ipotesi di soluzione per la questione, non ci si può esimere da una breve rassegna della giurisprudenza in materia. La prima delle sentenze in esame, Comm. Trib. Centr., Sez. XXI, 21 novembre 1985, n. 695, si cura di stabilire se un ente ospedaliero

rientri o meno nella categoria degli enti pubblici non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale. Tale pronuncia stabilisce che “al fine della qualificazione di un’attività imprenditoriale come commerciale anche se non è richiesto l’intento soggettivo di lucro dell’imprenditore, è pur sempre necessaria l’oggettiva, generica ed astratta organizzazione dell’impresa finalizzata al conseguimento del profitto” e rileva che “questo requisito della economicità dell’attività istituzionale, imprescindibile perché possa parlarsi di attività commerciale, manca certamente negli ospedali”. Sempre sullo stesso tema sono seguite le sentenze Comm. Trib. Centr., Sez. XXIII, 24 settembre 1987, n. 6351, e Comm. Trib. Centr., Sez. XI 27 gennaio 1990 n. 600 la quale sancisce che “per poter qualificare commerciale un’attività imprenditoriale è sempre necessario che l’oggettiva, sia pure generica ed astratta organizzazione dell’impresa, sia finalizzata al conseguimento del profitto” e, nell’escludere la natura commerciale degli enti ospedalieri, che “essi svolgono, pertanto, la loro attività istituzionale secondo modelli gestionali da cui esula ogni esigenza ed ogni criterio di economicità, intesa quest’ultima al perseguimento di un reddito, o, comunque, a realizzare la copertura dei costi”. Il tema della natura degli enti ospedalieri è stata affrontata anche dalla Corte di Cassazione in due pronunce, Cass., Sez. I civ, 30 gennaio 1992, n. 964 e Cass., Sez. I civ., 15 dicembre 1992, n. 13249, relative allo stesso caso, in cui la Corte, nel sancire la natura commerciale dell’ente in questione, si è basata sulla idoneità a produrre utili dell’attività prevalente dello stesso stabilendo che “rientra tra gli enti aventi per oggetto l’esercizio di attività commerciali un ente ospedaliero il quale, dotato di una complessa ed articolata organizzazione, oltre a provvedere gratuitamente all’assistenza sanitaria degli infermi non abbienti, eserciti prevalentemente attività imprenditoriale inerente alla degenza, realizzando dei proventi attività ” e rilevando nel merito che “la sua di gran lunga prevalente era esercitata professionalmente in forma di impresa, come risultava dai cospicui proventi realizzati dall’ente mediante le rette di degenza e le altre prestazioni messe a disposizione dei non abbienti”.

Nello stesso senso, la sentenza Comm. trib. centr., Sez. VI, 1° giugno 1991 n. 4281, ha sancito la commercialità dell’Ente provinciale per la liberazione della Marca Trevigiana, sulla base del fatto che “la produzione dei beni e dei servizi avviene da parte dell’Ente, pur sempre, con l’utilizzo migliore dei fattori della produzione, secondo criteri idonei ad assicurare la economicità della gestione”. Tale sentenza è stata peraltro confermata dalla Cass., Sez. I civ, 8 marzo 1995, n. 2705 che, pur non soffermandosi particolarmente sul tema dell’economicità, ha rilevato nelle premesse che “l’Ente provinciale per la

liberazione della Marca Trevigiana era chiamata a svolgere (ed aveva in concreto svolto) attività commerciale, quale è quella che produce beni e servizi o provvede alla vendita o alla locazione o concede garanzie e crediti, mentre l’occasione storico - politica che aveva determinato la costituzione dell’ente non elideva le obiettive connotazioni dell’attività esercitata, dal momento che la produzione dei beni e servizi avveniva con l’utilizzo migliore dei fattori di produzione, secondo criteri idonei ad assicurare la economicità della gestione”. La sentenza Comm. trib. centr., Sez. IV, 22 gennaio 1992, n. 415, giudicando sulla natura di un consorzio di bonifica, ha affermato che “un ente pubblico, ancorché «economico», non può essere qualificato ente commerciale, ai fini fiscali, allorché non svolge in via esclusiva o almeno principale attività volte al conseguimento di utili economici nel campo della produzione o dello scambio di beni e/o di servizi”. La decisione Comm. trib. centr., Sez. VII, 13 luglio 1992, n. 4568, ha stabilito la natura non commerciale della Congregazione delle Suore di Cristo Re per l’esercizio di una scuola elementare parificata sulla base del fatto che le prestazioni fornite dalla congregazione avevano carattere gratuito e che l’Amministrazione finanziaria non aveva dato prova dello svolgimento di attività imprenditoriale. E da ultimo la Sentenza Comm. Trib. Regionale Puglia, Sez. IX, 12 aprile 2006, n. 117, ha affermato che “la "commercialità" nel diritto tributario si caratterizza in modo oggettivo e non soggettivo, essendo sufficiente che l’attività venga organizzata ed esercitata in modo da produrre utili (c.d. lucro oggettivo) e non necessariamente anche la loro ripartizione tra i soci”. Cercando di trarre dei tratti comuni tra le numerose ed eterogenee pronunce sopra riportate, sembra emergere una tendenza della giurisprudenza a considerare implicito nel concetto di commercialità un requisito ulteriore: la modalità di gestione, così da escludere dall’area della commercialità quelle attività che non sono svolte sulla base di un metodo economico. Tuttavia non appare chiaro, se il limite della commercialità debba essere individuato nel semplice pareggio di bilancio e reintegrazione dei fattori di produzione, o, piuttosto, nella idoneità a generare un profitto e, dunque, solo nell’attività oggettivamente lucrativa, ferma restando l’irrilevanza del fine di lucro soggettivo. Indipendentemente da tale ambiguità presente nelle pronunce esaminate, in ogni caso, sembra possibile affermare la natura non commerciale di un ente che svolga la sua attività principale in base a modalità di gestione inidonee a garantire il pareggio di bilancio e, dunque, sembra potersi escludere che la mera riconducibilità di un’attività ad una delle fattispecie previste dall’art. 2195 c.c. sia sufficiente per stabilire la natura commerciale della stessa, dovendosi, comunque, valutare l’idoneità dell’attività a garantire, quantomeno, la

copertura dei costi ad essa connessi. Non si può non rilevare, tuttavia, che le sentenze citate sono tra loro troppo eterogenee per poter costituire un filone interpretativo stabile, ma esprimono piuttosto una tendenza che deve ancora consolidarsi.

Nel documento Enti non commerciali (pagine 30-33)