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La diffusione delle pratiche di Internal Environmental Cost Accounting nelle piccole e medie imprese: profili teorici e analisi di un caso aziendale

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

Strategia, Management e Controllo

TESI DI LAUREA IN ANALISI E GESTIONE DEI COSTI

La diffusione delle pratiche di

Internal Environmental Cost Accounting

nelle piccole e medie imprese:

profili teorici e analisi di un caso aziendale

Relatore Candidata

Prof. Riccardo Giannetti Veronica Pilani

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INDICE

La diffusione delle pratiche di Internal Environmental Cost Accounting

nelle piccole e medie imprese:

profili teorici e analisi di un caso aziendale

INTRODUZIONE………p.7

1. LA CONTABILITA’ AMBIENTALE D’IMPRESA………..p.11 1.1 Perché si parla di costi ambientali………..p.11 1.1.1 Motivi di compliance normativa……….…p.12 1.1.2 Motivi strategici………...p.13 1.1.3 Motivi etici e socio-culturali………...p.14 1.2 La contabilità ambientale a livello macro e micro-economico………..p.15 1.3 Environmental Management Accounting: analisi del framework di riferimento…. ...………p.19 1.4 Lo strumento indagato: l’Internal Environmental Cost Accouting...……....…p.26

2. IL RAPPORTO TRA PICCOLE E MEDIE IMPRESE, IMPATTO AMBIENTALE E COST MANAGEMENT………p.35 2.1 La responsabilità delle piccole e medie imprese in ordine al degrado ambientale… ………….………p.35 2.2 La relazione tra performance economica e ambientale………..p.41 2.3 Definizione di “costo ambientale” e possibili criteri di classificazione……….p.47 2.4 Utilità dell’informazione di costo ambientale………....p.54 2.4.1 Interventi di cost reduction………..p.55 2.4.2 Decisioni di product mix……….p.56 2.4.3 Product pricing………...p.57 2.4.4 Supporto alla contabilità generale………...p.58 2.4.5 Incremento di valore per clienti e azionisti……….p.59

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3. I SISTEMI DI COSTING NELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE……….………...p.61 3.1 Le piccole e medie imprese: cosa sono, quante sono, dove operano ………….p.61 3.2 Tratti distintivi delle piccole e medie imprese…..………...p.65 3.3 Come le caratteristiche delle piccole e medie imprese si riflettono sui loro sistemi di costing……….p.71 3.4 La rilevazione dei costi ambientali secondo l’Activity-Based Costing……..…p.75

3.4.1 Descrizione del modello………. p.75 3.4.2 Ragioni della scarsa diffusione presso le piccole e medie imprese……….p.80

4. L’INFORMAZIONE DI COSTO AMBIENTALE NELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE………...……….p.83 4.1 Meccanismi di diffusione dell’ Internal Environmental Cost Accounting nelle

piccole e medie imprese……….p.83 4.1.1 La teoria delle scelte basate sull’efficienza…….………p.85 4.1.2 La teoria istituzionale………..p.88 4.1.3 Aspetti pragmatici ………..………p.92 4.2 Il caso “Palm SpA”……….p.94 4.2.1 Impatti e costi ambientali dell’azienda………p.94

4.2.2 La strategia ambientale perseguita e le iniziative volte alla sua implementazione……….p.97

4.2.3 Considerazioni………...p.100 CONCLUSIONI………...p.103

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INTRODUZIONE

I costi ambientali rappresentano una particolare configurazione di costo associata agli interventi di prevenzione, valutazione e riparazione di offese causate all’ecosistema dalle attività aziendali. Il loro monitoraggio costituisce a tutti gli effetti uno strumento di cost

management, il cui scopo ultimo consiste nel creare maggior valore con minore impiego

di risorse passando attraverso una corretta determinazione (cost accounting) e analisi dei costi (cost analysis).

Per quanto si possa, in prima battuta, associare il problema dell’inquinamento alle aziende di grandi dimensioni operanti nei settori maggiormente coinvolti sotto il profilo ambientale (es.: chimico, energetico, petrolifero, ecc.), il presente elaborato muove dal presupposto per cui, dato che le piccole e medie imprese (d’ora in avanti “pmi”) costituiscono la maggior parte delle aziende italiane (similmente a quanto avviene anche in altri Paesi europei ed extraeuropei), esse possono essere ritenute nel loro complesso responsabili di buona parte del degrado ambientale causato dalle realtà produttive. In altre parole, se l’impatto ambientale della singola piccola impresa non risulta particolarmente rilevante quando confrontato con quello causato da un’azienda di maggiori dimensioni, andando a cumulare gli impatti ambientali della totalità delle pmi si perviene a una diversa e più ampia percezione del grado di responsabilità di queste ultime in ordine all’inquinamento.

Ma così come la singola piccola impresa contribuisce marginalmente ad alimentare il problema del degrado ambientale, allo stesso modo questa può adottare delle iniziative che, per quanto circoscritte, concorrano alla riduzione dell’impatto ambientale complessivo e che apportino allo stesso tempo anche dei vantaggi economici per il soggetto che le intraprende. Questa osservazione trova conferma in quanto sostenuto da Porter e Kramer, secondo cui un’azienda non può essere ritenuta responsabile per tutte le problematiche concernenti la sostenibilità, né dispone delle risorse per affrontarle tutte; tuttavia, può identificare quelle rispetto alle quali è più preparata, in modo da ottenere dalla loro risoluzione benefici dal punto di vista competitivo1.

È vero che le pmi, date le caratteristiche proprie e dell’ambiente competitivo in cui

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operano, sono impegnate nella loro stessa sopravvivenza per cui si potrebbe pensare che la variabile ambientale non rappresenti per loro una priorità ma è altrettanto vero che, secondo la teoria socio-economica dell’eco-efficienza, il miglioramento della performance ambientale comporta un contestuale miglioramento della performance economica.

L’utilità della misurazione dei costi ambientali, tuttavia, si scontra nelle pmi con elementi di ostacolo all’implementazione di sistemi di costing evoluti, primo tra tutti la carenza di risorse finanziarie, umane e tecnologiche.

Quali sono dunque i meccanismi di diffusione della tecnica manageriale di rilevazione e gestione dell’informazione di costo ambientale nell’ambito delle aziende di minori dimensioni?

La trattazione si articola in quattro capitoli, così strutturati:

il primo capitolo è propedeutico al resto del lavoro in quanto mira a chiarire la collocazione e il ruolo dell’Environmental Cost Accounting (ECA) quale strumento facente parte del più ampio framework dell’Environmental

Management Accounting (EMA). Tale esigenza deriva dal fatto che l’espressione

“contabilità ambientale” si presta indistintamente a molteplici utilizzi e interpretazioni per cui si ritiene opportuno inquadrare anzitutto il livello di analisi; il secondo capitolo presenta in maniera più dettagliata il problema dell’impatto ambientale delle pmi e della conseguente necessità di intervento. Poiché, come visto nel capitolo di apertura, lo strumento di EMA su cui la tesi si focalizza è la contabilità ambientale analitica, viene a questo punto chiarito che cosa si intende per “costo ambientale”, come questi costi possono essere classificati e, soprattutto, quale utilità è possibile trarre da tale informazione di costo;

il terzo capitolo indaga le caratteristiche distintive delle pmi e come queste si ripercuotono sulle esigenze informative, sui processi decisionali e sui sistemi di costing propri delle realtà aziendali di minori dimensioni. Tali passaggi conducono a riflettere sulle ragioni della scarsa diffusione dell’Activity-based

Costing (ABC), ampiamente riconosciuto come modello che più efficacemente

consente di rilevare e allocare i costi ambientali agli oggetti di costo, superando i limiti dei sistemi di costing tradizionali;

alla luce delle considerazioni avanzate in precedenza, il quarto ed ultimo capitolo si propone di fornire una risposta all’interrogativo in ordine alle spinte che

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inducono alla misurazione dei costi ambientali nelle pmi. Appurato infatti che rilevare e gestire questi ultimi è utile sia per l’ecosistema che per l’economicità dell’azienda, nel presente lavoro si ipotizza che l’informazione di costo ambientale nell’ambito delle aziende minori tenda attualmente a diffondersi per “isomorfismo”, concetto già oggetto di studi sociologici a partire dagli anni ’60, ma qui accolto secondo l’interpretazione di Di Maggio e Powell (1983) che distinguono tra isomorfismo coercitivo, isomorfismo mimetico e isomorfismo normativo per indicare i tre meccanismi attraverso i quali le organizzazioni tendono a omogeneizzarsi e, quindi, le tecniche manageriali a diffondersi. L’ipotesi avanzata infatti è quella per cui la rilevazione dei costi ambientali presso le pmi possa avvenire in presenza di:

casi di successo che possano essere imitati, anche solo allo scopo di ottenere legittimazione sociale;

persuasioni da parte di quelle figure professionali o istituzionali che vanno comunemente sotto il nome di “management fashion setters”, quali università, business schools, società di consulenza e così via.

Meno significativa è ritenuta la strada della coercizione poiché la rilevazione dei costi ambientali rientra nell’ambito della contabilità analitica, non obbligatoriamente prevista dal Legislatore come avviene invece per la contabilità generale.

In ogni caso, vi sono fattori pragmatici legati alle caratteristiche stesse delle pmi e dei loro sistemi di costing che rallentano il processo di istituzionalizzazione della tecnica manageriale oggetto della trattazione per cui l’avvicinamento da parte di tali aziende all’implementazione di un sistema formalizzato di ECA risulta ancora relativamente contenuto.

Si cercherà di avvalorare la tesi sostenuta rintracciandone elementi nel concreto attraverso la breve presentazione di un caso aziendale relativo all’esperienza di una pmi lombarda.

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1.

LA CONTABILITÁ AMBIENTALE D’IMPRESA

1.1 Perché si parla di costi ambientali

Il degrado ambientale rappresenta una delle problematiche che attualmente destano maggiori preoccupazioni a livello mondiale circa gli scenari che si prospetteranno dinanzi alle future generazioni. Un recente allarme dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha, infatti, definito il 2016 come l’anno più caldo di sempre, dopo che nel 2015 la concentrazione atmosferica di CO2 ha superato le 400 parti per milione.

Ma che cos’è l’ambiente, in che rapporto si lega alle aziende e perché si parla di costi ambientali nell’ambito di queste ultime?

Lo standard ISO 140502 definisce l’ambiente come “l’ecosistema in cui

un’organizzazione opera, includendovi l’aria, l’acqua, le risorse naturali, la flora, la fauna, l’umanità e le loro interrelazioni”. Il termine “inter-relazione” suggerisce che il

rapporto che lega azienda e ambiente è bidirezionale: da un lato l’ambiente condiziona le attività aziendali (per cui, ad esempio, lo svolgimento delle stesse operazioni può avere implicazioni diverse a seconda che vengano condotte in Nord Europa piuttosto che in Brasile) e dall’altro ne è condizionato; questo avviene sostanzialmente perché:

le aziende attingono da esso risorse in gran parte dei casi limitate e rilasciano in esso elementi inquinanti quali, rifiuti solidi e liquidi, emissioni gassose e acustiche;

se in passato l’ambiente era in grado di smaltire autonomamente gli inquinanti, il progresso tecnologico, l’aumento dei bisogni dell’uomo da soddisfare, la crescita dei consumi e, quindi, dei volumi di produzione degli ultimi decenni hanno condotto al superamento della soglia entro la quale l’ecosistema riesce ad auto-provvedere al proprio equilibrio3.

Nel momento in cui tale capacità viene meno ed emerge la necessità di intervenire nell’ottica della prevenzione o del ripristino, le aziende sostengono i cosiddetti “costi ambientali”. In prima battuta si potrebbe associare l’inquinamento ambientale alle grandi imprese operanti nei settori petrolifero, elettrico, siderurgico, chimico, ecc.. A ben

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ISO 14050 Gestione ambientale – Vocabolario.

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guardare però, tutte le aziende operanti nel settore manifatturiero e a prescindere dalle loro dimensioni contribuiscono, con i loro processi logistici e produttivi e i loro prodotti dotati di cicli di vita sempre più brevi (da cui più frequenti sostituzioni di beni) nonché di packaging che si tramutano in rifiuti da smaltire nel momento stesso del consumo, alla contaminazione dell’aria, dell’acqua e del suolo. Dalla responsabilità in ordine al degrado ambientale non si sottraggono neppure le imprese agricole né quelle di servizi.

A seconda del grado di consapevolezza maturato dalle aziende in ordine all’impatto delle proprie attività sull’ambiente e, quindi, dell’atteggiamento da passivo a proattivo delle stesse nei confronti di quest’ultimo, si avranno ripercussioni sull’ammontare e sulla composizione dei costi ambientali cui esse si confrontano per:

motivi di compliance normativa; motivi strategici;

motivi etici e socio-culturali4.

1.1.1 Motivi di compliance normativa

Le sempre più stringenti prescrizioni normative inducono le aziende a condurre le proprie attività nel rispetto dell’ecosistema. Anche laddove si riscontri a livello nazionale una normativa lacunosa o frammentata rispetto alla salvaguardia del patrimonio ambientale, le norme sovranazionali intervengono nell’ottica dell’armonizzazione imponendo o promuovendo il rispetto di limiti, l’adempimento di obblighi e, in generale, la tenuta di comportamenti responsabili e rispettosi dell’ambiente.

Le norme ambientali possono essere suddivise in due categorie: norme cogenti e norme volontarie. Le prime sono emanate dal Legislatore e obbligano i soggetti cui esse si rivolgono alla loro osservanza; le seconde, invece, provenendo da enti di normazione tecnica nazionali (UNI nel nostro Paese), europei (EN) o internazionali (ISO), li incentivano a farlo. Scegliendo di aderire a una normativa non obbligatoria, infatti, l’azienda si impegna ad operare in un certo modo allo scopo di costruirsi una reputazione che le consentirà di ottenere approvazione da parte dei propri interlocutori sociali (v. infra par. 1.1.3).

In Italia le norme cogenti in materia ambientale sono state riunite in un unico corpus rappresentato dal D.Lgs. 152/2006 (e successive modifiche poste in essere per recepire le direttive comunitarie emanate in data posteriore), meglio noto come Testo Unico

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Ambientale. Accanto all’osservanza delle disposizioni contenute in quest’ultimo, molte aziende decidono volontariamente di implementare un sistema di gestione ambientale, ossia un “meccanismo operativo per la gestione degli aspetti ecologici”5, e spesso di

sottoporlo a certificazione, che è il processo attraverso il quale un ente accreditato riconosce e garantisce che un’organizzazione, un processo, un prodotto o un servizio risponda a criteri standard prestabiliti, allo scopo di ottenere una garanzia della costanza dello svolgimento delle attività e, quindi, del risultato. A questo proposito, la principale norma volontaria di riferimento è l’International Standard ISO 14001, che definisce i requisiti di un sistema di gestione ambientale volto al miglioramento continuo della performance ecologica, recepito anche nell’ambito del Regolamento comunitario Emas (Eco-Management and Audit Scheme).

È chiaro che il rispetto dei precetti normativi comporta il sostenimento di costi; questo fa sì che molte aziende, soprattutto se di piccole dimensioni, percepiscano la normativa ambientale come una minaccia alla propria competitività. Vi sono, tuttavia, agevolazioni appositamente pensate per le pmi, come ad esempio la detassazione degli investimenti ambientali stabilita nella L.388/2000 o la concessione di contributi per l’adozione di sistemi di gestione ambientale prevista nel D.d. 313/2012.

1.1.2 Motivi strategici

L’ambiente rappresenta una variabile in grado di condurre l’azienda all’ottenimento del vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti per diverse ragioni:

in primo luogo, l’eco-compatibilità rappresenta uno dei criteri che con sempre maggiore frequenza guidano il consumatore nella scelta dei beni da acquistare. L’offerta di prodotti che soddisfano tale requisito accresce pertanto la disponibilità a pagare degli acquirenti, dando modo all’azienda di applicare un premium-price o, a parità di prezzo, di accrescere i volumi di vendita dato il più alto tasso di soddisfazione della clientela. In altre parole, l’ambiente costituisce un elemento di differenziazione porteriana;

in secondo luogo, il miglioramento dell’efficienza dei processi produttivi in termini di riduzioni degli sprechi e dei consumi di acqua ed energia così come la riduzione dei rischi ambientali che deriva dal rispetto delle norme conducono a

5Cit. Donato F. (2000), p.95.

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risparmi di costo significativi per le aziende che perseguono un vantaggio competitivo sul fronte dei costi.

Si tenga inoltre presente che sebbene le strategie di differenziazione e leadership di costo siano tradizionalmente considerate come alternative in quanto un’azienda che le persegue entrambe potrebbe incorrere in azioni prive di coerenza e rimanere “bloccata a metà del guado”6, è ammessa la possibilità per la stessa di “essere contemporaneamente a basso

costo e differenziata”7 poiché, prosegue Porter (1985), “un leader di costo non può

ignorare le basi della differenziazione” così come “chi persegue la differenziazione non può ignorare la propria posizione relativamente ai costi”8 ma dovrà cercare di

raggiungere, o perlomeno avvicinarsi, al profilo di costo o alla base di differenziazione propri della concorrenza se desidera, nel primo caso, riuscire a vendere e, nel secondo, non vedere vanificati i differenziali di prezzo applicati. Su questo punto risultano concordi anche altri Autori laddove si afferma che: “[…] le imprese, se vogliono sopravvivere all’intensa concorrenza, devono comunque portare al minimo i costi: devono raggiungere quella qualità – quale essa sia in funzione del segmento scelto – al costo minimo”9. Ecco, quindi, che la variabile ambientale si presta in un modo o nell’altro

ad essere una leva strategica e in molti casi il controllo dei costi ambientali rappresenta una competenza distintiva, ossia, come definito da Selznick, “un’attività che

un’organizzazione svolge con maggiore abilità rispetto ai suoi concorrenti”10.

1.1.3 Motivi etici e socio-culturali

La sostenibilità ambientale rappresenta un valore condiviso dalle diverse categorie di stakeholders (interlocutori sociali portatori di interessi) cui l’azienda offre prospettive e compensi in cambio di contributi e consensi11. L’impegno dell’azienda a favore

dell’ambiente, specialmente se legato ad iniziative volontarie che si collocano oltre la compliance normativa, conduce a un miglioramento dei rapporti con essi e, quindi, rafforza la loro fiducia nei confronti della prima.

In particolare, oltre a quelle provenienti dalle istituzioni e dalle organizzazioni non governative (ONG), le aziende sono sottoposte alle pressioni dei seguenti interlocutori

6 Cit. Porter M. (2004), p.24. 7Cit. Porter M. (2004), 150. 8Cit. Porter M. (2004), p.20. 9Cit. Demattè C. (2004), p.5. 10 Selznick P. (1957). 11Cfr. Coda V. (1984), p.7.

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sociali12:

la comunità locale, sensibile al problema dei rifiuti e delle emissioni soprattutto quando le imprese sono situate in prossimità di zone residenziali;

i gruppi “verdi” di opinione e le associazioni ambientaliste, spesso all’origine di dibattiti che, alimentati dai mass media, potrebbero minare l’immagine dell’azienda;

le associazioni di tutela dei consumatori, impegnate nel garantire che le aziende offrano prodotti sicuri e di qualità. Eco-compatibilità, sicurezza e qualità sono infatti concetti strettamente interconnessi. Pertanto, l’ottenimento della certificazione ambientale dei prodotti (ne è un esempio il marchio europeo Ecolabel) consente la promozione sul mercato degli stessi;

i dipendenti e le associazioni sindacali in quanto, poiché lo svolgimento delle attività aziendali all’interno di luoghi di lavoro esposti a rischi ambientali implica anche un certo rischio per la salute dei lavoratori stessi, il livello di performance ambientale influenza più o meno positivamente la loro soddisfazione e motivazione;

la comunità finanziaria, che tende a rivolgersi solo ad aziende certificate nel rispetto dell’ambiente o, comunque, note per le loro elevate prestazioni ambientali.

Nell’ambito delle aziende di minori dimensioni, oltre alle spinte derivanti dalle già citate istituzioni politiche e amministrative e dagli altri interlocutori sociali che animano il sistema locale in cui esse si collocano e di cui condividono la cultura, l’atteggiamento nei confronti dell’ambiente naturale è fortemente condizionato dai valori etici propri della figura imprenditoriale, data la sua centralità (v. infra par. 3.2).

1.2 La contabilità ambientale a livello macro e microeconomico

I costi ambientali di cui si sono appena indagate le ragioni che inducono alla loro presa in considerazione rappresentano l’oggetto della cosiddetta “contabilità ambientale” (environmental accounting). Prima di entrare nel merito del problema che il presente elaborato intende affrontare concentrando l’attenzione sulle pmi, è necessario mettere a

12Cfr. Donato F. (2000), pp.42, 84-85.

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fuoco nel prosieguo dei paragrafi il livello di analisi poiché tale espressione è ampia e indeterminata, prestandosi indistintamente, come già affermato nell’introduzione, a svariati utilizzi e interpretazioni.

Una prima distinzione, la più generale, è quella tra contabilità ambientale nazionale (environmental accounting at the national level) e contabilità ambientale d’impresa (environmental accounting at the company level), a seconda che il tema venga avvicinato nell’ottica macroeconomica o secondo un approccio microeconomico.

La contabilità ambientale nazionale è data dall’insieme delle rilevazioni inerenti “la ricchezza e le variazioni di ricchezza di uno Stato, considerando anche lo stock di risorse naturali disponibili e le variazioni subite nel corso di un esercizio da parte del patrimonio naturale”13. Come ritenuto da alcuni economisti infatti, il PIL necessita di essere

affiancato da indicatori in grado di esprimere, tra le altre cose, il deterioramento di tale patrimonio poiché, di per sé considerato, esso non riflette correttamente il benessere economico di uno Stato. In effetti, anche i danni ambientali contribuiscono all’innalzamento del PIL in quanto comportano l’effettuazione di interventi di ripristino quali: installazione di depuratori, operazioni di bonifica, ecc.; persino le emissioni di CO2 e la generazione di rifiuti, rappresentando la conseguenza delle attività di produzione e scambio di beni, sono coinvolte nell’accrescimento del PIL14.

I beni ambientali sono inoltre sottoposti all’attenzione del regolatore (policy maker) in quanto beni comuni, ossia dotati delle caratteristiche di rivalità e non-escludibilità: non è possibile impedire, ad esempio, il consumo di acqua da parte di un individuo ma questo allo stesso tempo riduce le possibilità di consumo da parte di altri individui. In generale, quindi, i beni ambientali rappresentano risorse collettive da tutelare e garantire secondo sostenibilità e associate sovente al fenomeno delle esternalità (negative) o costi sociali (v. infra par. 1.4).

La contabilità ambientale d’impresa, invece, è data dall’“insieme delle rilevazioni inerenti l’uso delle risorse naturali rientranti nella sfera di influenza dell’azienda”15. Tali

rilevazioni consentono di ottenere informazioni, espresse in termini fisici o monetari, relative agli input rappresentati da risorse naturali, agli output costituiti da elementi inquinanti e, in generale, alle azioni intraprese o pianificate per prevenire, ridurre o rimediare all’impatto sull’ambiente delle attività aziendali, a supporto dei manager

13Cit. Mio C. (2002), p.25. 14

Cfr. Nebbia G. (2011).

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nell’assunzione delle decisioni oppure destinate alla comunicazione esterna. In questo secondo caso esse possono confluire, oltre che nel bilancio d’esercizio che accoglie i riflessi economici, finanziari e patrimoniali delle iniziative ambientali dell’azienda, nel bilancio e nel rapporto ambientale in cui l’azienda descrive le problematiche ambientali che la riguardano, la propria strategia ambientale e le azioni intraprese per la sua implementazione, il proprio impatto sull’ecosistema, nonché aspetti finanziari associati alla tutela di quest’ultimo16. Essi rappresentano documenti volontari specificamente

mirati a rispondere alle pressioni degli interlocutori sociali in merito alla performance ambientale d’impresa, cui si è fatto cenno nel precedente paragrafo.

I sistemi di contabilità tradizionali (contabilità generale e contabilità analitica) vengono integrati con la contabilità ecologica in modo da rilevare gli impatti ambientali dell’azienda dal punto di vista fisico-tecnico e i riflessi economico-finanziari associati al livello di performance ambientale raggiunto.

Nell’ambito della contabilità generale vengono rilevati i costi ambientali d’esercizio, quali: acquisti di materie prime, ammortamenti di attività ambientali (es.: impianti, macchinari e attrezzature aventi una funzione di protezione dell’ambiente come depuratori, pannelli fonoassorbenti, ecc.), accantonamenti a fondi rischi ambientali (per la copertura di possibili danni economici legati a eventi futuri di incerta manifestazione come, ad esempio, fuoriuscite di liquame contaminante o di gas tossici) e quant’altro. Le misurazioni dei costi ambientali condotte nell’ambito della contabilità analitica invece sono riferite ad oggetti di costo aventi un’estensione più limitata rispetto all’azienda nel suo complesso (es.: prodotto, processo, stabilimento, reparto, ecc.); come verrà approfondito nel capitolo successivo, gli impieghi di tali informazioni di costo sono molteplici: dalle decisioni di product mix al pricing, dall’individuazione delle aree di intervento più opportune alla valutazione della convenienza dell’azione di miglioramento che si realizza e così via.

Infine la contabilità ecologica quantifica in termini fisici gli impatti che il consumo di energia e di risorse naturali, la produzione di rifiuti, il rilascio di emissioni e altro ancora esercitano sull’ ambiente naturale circostante, allo scopo di ottimizzare lo sfruttamento di quest’ultimo17.

È possibile comprendere come l’integrazione tra i tre sistemi di contabilità nominati non

16

Cfr. CNDCEC (2009), p.9-10.

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implichi una loro sovrapposizione: dai risultati della contabilità ecologica possono essere definiti obiettivi concernenti la variabile ambientale (es.: riduzione dei consumi energetici, uso più contenuto di materiali inquinanti, ecc.); le informazioni analitiche orientano e supportano le decisioni dei manager; le rilevazioni generali assumono valenza comunicativa18.

La seguente tabella mostra come, cambiando l’ambito di riferimento, risultino diversi il focus, le modalità di rilevazione nonché i destinatari delle informazioni di contabilità ambientale.

Tabella 1: contabilità ambientale a livello macro e microeconomico

AMBITO FOCUS MODALITÀ DESTINATARI

C. a. nazionale Nazione Statistico-contabile Policy makers

C. a. d’impresa Azienda, reparto, prodotto, processo, ecc. Contabile ed extracontabile Stakeholders esterni – Decision makers

Fonte: adattamento da Mio C. (2002), tabella 1.1, p.26.

Il campo di osservazione della contabilità ambientale nazionale coincide con il territorio dello Stato, indagato nella sua dimensione ecologica per mezzo di rilevazioni statistico-contabili, quali ad esempio: il PIL verde cui si è brevemente accennato poc’anzi; la

NAMEA (acronimo che sta per “National Accounts Matrix including Environmental

Accounts”) che permette di relazionare grandezze ambientali espressive dei riflessi delle attività umane sull’ambiente, come emissioni di inquinanti in atmosfera e consumi di risorse naturali, con le grandezze socio-economiche che ne sono all’origine, come produzione, valore aggiunto, consumi delle famiglie e occupazione; i conti patrimoniali

del capitale naturale che illustrano la consistenza dello stock di risorse naturali all’inizio

e alla fine del periodo di riferimento, il calcolo della spesa pubblica per la protezione

dell’ambiente e così via.

I destinatari delle informazioni così ottenute sono i policy makers che si servono di esse per poter definire la politica ambientale del Paese, a sua volta trainata dalle disposizioni

18Cfr. Mio C. (2002), p.31-35.

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stabilite e dalle iniziative intraprese a livello comunitario nel perseguimento dei seguenti obiettivi principali19:

uso efficiente delle risorse;

salvaguardia della biodiversità, intesa come ricchezza della natura in termini di specie e varietà genetiche;

miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua; tutela della salute umana;

lotta alla deforestazione;

contenimento nella produzione di rifiuti;

promozione dell’eco-innovazione, intesa come qualsiasi forma d’innovazione che apporta un contributo significativo verso lo sviluppo sostenibile20.

Nel prosieguo dell’elaborato non si farà riferimento alla dimensione macroeconomica della contabilità ambientale bensì alle sole misurazioni condotte entro i confini aziendali nel convincimento per cui l’atteggiamento assunto dalla singola azienda, a partire da quelle di più piccole dimensioni, avrà ripercussioni a livello macroeconomico. Pertanto, quanto più le singole imprese intraprendono iniziative ambientali supportate da una corretta informativa di costo tanto più si trarranno benefici a livello aggregato in termini di riduzione dell’impatto ambientale complessivo.

1.3 Environmental Management Accounting: analisi del framework di riferimento

La seconda distinzione che a questo punto della trattazione è necessario effettuare si fonda sul criterio della destinazione delle informazioni. Come già brevemente accennato in precedenza, infatti, è possibile rintracciare due filoni entro i confini della contabilità ambientale d’impresa a seconda che le rilevazioni condotte siano destinate ad uso manageriale interno oppure alla comunicazione esterna; nel primo caso si parla di

19Cfr. Commissione Europea (2015), p.10.

20Secondo la sua definizione più ampiamente condivisa, contenuta nel rapporto Brundtland del 1987 del

World Business Council for Sustainable Development, lo sviluppo sostenibile consiste nel “soddisfare i

bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i loro propri bisogni”.

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Environmental Management Accounting (EMA), oggetto di approfondimento nel presente

paragrafo, nel secondo caso di Environmental Financial Accounting (EFA).

L’EFA “focuses on reporting the cost of environmental liabilities and other significant environmental costs, and provides related environmental financial information to external stakeholders”21. Ma le informazioni di base su cui poggia l’EFA derivano dalla previa

rilevazione dei costi ambientali, che costituisce il cuore dell’EMA.

Similmente all’Autore appena citato, anche Jasch sostiene che “the data produced through the EMA serve as a basis for external accounting and reporting”22. Pertanto,

l’EMA ricopre un ruolo decisivo entro l’intero sistema di contabilità ambientale in quanto tra le sue funzioni vi è anche quella di supporto alla contabilità generale.

Talvolta, soprattutto nelle aziende di minori dimensioni, si ravvisa anche il collegamento inverso tra i due sotto-sistemi, ossia l’utilizzo dei risultati delle rilevazioni di contabilità generale non solo ai fini della reportistica esterna ma anche per scopi decisionali interni23.

Tuttavia, un approccio separato alle esigenze gestionali interne e ai fabbisogni informativi degli stakeholders esterni è auspicabile per evitare possibili distorsioni24.

Una rilevante differenza, non ancora puntualmente sottolineata, tra EFA ed EMA sta nel fatto che solo il primo filone è sottoposto al rispetto di stringenti regole, dettate dal Legislatore o derivanti dalla prassi contabile, essendo deputato alla predisposizione di dati monetari che contribuiscono alla determinazione del reddito e della composizione quali-quantitativa del capitale, con ovvie ripercussioni per gli azionisti oltre che fiscali. A mero titolo di esempio, è possibile citare i principi contabili OIC 19 e IAS 37 contenenti le linee guida per la stima dell’accantonamento a fondo rischi ambientali.

Lo scopo del presente paragrafo, tuttavia, non è quello di proseguire con l’approfondimento dell’EFA bensì consiste nell’analizzare il quadro di riferimento dell’EMA nel tentativo di mapparne gli strumenti, seguendo l’impostazione di Burritt, Schaltegger e Hahn (2002)25.

Molteplici definizioni di EMA sono state proposte a partire dagli anni ’90, quando si è iniziato a prestare attenzione alla variabile ambientale nell’ottica manageriale (risale a quegli anni infatti l’approccio EMAN – Environmental Management Accounting

21 Cit. Xiaomei L. (2004), p.49. 22 Cit. Jasch C. (2006), p.1194. 23Cfr. Jasch C. (2006), p.1195. 24Cfr. Burritt R.L. et al. (2002), p.42.

25Burritt. R.L., Hahn T. e Schaltegger S. (2002), Towards a comprehensive framework for Environmental

Management Accounting – Links between business actors and Environmental Management Accounting tools, Australian Accounting Review, vol.12, n.2, pp.39-50.

(21)

Literature).

Volendone richiamare una tra le più significative, viene di seguito riportata la definizione data dalla Divisione per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite secondo cui: “Environmental Management Accounting serves as a mechanism to identify and measure

the full spectrum of environmental costs of current production processes and the economic benefits of pollution prevention or cleaner processes, and to integrate these costs and benefits into day-to-day business decision-making”.

In generale si associa l’EMA all’identificazione, rilevazione, analisi e utilizzo di due tipologie di informazioni:

informazioni fisiche relative ai flussi di energia, acqua e materiali necessari per lo svolgimento dei processi produttivi;

informazioni monetarie inerenti i costi ambientali.

L’EMA rappresenta una sorta di rivisitazione in chiave ambientale del sistema di contabilità direzionale convenzionale (dove per contabilità direzionale si intende un insieme di strumenti di cui i manager dispongono per assumere le decisioni ed esercitare il controllo in azienda), non essendo quest’ultimo in grado di fornire informazioni specificamente riguardanti i riflessi ambientali delle attività aziendali.

A seconda della tipologia di informazioni è possibile rintracciare due distinte componenti dell’EMA:

la PEMA (acronimo di Physical Environmental Management Accounting), tesa a quantificare in termini fisici l’impatto delle attività aziendali sull’ambiente (es.: kg di CO2 emessa o litri di acqua consumati per unità di prodotto);

la MEMA (acronimo di Monetary Environmental Management Accounting), volta a determinare in termini monetari l’impatto che la variabile ambientale esercita sulla situazione economica dell’azienda (es.: tasse per la produzione di rifiuti, multe per l’inosservanza di norme ambientali, spese di bonifica, ecc.).

La lettura congiunta dei due sotto-sistemi appare coerente con la bi-direzionalità del rapporto tra azienda e ambiente naturale, concetto di apertura del presente capitolo. Da quanto affermato finora si evince che i criteri che consentono di classificare gli strumenti della contabilità ambientale d’impresa sono la destinazione interna o esterna e la tipologia fisica o monetaria delle informazioni, come illustrato nella figura seguente:

(22)

Figura 1: Aree della contabilità ambientale d’impresa

Fonte: Burritt R.L. et al. (2002),p.41;adattamento da Bartolomeo M. et al. (2000), p.33.

Un sistema di EMA correttamente progettato e implementato accresce nei manager la consapevolezza per cui la performance economica e la performance ambientale dell’azienda siano strettamente interrelate. Oltre a supportare l’assunzione di decisioni aziendali, ad esempio in termini di valutazione degli investimenti o di programmazione delle iniziative di protezione ambientale, l’EMA concorre infatti al miglioramento dei livelli di eco-efficienza26 (v. infra par. 2.2).

Nell’inquadrare gli strumenti di EMA, gli Autori cui si è scelto di far riferimento in questa sede adottano tre criteri di classificazione:

la cornice temporale, che consente di distinguere tra strumenti che pongono il focus su eventi passati, correnti o futuri;

l’ampiezza dell’orizzonte temporale di riferimento, in base alla quale è possibile rintracciare strumenti in grado di fornire informazioni valide nel breve o nel medio-lungo termine;

il grado di specificità delle informazioni, che permette di individuare strumenti generali oppure mirati;

che, unitamente al criterio della tipologia delle informazioni (fisiche o monetarie),

(23)

conducono a una mappatura degli stessi fondata su quattro dimensioni, riepilogate nella tabella riportata a pagina seguente.

Facendo riferimento, ad esempio, alla prima colonna di tale tabella, è possibile notare come il criterio della cornice temporale consenta di qualificare l’Environmental Cost

Accounting (ECA) come strumento che permette di ottenere informazioni (generali e di

breve periodo) monetarie afferenti gli impatti ambientali passati delle attività aziendali, e il budget monetario ambientale come strumento in grado di fornire informazioni (anche in questo caso generali e di breve periodo) espresse in termini economico-finanziari relative alle iniziative ambientali programmate per il futuro.

Allo stesso modo, a seconda dell’ampiezza dell’orizzonte temporale di riferimento, si avranno strumenti in grado di fornire informazioni orientate al breve o al medio-lungo termine. Ad esempio, prestando attenzione alle informazioni di tipo fisico (parte destra della tabella), è possibile ritracciare entro la colonna “short term focus” il budget fisico

ambientale, relativo ai flussi dei materiali e dell’energia necessari per realizzare la

produzione programmata, e nella colonna “long term focus” l’inventario del ciclo di vita, strumento tipico delle analisi di Life Cycle Assessment (LCA) che permette di cumulare la totalità dei flussi dei materiali e dell’energia in entrata nonché dei rilasci ambientali (emissioni atmosferiche, rifiuti liquidi e/o solidi, ecc.) in uscita che caratterizzano un prodotto durante le varie fasi del suo intero ciclo di vita (dalla progettazione fino al recupero/riciclo e smaltimento finale).

Infine in base al grado di specificità è possibile distinguere tra strumenti in grado di fornire informazioni ad hoc, ossia in grado di supportare una specifica decisione, come l’appena citato inventario del ciclo di vita che può trovare applicazione nell’ambito della valutazione del progetto di un nuovo prodotto, e strumenti che generano informazioni a carattere generale come il material flow acconting, che intende misurare i flussi di materiali, energia e acqua che si traducono in rifiuti o emissioni, e lo stesso ECA, che rileva i costi associati agli effetti che l’operare aziendale esercita sull’ambiente naturale circostante.

La scelta degli strumenti di EMA da adottare varia a seconda degli scopi conoscitivi, a loro volta diversi al variare degli attori aziendali. In questo senso il top management necessita solitamente di informazioni aggregate mentre i livelli operativi di informazioni analitiche; chiaramente questo non è sempre vero nelle aziende di minori dimensioni, dove l’imprenditore ricopre un ruolo multi-funzionale (v. infra par. 3.2).

(24)

Tabella 2: Mappatura degli strumenti di EMA

Fonte: Burritt et al. (2002), p.43.

Da una ricerca empirica condotta nel 2008 in Italia da Marelli e Miolo Vitali27, emerge

che le informazioni derivanti dall’EMA vengono considerate soprattutto nella scelta degli investimenti da realizzare per ragioni di conformità normativa e di riduzione dei rischi ambientali. Nonostante la ricerca si fondi su un campione di aziende numericamente

27

Presentata alla settima conferenza sulla Social and Environmental Accounting Research presso la University of South Australia di Adelaide.

(25)

ristretto e, quindi, non propriamente rappresentativo dell’intera popolazione, risultano crescenti: la consapevolezza da parte dei manager in ordine alla correlazione positiva tra iniziative ambientali e immagine aziendale e l’interesse strategico nutrito verso le problematiche ambientali.

Un secondo aspetto di interesse che emerge da tale ricerca riguarda la conferma della tradizionale resistenza al cambiamento nonché della separazione tra figure manageriali (es.: product managers), aventi generalmente una formazione ingegneristica o comunque di matrice tecnica che li induce a prediligere le informazioni ambientali espresse in termini fisici e, quindi, gli strumenti rientranti nella componente PEMA, e le figure contabili (es.: controllers), che si occupano prevalentemente delle questioni inerenti la creazione di valore e che si avvalgono perlopiù delle informazioni monetarie e, dunque, degli strumenti compresi nell’ambito della componente MEMA.

In definitiva, è possibile affermare che l’EMA consta di un insieme di strumenti di contabilità direzionale che permettono di indagare la variabile ambientale e i suoi riflessi sulla performance economico-finanziaria dell’azienda a supporto delle decisioni e dell’esercizio del controllo. Volendone evidenziare alcuni tra i più significativi, si segnalano:

la contabilità analitica ambientale (ossia l’ECA), che verrà meglio approfondita nel paragrafo successivo;

il budget ambientale, che costituisce il “prospetto di sintesi degli obiettivi ambientali dell’azienda”28 e permette di identificare le risorse necessarie al

conseguimento degli stessi nonché di esercitare il controllo ex ante dei livelli di efficienza ed efficacia. Attraverso tale strumento vengono definiti obiettivi operativi per l’esercizio successivo, espressi in termini fisici e monetari, con riferimento a ricavi, costi, investimenti e impatti ambientali;

gli indicatori di performance ambientale, che rappresentano indicatori leading, ossia causali rispetto agli indicatori economico-finanziari (detti lagging). È possibile classificare tali indicatori in: parametri relativi all’impatto ambientale delle attività aziendali (es.: indici delle emissioni atmosferiche, del volume e della tipologia dei rifiuti prodotti), misure di rischio (es.: frequenza di incidenti ambientali), indici di utilizzo delle risorse naturali (es.: consumi di acqua e di energia per unità di prodotto), parametri in grado di esprimere i livelli di

28Cit. Mio C. (2002), p.179.

(26)

efficienza (es.: margine di contribuzione ambientale), indicatori del grado di soddisfazione degli stakeholders (es.: quota di mercato di prodotti “verdi”) 29;

la valutazione del ciclo di vita (LCA) che, come già precedentemente affermato, consiste nell’inventariare e analizzare l’impatto ambientale complessivo di un determinato prodotto (o processo) in termini di risorse naturali consumate, rifiuti generati, emissioni rilasciate, ecc., secondo un approccio “from cradle to grave” (ossia “dalla culla alla tomba”);

la contabilità dei flussi di materiali che, tenendo conto dei quantitativi di materie e sostanze in entrata e in uscita rispetto ai processi di produzione, consente di quantificare in termini fisici e, conseguentemente, monetari i rifiuti e gli scarti nel perseguimento di maggiori livelli di eco-efficienza.

Per concludere il presente paragrafo e procedere, dunque, con l’approfondimento dello strumento di EMA cui si farà esclusivo riferimento nel resto del lavoro, si può affermare che “doing EMA is simply doing better, more comprehensive Management Accounting, while wearing an environmental hat […]”30.

1.4 Lo strumento indagato: l’Internal Environmental Cost Accounting

L’adozione dell’approccio EMA induce modifiche nella struttura di costo aziendale in quanto comporta il sostenimento di taluni costi ma consente di evitarne altri, riducendone l’ammontare complessivo (v. infra par. 2.4.1 e par. 4.1).

L’Environmental Cost Accounting (ECA), che può essere definito come “segmento

emergente della contabilità analitica che consente di rilevare i costi degli effetti generati dall’organizzazione aziendale sull’ambiente”31, rappresenta la componente dell’EMA

che permette di indagare in che rapporto stanno tali tipologie di costo (costi creati e costi evitati)32.

Come sottolineato da Passetti et al. (2014), la rilevazione dei costi ambientali, parte della più ampia “sustainability accounting”33, rappresenta una forma di contabilità “in a

29Classificazione proposta da Donato F. (2000), p.216-221. 30Cit. Jasch C. (2006), p.1196.

31Cit. Marelli A. in Miolo Vitali P. (2009), p.229. 32

Cfr. Schaltegger S. et al. in Rikhardsson P.M. et al. (2005), p.46.

(27)

relatively early phase of development” e tutt’ora non ampiamente diffusa, specialmente tra le imprese di minori dimensioni. Dallo studio empirico condotto dai medesimi Autori su un campione di aziende italiane emerge infatti che su una scala quantitativa da 1 (mai) a 7 (molto spesso), la frequenza media di adozione dell’ECA si assesta su un punteggio di 2.7234. Sono tuttavia diverse le ragioni (che verranno meglio approfondite nel

prosieguo della trattazione) per cui le aziende dovrebbero integrare i propri sistemi di costing convenzionali con metodi di predisposizione e interpretazione di informazioni monetarie inerenti gli aspetti ambientali che rientrano nella propria sfera di influenza. I sistemi convenzionali di calcolo dei costi infatti sono stati oggetto di numerose critiche relativamente alla loro incapacità di rilevare correttamente e, soprattutto, di allocare i costi ambientali alle specifiche produzioni e/o attività, impedendo ad essi di emergere dalla categoria dei costi generali (overhead costs). In questo modo non risulta possibile risalire alle cause del loro sostenimento e, quindi, individuare per quali costi risulti opportuno intervenire ai fini della loro riduzione, contenendo il rischio di tagli orizzontali. Inoltre, imputando arbitrariamente i costi ambientali agli oggetti di costo (es.: prodotti) senza tenere conto del grado di responsabilità che essi hanno rispetto alla loro generazione (ossia nel mancato rispetto del “criterio funzionale”, anche detto “principio causale”) non risulta possibile acquisire consapevolezza in ordine al loro reale costo, con riflessi negativi sul pricing, né favorire quelli a minore impatto ambientale proprio a causa delle distorsioni che vengono a determinarsi. In altre parole, nell’ambito dei sistemi di costing tradizionali si assiste al fenomeno del “sovvenzionamento incrociato di reddito” che consiste nella sottostima del costo unitario dei prodotti a basso volume ed elevata complessità e nella conseguente sovrastima del costo unitario dei prodotti ad alto volume e più bassa complessità35. In questo senso, è come se la linea a maggior quantità di output,

penalizzata da un’attribuzione sovrastimata di costi indiretti, cedesse reddito operativo alla linea a minor quantità di output, premiata con un’attribuzione sottostimata degli stessi. La conseguenza negativa di tale fenomeno, riprendendo la riflessione nell’ottica ambientale, sta nel fatto che ai prodotti migliori da un punto di vista ecologico vengano associati bassi margini economici36. Per fare un esempio, si consideri un’azienda cartaria

che, non potendo rilasciare le acque di processo nella rete fognaria prima di aver proceduto alla loro filtrazione in quanto contaminate da sostanze inquinanti (si pensi agli

34Cfr. Passetti E. et al. (2014), pp.299-300. 35

Cfr. Cinquini L. (2013), p.153.

(28)

agenti di imbianchimento), dispone di un depuratore il cui funzionamento comporta il sostenimento di costi comuni, per ipotesi, a due distinte linee di prodotto di cui: la prima richiede l’utilizzo di elevati quantitativi di cloro (imbiancante tradizionale a più alto impatto ambientale) e la seconda, eco-friendly, che prevede l’impiego di agenti di imbianchimento alternativi con minori concentrazioni di sostanze pericolose nelle acque reflue e che, pertanto, richiede un minore impegno da parte del depuratore. Si ipotizzi, inoltre, che l’azienda realizzi un quantitativo di prodotti appartenenti alla linea a minore impatto ambientale superiore a quello dei prodotti maggiormente inquinanti. Ripartendo i costi indiretti secondo criteri volume-related, come accade ad esempio nel Full Costing, la linea migliore sotto il profilo ecologico sarà quindi penalizzata da un’attribuzione sovrastimata di costi indiretti associati all’utilizzo del depuratore sebbene meno responsabile in ordine alla generazione dei costi che si stanno ripartendo37.

Ma se ai sistemi di costing convenzionali si associano queste (e altre) problematiche, perché le aziende stentano talvolta ad adottare metodi che consentono una più corretta rilevazione dei costi ambientali? La risposta è da ricercare nel fatto che nel momento stesso in cui questi ultimi non vengono correttamente rilevati, non è possibile acquisire consapevolezza della loro entità, composizione e significatività38.

Nell’ambito dei sistemi tradizionali si tende quindi a sottostimare, a ritenere poco significativi i costi ambientali, quando invece da uno studio condotto negli anni ’90 dal World Resources Institute (WRI) emerge che in tutti i casi osservati, l’ammontare di costi ambientali risulta essere particolarmente rilevante. Presso la raffineria Amoco Oil Co. di Yorktown in Virginia, ad esempio, è risultato che i costi ambientali ammontassero al 22% dei costi operativi. Allo stesso modo, è emerso che oltre il 19% del costo di produzione di un pesticida realizzato dall’azienda chimica DuPont nello stabilimento di LaPorte, in Texas, possa essere identificato come ambientale39. Conseguentemente, molte aziende

seguitano a non adottare strumenti di contabilità dei costi ambientali, nonostante i limiti dei sistemi convenzionali, proprio perché questi ultimi inducono a ritenerli irrilevanti. Ma un’azienda sarà disposta ad adeguare il proprio sistema di costing per disporre di informazioni di costo complete, inclusive degli aspetti ambientali, soltanto se i benefici che derivano dalle informazioni addizionali risultano superiori ai costi (anche intesi in termini di tempo e sforzi) che è necessario sostenere per ottenerle. Ecco quindi che molte

37Per un esempio simile si veda Marelli A. in Miolo Vitali P. (2009), p.234-235. 38

Cfr. Mio C. (2002), p.95 e Parker L.D. (2000), p.45.

(29)

imprese non hanno ancora implementato un sistema formale di misurazione e gestione dei costi ambientali, o per via di distorsioni nell’analisi costi – benefici (dovute a una non corretta percezione degli uni o degli altri) oppure a causa della prevalenza in quello specifico contesto aziendale dell’onerosità della loro rilevazione e analisi rispetto ai vantaggi che ne deriverebbero40. L’integrazione tra modelli tradizionali e strumenti di

ECA deve dunque poter essere in qualche modo giustificata41. Nell’ambito del presente

elaborato, si ipotizza che la diffusione della tecnica manageriale in esame possa avvenire secondo i meccanismi “isomorfici” per cui le organizzazioni tendono ad omogeneizzarsi, come verrà meglio approfondito nel quarto capitolo.

Si vuole chiarire ora il motivo per cui per indicare lo strumento indagato nella trattazione si parla, come già risulta dal titolo del presente paragrafo, di “Internal” ECA.

Nella sua Introduzione e Guida pratica all’ECA (2002), Howes discrimina tra Internal ed External Environmental Cost Accounting. In prima battuta si potrebbe ritenere tale distinzione fondata sul criterio della destinazione interna o esterna delle informazioni che tali strumenti consentono di ottenere. In realtà quella appena richiamata coincide con la già illustrata distinzione tra EMA ed EFA. Il termine “internal” qui utilizzato, pertanto, è indice della presa in considerazione dei soli costi privati, ossia interni all’azienda, gravanti sul risultato economico-finanziario di quest’ultima e non anche dei costi sociali, più comunemente noti come “esternalità” poiché gravanti sulla collettività nel suo complesso. Gli effetti sulla salute umana che derivano dal respirare aria inquinata, la contaminazione del suolo, il condizionamento dei consumi di risorse naturali da parte delle future generazioni, l’impatto che l’inquinamento idrico esercita sulle specie marine con gravi ripercussioni all’interno della catena alimentare fino ad arrivare all’uomo, sono alcuni tipici esempi di esternalità.

A differenza dell’Internal ECA, che si occupa dell’analisi e gestione dei costi ambientali privati a supporto delle decisioni aziendali, l’External ECA attiene alla stima dei costi ambientali sociali allo scopo di ridurre l’impatto ambientale causato dalle attività aziendali a un livello socialmente accettabile42. Almeno due sono le ragioni per cui

normalmente le aziende non internalizzano, ossia non si fanno carico anche dei costi sociali, limitandosi a considerare i soli costi che si rintracciano all’interno dei confini aziendali: 40Cfr. Passetti E. et al. (2014), pp. 297, 300. 41 Cfr. Letmathe P. et al. (2000), p.425. 42Cfr. Howes R. (2002), p.27.

(30)

anzitutto le attività industriali raramente rappresentano l’unica causa di uno specifico effetto gravante sulla collettività per cui può risultare complicato provvedere correttamente alla stima, ad esempio, dei costi associati alla perdita di biodiversità43;

in secondo luogo, non bisogna dimenticare che ci si sta muovendo nell’ambito di un approccio manageriale e che i manager necessitano di informazioni utili a supportare decisioni relative ad attività che mirano a incrementare i livelli di produttività e redditività aziendali per cui, in mancanza di specifiche prescrizioni normative, si assiste generalmente a una mancanza di interesse volontario nei confronti dell’internalizzazione delle esternalità44. In verità, la metodologia del

Full Cost Accounting, che si differenzia dal Full Costing poiché prevede l’imputazione all’oggetto di costo non solo dei costi relativi a tutti fattori produttivi impiegati per il suo ottenimento ma anche dei costi ambientali includendo tra questi sia i costi interni all’impresa che i costi sociali45, è stata

talvolta adottata (è il caso, ad esempio, dell’azienda canadese di distribuzione di energia Ontario Hydro) offrendo: all’impresa la possibilità di determinare prezzi in grado di riflettere il costo effettivo dei prodotti, tenendo conto anche degli aspetti ambientali, e ai consumatori quella di valutare le conseguenze economiche ed ambientali delle proprie scelte. Tale sistema garantirebbe risultati socialmente desiderabili e profitti sostenibili; tuttavia, per poter funzionare, esso richiederebbe che tutte le aziende lo adottassero poiché la singola azienda che finisce per innalzare unilateralmente i prezzi dei prodotti a maggior impatto ambientale risulterà svantaggiata di fronte ai più bassi prezzi praticati dai concorrenti che a differenza propria non avranno proceduto all’internalizzazione dei costi sociali46.

Per questo motivo Burritt (2004) afferma che “competition means that consideration of externalities becomes a luxury”.

Quanto sopra affermato è sufficiente per spiegare il motivo per cui le aziende prediligono i sistemi di Internal piuttosto che di External Environmental Cost Accounting.

È possibile rintracciare entro l’Internal ECA vari approcci all’identificazione, misurazione, analisi e gestione dei costi ambientali, la cui efficacia risulta tanto più

43Cfr. Jasch C. (2006), p.1196. 44Cfr. Ditz et al. (1995), p. 45

Cfr. Rea M.A. et al. (2012), p.51.

(31)

elevata quanto più l’azienda si mostra aperta all’adozione di strumenti di costing non convenzionali. È chiaro che strumenti più accurati sono anche strumenti più complessi la cui gestione risulta più onerosa. Ciò che un’azienda può ricercare, quindi, è l’adozione di una soluzione che si collochi nel mezzo del continuum che vede alle due estremità “accuratezza” e “gestibilità” del sistema, rinunciando a ottenere il massimo dell’una per recuperare, almeno in parte, l’altra. Queste variabili infatti originano un trade-off essendo in relazione tale per cui all’aumentare dell’una si assiste a una perdita dell’altra a causa della loro contestuale desiderabilità ma reciproca incompatibilità. A questo proposito, Emblemsvåg (2003) afferma che nella scelta del modello di costing da adottare “it is important to keep in mind that the cost of implementation versus simplicity/accuracy of the implementation must be decided”; ciò indica appunto che è necessario stabilire quale delle due caratteristiche di accuratezza e gestibilità del sistema sia prioritaria o, comunque, ricercarne un contemperamento.

Come già anticipato nell’introduzione, è l’Activity-based Costing (v. infra par. 3.4.1) il modello che meglio consente di allocare i costi relativi alle attività ambientali agli oggetti di costo sulla base dell’effettiva entità della loro richiesta da parte di questi ultimi, sebbene vi siano diverse ragioni alla base della sua scarsa diffusione, soprattutto nell’ambito delle pmi (v. infra par. 3.4.2).

La scelta tra gli approcci possibili, inoltre, non è di tipo esclusivo in quanto l’appena citato approccio activity-based potrebbe, ad esempio, essere abbinato con successo all’approccio life-cycle. Si tenga infatti presente che quando si adotta uno strumento di cost management, le decisioni da esso supportate impattano su molteplici dimensioni (cliente, prodotto, attività e risorse) ma la portata informativa dello stesso non è esaustiva; in altre parole, poiché la luce informativa dello strumento adottato potrebbe essere più fioca su alcune di queste dimensioni, emerge talvolta la necessità di integrare lo strumento in questione con un altro strumento che consenta di recuperare le informazioni mancanti. Tornando all’esempio dell’Activity-based Life-Cycle Costing proposto nel 1994 da Kreuze e Newell, l’integrazione tra i due modelli (ABC e LCC) deriva dal fatto che, nonostante l’ABC consenta di ridurre significativamente le distorsioni nell’allocazione dei costi indiretti rintracciate nell’ambito dei sistemi di costing tradizionali, tale metodologia “generally lacks the life-cycle perspective”47, ossia non segue il già citato

approccio “dalla culla alla tomba” per cui, solo combinando le due metodologie è

47Cit. Hunkeler et al. (2008), p.7.

(32)

possibile estenderne ulteriormente la portata informativa attraverso la presa in considerazione anche delle cosiddette “end-of-life-activities”48 (quali: recupero dei

prodotti a fine vita, riciclo dei materiali, smaltimento definitivo).

Quale (quali) che sia (siano) lo strumento (gli strumenti) adottato (adottati), dalla già citata ricerca condotta nel nostro Paese da Marelli e Miolo Vitali risulta evidente lo sforzo compiuto nell’intento di integrare attività operative, performance ambientale e performance economica ed emerge un crescente interesse verso i costi ambientali principalmente allo scopo di supportare le scelte di investimento e migliorare i sistemi di misurazione delle performance attraverso la rilevazione, in termini monetari, dell’impatto che le attività aziendali esercitano sull’ambiente naturale.

Come deriva dall’evidenza empirica che risulta dal già menzionato studio condotto da Passetti et al. (2014), ad oggi l’interesse da parte delle aziende nei confronti degli strumenti di environmental e, più in generale, sustainability accounting risponde non tanto al riconoscimento degli stessi quali mezzi a favore della salvaguardia del capitale naturale e della qualità della vita bensì alla volontà di favorire il proprio business, conseguire miglioramenti di efficienza, accrescere la propria visibilità e legittimare le proprie attività. Tali tematiche costituiranno oggetto di approfondimento nell’ultimo capitolo della trattazione, inerente alla rilevazione dei costi ambientali nell’ambito delle pmi.

A chiusura di questo primo capitolo dell’elaborato, viene proposta a pagina seguente una figura che intende riepilogare gli ambiti della contabilità ambientale fin qui analizzati. Il tratto di colore rosso indica il cammino seguito nel corso dei precedenti paragrafi fino ad arrivare all’Internal Environmental Cost Accounting, che è lo strumento di Environmental Management Accounting cui si continuerà a fare riferimento nei capitoli successivi del lavoro.

48Cit. Hunkeler et al. (2008), p. XXVII.

(33)

Figura 3: Environmental Accounting CONTABILITÀ AMBIENTALE NAZIONALE D’IMPRESA destinatari EMA EFA tipologia informazioni

MONETARY EMA PHYSICAL EMA

ENVIRONMENTAL COST ACCOUNTING

esternalità

(34)
(35)

2.

IL RAPPORTO TRA PICCOLE E MEDIE IMPRESE,

IMPATTO AMBIENTALE E COST MANAGEMENT

2.1 La responsabilità delle piccole e medie imprese in ordine al degrado ambientale

Secondo uno studio condotto nel Regno Unito nei primi anni 2000, il 70% dell’inquinamento causato dalle attività produttive è imputabile alle aziende appartenenti alla categoria delle pmi49. Quanto appena affermato, pur derivando da una stima condotta

all’estero, può essere fatto valere anche nel nostro Paese poiché, data la prevalenza nell’ambito del tessuto imprenditoriale italiano, così come in numerosi altri Stati europei ed extraeuropei, di aziende di ridotte dimensioni, queste ultime possono essere nel loro complesso responsabilizzate in ordine a buona parte del degrado ambientale.

Nonostante la significatività del loro impatto sull’ecosistema, le pmi ne sono spesso inconsapevoli in quanto il contributo di ogni singola piccola realtà produttiva all’inquinamento complessivo è solamente marginale. Attingendo al linguaggio microeconomico infatti, comportandosi ciascuna piccola azienda da agente razionale50,

essa sarà indotta a non considerare con la giusta cognizione le ripercussioni delle proprie azioni sulla collettività e quindi, nel caso specifico, sull’ambiente, soprattutto se la stessa si pone in un’ottica di confronto rispetto ai livelli di inquinamento causati dalle aziende di maggiori dimensioni. Conseguentemente, tale atteggiamento si colloca alla base del “free riding” che in questo caso è il fenomeno per cui pur essendo, almeno in linea teorica, tutte le aziende interessate al tema della tutela e della sostenibilità ambientale, ve ne saranno inevitabilmente alcune che cercheranno di minimizzare in via opportunistica i loro sforzi a spese di quelle che, invece, adottano comportamenti più responsabili sostenendone oneri e costi, proprio perché convinte della scarsa significatività, della marginalità appunto, delle ripercussioni che le proprie azioni esercitano sull’ambiente naturale. Si ritiene che tale scarsa consapevolezza in ordine all’impatto ecologico delle

49

Cfr.Cȏté R. et al. (2006), p.543.

50

Si definisce razionale un agente economico le cui azioni sono finalizzate ad accrescere quanto più possibile il proprio grado di soddisfazione. Tecnicamente, ciò sta a significare che detto agente massimizza una sua funzione obiettivo, vincolatamente alla scarsità delle risorse di cui dispone – cit. Augello M.M. et

(36)

attività aziendali, causa della frequente mancata adozione di un atteggiamento più attento a rispondere alle problematiche ambientali, sia maggiormente rintracciabile nell’ambito delle aziende di minori dimensioni, impegnate in via prioritaria nella loro stessa sopravvivenza a causa delle pressioni competitive che ricevono nonché della limitatezza delle risorse finanziarie, umane e tecnologiche di cui dispongono.

Alcuni Autori51, che avvalendosi anche di indagini empiriche hanno proposto una

classificazione delle strategie e, più in generale, degli atteggiamenti delle aziende italiane verso l’ambiente, affermano infatti che la maggior parte delle pmi si limita ad adottare soluzioni di adeguamento a norme obbligatorie e, al più, misure end of pipe, ossia accorgimenti volti all’abbattimento delle emissioni inquinanti per l’ambiente che prevedono unicamente un intervento a valle del processo produttivo (ad esempio sistemi di filtraggio, pannelli fonoassorbenti, ecc.) e non una riprogettazione del prodotto o del processo stesso, affrontando un impegno minore dal punto di vista finanziario poiché tale strategia, detta comunemente “adattativa” non richiede ingenti investimenti di risorse, soprattutto in Ricerca e Sviluppo.

Non essendo tuttavia corretto procedere a rigide generalizzazioni, pare opportuno illustrare brevemente anche le altre possibili strategie ambientali, come classificate da Mio (2004) e Pizzurno (2011):

la strategia “passiva” è propria delle imprese che percepiscono il rispetto della normativa ambientale come una minaccia alla propria competitività e che, pertanto, vi si adeguano il più tardi possibile tentando di minimizzarne i costi associati e auspicando che le istituzioni non procedano con l’applicazione di ulteriori disposizioni ancora più stringenti;

si parla invece di strategia “attiva” quando l’azienda è ben predisposta all’osservanza di tutte le norme in materia di tutela ambientale e a procedere con la progettazione di prodotti e processi produttivi a ridotto impatto sull’ecosistema, avendo quale obiettivo la minimizzazione del rischio di procurare incidenti ambientali da cui scaturirebbe il sostenimento di costi di riparazione del danno arrecato (es.: costi di bonifica, sanzioni pecuniarie, risarcimenti, ecc.);

infine la strategia “proattiva” è propria di quelle aziende che, considerando la variabile ambientale non come una minaccia bensì come un’opportunità di sviluppo e differenziazione, identificano nella stessa una fonte di vantaggio

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