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2. IL RAPPORTO TRA PICCOLE E MEDIE IMPRESE, IMPATTO AMBIENTALE E COST MANAGEMENT

2.1 La responsabilità delle piccole e medie imprese in ordine al degrado ambientale

Secondo uno studio condotto nel Regno Unito nei primi anni 2000, il 70% dell’inquinamento causato dalle attività produttive è imputabile alle aziende appartenenti alla categoria delle pmi49. Quanto appena affermato, pur derivando da una stima condotta

all’estero, può essere fatto valere anche nel nostro Paese poiché, data la prevalenza nell’ambito del tessuto imprenditoriale italiano, così come in numerosi altri Stati europei ed extraeuropei, di aziende di ridotte dimensioni, queste ultime possono essere nel loro complesso responsabilizzate in ordine a buona parte del degrado ambientale.

Nonostante la significatività del loro impatto sull’ecosistema, le pmi ne sono spesso inconsapevoli in quanto il contributo di ogni singola piccola realtà produttiva all’inquinamento complessivo è solamente marginale. Attingendo al linguaggio microeconomico infatti, comportandosi ciascuna piccola azienda da agente razionale50,

essa sarà indotta a non considerare con la giusta cognizione le ripercussioni delle proprie azioni sulla collettività e quindi, nel caso specifico, sull’ambiente, soprattutto se la stessa si pone in un’ottica di confronto rispetto ai livelli di inquinamento causati dalle aziende di maggiori dimensioni. Conseguentemente, tale atteggiamento si colloca alla base del “free riding” che in questo caso è il fenomeno per cui pur essendo, almeno in linea teorica, tutte le aziende interessate al tema della tutela e della sostenibilità ambientale, ve ne saranno inevitabilmente alcune che cercheranno di minimizzare in via opportunistica i loro sforzi a spese di quelle che, invece, adottano comportamenti più responsabili sostenendone oneri e costi, proprio perché convinte della scarsa significatività, della marginalità appunto, delle ripercussioni che le proprie azioni esercitano sull’ambiente naturale. Si ritiene che tale scarsa consapevolezza in ordine all’impatto ecologico delle

49

Cfr.Cȏté R. et al. (2006), p.543.

50

Si definisce razionale un agente economico le cui azioni sono finalizzate ad accrescere quanto più possibile il proprio grado di soddisfazione. Tecnicamente, ciò sta a significare che detto agente massimizza una sua funzione obiettivo, vincolatamente alla scarsità delle risorse di cui dispone – cit. Augello M.M. et

attività aziendali, causa della frequente mancata adozione di un atteggiamento più attento a rispondere alle problematiche ambientali, sia maggiormente rintracciabile nell’ambito delle aziende di minori dimensioni, impegnate in via prioritaria nella loro stessa sopravvivenza a causa delle pressioni competitive che ricevono nonché della limitatezza delle risorse finanziarie, umane e tecnologiche di cui dispongono.

Alcuni Autori51, che avvalendosi anche di indagini empiriche hanno proposto una

classificazione delle strategie e, più in generale, degli atteggiamenti delle aziende italiane verso l’ambiente, affermano infatti che la maggior parte delle pmi si limita ad adottare soluzioni di adeguamento a norme obbligatorie e, al più, misure end of pipe, ossia accorgimenti volti all’abbattimento delle emissioni inquinanti per l’ambiente che prevedono unicamente un intervento a valle del processo produttivo (ad esempio sistemi di filtraggio, pannelli fonoassorbenti, ecc.) e non una riprogettazione del prodotto o del processo stesso, affrontando un impegno minore dal punto di vista finanziario poiché tale strategia, detta comunemente “adattativa” non richiede ingenti investimenti di risorse, soprattutto in Ricerca e Sviluppo.

Non essendo tuttavia corretto procedere a rigide generalizzazioni, pare opportuno illustrare brevemente anche le altre possibili strategie ambientali, come classificate da Mio (2004) e Pizzurno (2011):

la strategia “passiva” è propria delle imprese che percepiscono il rispetto della normativa ambientale come una minaccia alla propria competitività e che, pertanto, vi si adeguano il più tardi possibile tentando di minimizzarne i costi associati e auspicando che le istituzioni non procedano con l’applicazione di ulteriori disposizioni ancora più stringenti;

si parla invece di strategia “attiva” quando l’azienda è ben predisposta all’osservanza di tutte le norme in materia di tutela ambientale e a procedere con la progettazione di prodotti e processi produttivi a ridotto impatto sull’ecosistema, avendo quale obiettivo la minimizzazione del rischio di procurare incidenti ambientali da cui scaturirebbe il sostenimento di costi di riparazione del danno arrecato (es.: costi di bonifica, sanzioni pecuniarie, risarcimenti, ecc.);

infine la strategia “proattiva” è propria di quelle aziende che, considerando la variabile ambientale non come una minaccia bensì come un’opportunità di sviluppo e differenziazione, identificano nella stessa una fonte di vantaggio

competitivo di medio – lungo termine su cui far leva. Pertanto, le imprese proattive verso l’ambiente introducono tecnologie pulite atte a contenere a monte l’impatto dei processi aziendali sull’ecosistema e sviluppano prodotti dalle prestazioni ambientali elevate, non limitandosi al rispetto delle prescrizioni normative ma operando secondo un approccio anticipativo beyond compliance e riconoscendo la progettazione come la fase del ciclo di vita del prodotto nella quale viene impegnata la maggior parte dei costi.

Da una ricerca empirica condotta su un campione di pmi italiane da Testa et al. (2015) emerge che i fattori che inducono le aziende minori ad adottare una strategia proattiva sono riconducibili non solo alle pressioni esterne esercitate dalle diverse categorie di stakeholders con cui esse si relazionano ma sono rintracciabili anche (e soprattutto) all’interno dell’organizzazione stessa secondo una prospettiva resource-based dal momento che talvolta, anche se sottoposte alle medesime pressioni esterne, aziende diverse adottano atteggiamenti diversi nei confronti delle problematiche ambientali. In particolare, dallo studio risulta che il maggior determinante dell’approccio proattivo è l’attitudine personale dell’imprenditore a realizzare investimenti ambientali mirati52. Se per le aziende

che perseguono la strategia passiva i costi ambientali devono essere per quanto possibile minimizzati se non addirittura evitati, chi all’opposto assume un atteggiamento proattivo considera infatti i costi ambientali di prevenzione come investimenti dai quali è atteso il ritorno nel medio – lungo termine di benefici economici, etici e sociali53. Tali investimenti ambientali, che possono essere

definiti come “realized decisions to deploy resources and committment to

environmental management”54, essendo espressione concreta dell’attenzione

aziendale nei confronti dell’ecosistema, rappresentano la “pietra d’angolo” per l’implementazione della strategia proattiva e, in ultima analisi, per migliorare la performance ambientale55.

Intuitivamente, la strategia adattativa sopra descritta quale atteggiamento verso l’ambiente che sovente si riscontra nell’ambito delle pmi trova collocazione tra la strategia passiva e la strategia attiva.

52Cfr. Testa F. et al. (2015), p.11. 53

Cfr. Mio C. (2004), p. 291.

54

Cit. Rhee S.K., Lee S.Y. (2003).

Dallo studio (già citato in apertura di paragrafo) condotto su un campione di pmi britanniche emergono ulteriori elementi utili ai fini della comprensione della loro scarsa consapevolezza in merito al proprio grado di responsabilità circa gli attuali livelli di inquinamento; in particolare risulta che le pmi56:

sono state spesso ampiamente ignorate da parte delle istituzioni governative, cosa che ha contribuito alla diffusione dell’erroneo convincimento per cui il degrado ambientale debba essere immediatamente associato alle grandi aziende operanti nei settori maggiormente sensibili, quali: petrolifero, elettrico, siderurgico, chimico, ecc.;

frequentemente non conoscono la propria posizione rispetto alle prescrizioni normative poiché ignoranti di queste ultime;

appaiono sovente scettiche di fronte ai benefici che possono derivare dal miglioramento della propria performance ambientale attraverso l’adozione di strumenti manageriali ad hoc;

sono difficili, pertanto, da raggiungere e mobilitare verso l’intraprendenza di iniziative volte a ridurre l’impatto che le proprie attività operative esercitano sull’ambiente naturale circostante.

Le ragioni alla base di tutto ciò sono riconducibili alle caratteristiche proprie e dell’ambiente competitivo in cui operano e che verranno meglio approfondite nel capitolo successivo; basti qui nominare la carenza di risorse, la mancanza di informazioni pertinenti la variabile ambientale, la ridotta esperienza manageriale, l’orientamento all’orizzonte economico di breve periodo e così via.

Quanto detto trova conferma anche nei dati relativi all’anno 2015 contenuti nel rapporto SBA (Small Business Act) che la Commissione Europea pubblica annualmente per condurre una valutazione circa l’efficacia delle politiche nazionali in materia di pmi attraverso l’impiego di un set di indicatori relativi a nove distinti ambiti (tra cui imprenditorialità, internazionalizzazione, accesso ai finanziamenti, ambiente, competenze e innovazione, ecc.) dai quali risulta che la posizione delle pmi italiane nella sezione “ambiente” si assesta al di sotto della media europea, soprattutto per quel che riguarda la possibilità di beneficiare di misure di sostegno pubblico per l’effettuazione di migliorie ambientali e la realizzazione di prodotti e servizi “verdi”. Le politiche nazionali

56Cfr. Cȏté R. et al. (2006), pp. 543-544.

P R O G R E S S I C O M PI U T I N E L T E M PO MEDIA UE MEDIA UE

volte a conseguire per il 202057 gli obiettivi di promozione delle energie rinnovabili e di

maggiore efficienza energetica infatti sono prevalentemente indirizzate alle grandi imprese, tant’è che la Commissione Europea non esita ad accusare il nostro Governo di non aver ancora riconosciuto il potenziale contributo che le pmi possono offrire in tal senso58.

D’altro canto risulta perfettamente allineata alla media europea la percentuale di pmi che ha adottato misure per un uso efficiente delle risorse; ciò rappresenta una delle direttrici su cui si fonda il Green Action Plan for SMEs, varato nel 2014 allo scopo di supportare le pmi nel trasformare le sfide ambientali in opportunità di business59.

Per di più, leggermente al di sopra della media degli altri Stati membri dell’Unione Europea è la percentuale di pmi che realizza una quota superiore al 50% del fatturato attraverso la vendita di prodotti ecologici, dimostrando di aver recepito come l’eco- compatibilità rappresenti uno degli attributi che il consumatore ricerca con sempre maggiore frequenza nell’acquistare beni60.

La seguente matrice mostra sinteticamente la posizione delle pmi italiane, rispetto alla media UE, in materia di ambiente:

Figura 1: posizionamento delle pmi italiane nel contesto europeo in materia ambientale

PRESTAZIONI

Fonte: adattamento da Commissione Europea (2015), p.5.

57

“Europa 2020” è la strategia decennale volta creare le condizioni per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva attraverso il perseguimento di obiettivi inerenti l’occupazione, la ricerca, il clima e l’energia, l’istruzione, l’integrazione sociale e la riduzione della povertà [Fonte: www.ec.europa.eu].

58Cfr. Commissione Europea (2015), p.14. 59 Cfr. Commissione Europea (2014), pp.1-11. 60 Cfr. Commissione Europea (2015), p.14.

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+ +

Poiché, come recita un noto proverbio, “a goccia a goccia si fa il mare”, il quadro macroeconomico così descritto rappresenta la risultante ottenuta considerando nella loro totalità gli effetti che le attività condotte dalle pmi esercitano sull’ambiente poiché, ancora una volta, “whilst the individual environmental impacts of each SME are generally small in comparison to those of large companies, the cumulative environmental impact of the sector is considerable61”.

Ma se è vero che ciascuna singola piccola impresa contribuisce ad alimentare il problema del degrado ambientale, è altrettanto vero che se ognuna di esse adottasse nel proprio piccolo un atteggiamento più responsabile, una strategia ambientale attiva o proattiva, indirizzando le proprie scelte anche sulla base delle informazioni ambientali che gli strumenti di EMA sono in grado di offrire, si ridurrebbe la portata dell’inquinamento complessivo, senza contare il fatto che le singole organizzazioni (come verrà meglio approfondito nel paragrafo successivo) ne trarrebbero al contempo vantaggi economici e benefici dal punto di vista competitivo. Secondo Porter e Kramer (2006), sostenitori dell’importanza dell’identificazione delle aree di intervento nelle quali le aziende risultano più preparate allo scopo di concentrare solo su queste le limitate risorse e conseguire in tal modo maggiori risultati62, è infatti proprio nel rispetto dei valori etici,

delle persone e dell’ecosistema che le aziende dovrebbero ricercare il successo. Il rischio che deriva dal perseguimento di tale obiettivo nonostante la generale scarsità di risorse nelle pmi tuttavia è, come sottolineato da Testa et al. (2015), quello di un’adozione simbolica delle pratiche di Environmental Management, ossia finalizzata alla legittimazione sociale delle proprie attività (v. infra par. 4.1) piuttosto che all’effettiva tutela del patrimonio naturale, determinando incoerenza tra quanto svolto internamente e quanto comunicato agli stakeholders esterni. Si ritiene che tale mancanza di coerenza tra gestione ambientale interna (le cui sotto-dimensioni sono: la pianificazione ambientale, che consiste nel tener conto delle problematiche ambientali nella formulazione delle strategie aziendali, le procedure operative, come ad esempio la riprogettazione di prodotto e processo, la scelta dei materiali, il riutilizzo degli scarti, ecc., e la contabilità ambientale, che empiricamente mostra un grado di implementazione più basso rispetto alle altre due sotto-dimensioni63) e disclosure ambientale volontaria, ossia la dichiarazione di

informazioni relative all’impatto ambientale delle attività aziendali nonché alle azioni

61Fonte: www.ec.europa.eu. 62

Cfr. Porter M. et al. (2006), p. 80.

intraprese oltre gli obblighi di legge per ridurlo64, sia maggiormente riscontrabile nelle

pmi. Questa affermazione è supportata dal fatto che grandi imprese e gruppi di imprese che soddisfano determinati requisiti dimensionali rientrano nell’ambito di applicazione del recente decreto legislativo 254/2016 (che disciplina l’obbligo di comunicazione di informazioni di carattere non finanziario, tra cui le informazioni ambientali relative all’utilizzo di risorse idriche e risorse energetiche prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili e alle emissioni di gas serra) e sono pertanto soggetti all’irrogazione di sanzioni amministrative e pecuniarie qualora vengano accertate dichiarazioni non corrispondenti a quanto effettivamente svolto in termini di gestione ambientale interna (oltre che, ovviamente, in caso di inottemperanza all’obbligo). Oltre a ciò, Cinquini et al. (2015) sostengono che “anche se non sempre, esiste una relazione di coerenza tra le dimensioni interna ed esterna della sostenibilità ambientale […] per le grandi aziende, le quali in caso di comportamenti manipolatori corrono il forte rischio di perdere quella legittimazione necessaria al loro funzionamento sia internamente che verso i potenziali interlocutori esterni”, incorrendo quindi in problemi reputazionali sul mercato.

Piccole o grandi che siano, le aziende che scelgono di adottare un atteggiamento simbolicamente proattivo verso l’ambiente naturale, caratterizzato da iniziative occasionali, dovrebbero tenere conto del fatto che esso è destinato a produrre benefici di breve termine e che il motto “it pays to be green” vale solo a fronte di un impegno reale, profondo e costante da parte dei vari membri dell’organizzazione, in primo luogo dell’imprenditore nel caso delle pmi65.