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IV- Diritto mite e interpretazione conforme: la sentenza 356/1996

3. Riassetto dei rapporti tra giurisprudenza comune e giurisprudenza costituzionale

L’affermazione contenuta nella sent. 356/1996 per cui le leggi si dichiarano inco- stituzionali solo quando non è possibile rintracciare in esse un significato conforme alla Carta, come si è visto, conduce a consolidare il principio in virtù del quale il giu- dice a quo ha l’onere, prima di adire la Consulta, di sperimentare una interpretazione conforme, ovviamente osservando gli ordinari criteri ermeneutici121.

120 Cfr. Anzon A., Il giudice a quo e la Corte costituzionale tra dottrina dell’interpretazione conforme

a Costituzione e dottrina del diritto vivente, in Giurisprudenza costituzionale, 1998, p. 1082 ss.

121 Anche se difficilmente interpretazioni più “creative”, purché non eminentemente fantasiose, potreb-

bero essere censurate. Ancora un punto, questo, da tenere fermo nella valutazione di un possibile cedi- mento verso soluzioni diffuse del modello italiano, come avrò modo di dire.

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Ora, ci si deve chiedere come la dottrina del diritto vivente si leghi a questo onere del giudice comune, che sembra per vero assumere i connotati della libertà interpreta- tiva. La Corte costituzionale era infatti approdata, con riguardo al canone del diritto vivente, alla considerazione per cui, in presenza di un’interpretazione comunemente accettata in giurisprudenza circa una particolare disposizione di legge, la quale renda privo di ogni consistenza il dubbio di legittimità costituzionale, il giudice comune avrebbe dovuto a questa attenersi. Ma, se così è, il giudice sarebbe allora privo del potere di discostarsi dall’interpretazione che costituisce diritto vivente, offrendo una diversa esegesi della norma al suo esame. Questo anche perché la Corte, qualora il giudice comune appunto si discosti dal diritto vivente costituzionalmente conforme, respinge in questa fase la questione di costituzionalità. Tra le pronunce che offrono questi spunti si può qui ricordare la sentenza 23 novembre 1994, n. 398, nella quale la Consulta sostiene, citando precedenti pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cas- sazione, che i dubbi sulla legittimità costituzionale122 potevano in quel caso “essere risolti in via interpretativa, senza bisogno di incidere sulle norme così come formu- late”. La Corte dichiarava dunque non fondata la questione, “apparendo risolutiva la predetta interpretazione adeguatrice ai precetti costituzionali”. In un ulteriore caso dello stesso anno, di qualche mese precedente123, la Corte aveva dato conto delle di-

vergenze giurisprudenziali nella materia trattata, ma aveva osservato come, poco prima, fosse intervenuta una pronuncia delle Sezioni Unite a dirimere il contrasto. L’interpretazione del giudice della nomofilachia, aveva quindi concluso la Corte, “de- termina […] il venir meno del presupposto da cui muove il remittente, con la conse- guenza che la questione sollevata deve dichiararsi non fondata”.

Dopo la sentenza del ’96, invece, la Consulta rinuncerà perfino a scendere nel merito, pronunciando ordinanze di manifesta inammissibilità. Così avviene, solo per citare un esempio tra gli innumerevoli, in un caso del 2008, in cui la Corte dichiara la questione manifestamente inammissibile rilevando come già sussista “una diversa so- luzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti”124.

Così posta la questione, parrebbe, in verità, che il diritto vivente si saldi con l’in- terpretazione conforme, nel senso che una consolidata giurisprudenza che viva (per

122 Sollevati dal Pretore di Biella, che in quella circostanza aveva formulato l’ordinanza di rimessione. 123 Corte cost., sent. 15.03.1994, n. 87

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l’appunto) nelle aule di tribunale, siano esse di primo o di ultimo grado della giurisdi- zione, può portare a selezionare della legge ciò che è costituzionale e ciò che non lo è, disapplicando poi questo corno della ripartizione, e tutto ciò attraverso una interpreta- zione in linea col testo costituzionale.

Così, per rispondere alla domanda con cui ho concluso il precedente paragrafo, possiamo dire che, se il giudice comune è obbligato a individuare un’interpretazione conforme a Costituzione prima di sollevare la questione di costituzionalità, i suoi mar- gini interpretativi potrebbero però essere ingabbiati dal diritto vivente che viene a co- struirglisi attorno: nel senso che, se sussiste un diritto vivente, il giudice comune deve attenersi all’interpretazione da esso offerta, restando quindi privo della facoltà di pro- porre una differente esegesi, perché in presenza di un diritto vivente giudicato non incompatibile con la Costituzione, la Corte “avalla e consolida l’orientamento giuri- sprudenziale dominante”125 .

Questo profilo è da tenere nella massima considerazione nel tratteggiare la ten- sione del nostro modello verso soluzioni diffuse. Una delle preoccupazioni principali degli osservatori in proposito è infatti quella per cui, nel corso di questa tensione, ciò che si rischia di non portare con sé, così perdendolo, è la certezza del diritto, visto che il nostro sistema è scemo del principio dello stare decisis. In realtà, questa preoccupa- zione parrebbe in qualche modo tamponata dalla considerazione or ora svolta, e cioè dalla presenza di un diritto vivente conforme a Costituzione, che evidentemente va ben oltre la semplice e isolata interpretazione conforme, per acquisire forza da un consoli- dato orientamento giurisprudenziale capace di raggiungere più capillarmente tutta la magistratura, specie se fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità e avallato da quella costituzionale, pur se per il tramite di sporadiche ordinanze di manifesta inam- missibilità126. Cercherò di riprendere questi spunti nelle sedi più opportune. Per adesso basti riferirsi a ciò: che, nella ricostruzione offerta dalla dottrina, quando si parla di recessività del canone del diritto vivente, ci si riferisce essenzialmente all’atteggia- mento della Corte costituzionale nell’uso delle sentenze interpretative, che non hanno più bisogno di poggiarsi su di esso, avendo frattanto la Consulta sviluppato il nuovo

125 Così Salvato,Profili del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale, op. cit., p. 41 126 Le quali ordinanze hanno, intuitivamente, un’efficacia – anche persuasiva – ben diversa da quella di

una sentenza, ancorché di rigetto. Su questo punto v., ad esempio, Modugno F., Alcune riflessioni a

margine della ricerca su «Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso l’autorità giudiziaria – anni 2000-2005», in Id., Scritti sull’interpretazione costi- tuzionale, Napoli, Esi, 2008, pp. 275 ss.

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canone dell’interpretazione conforme. Come ho cercato di chiarire più su, dopo la svolta del ’96, la portata delle sentenze interpretative di rigetto si modifica, vestendosi di nuovi abiti, per il resto diradando; mentre alle decisioni di rigetto, che valorizza- vano, avallandolo, il diritto vivente, si sostituiscono adesso le ordinanze di manifesta inammissibilità, che semplicemente rimandano la legge al giudice intimando a quest’ultimo di usare gli strumenti ermeneutici a sua disposizione per effettuare un’in- terpretazione conforme a Costituzione. Certamente, riferendosi alla dottrina del diritto vivente, si parla di un canone recessivo127, non già di un canone estinto, poiché ancora oggi la Consulta continua a pronunciare sentenze interpretative con i contenuti di un tempo, anche se molto più raramente. Ma ciò che non è certo recessivo è l’importanza della formazione di un diritto vivente all’interno della giurisprudenza comune. Esso, anzi, come visto, è un prezioso anticorpo sviluppato dal sistema per salvaguardare la certezza del diritto ed impedire una giurisprudenza “a macchia di leopardo”, vale a dire non uniforme su tutto il territorio nazionale, nel momento in cui usa dell’interpre- tazione conforme a Costituzione senza essere guidata (o imbeccata) dalla Corte cen- trale in questa attività, se non tangenzialmente128.

D’altra parte, dell’interpretazione conforme in contrapposizione al diritto vivente neppure si può abusare. La Corte costituzionale ha più volte messo in luce questo aspetto, anche nella stessa sent. 356/1996. Qualora infatti il risultato finale non muti, vale a dire sia comunque conforme a Costituzione, non è possibile al giudice comune

127 Su questo tema vedi ad esempio la ricostruzione assai efficace offerta da Romboli, che parla di

“criterio residuale” in riferimento al diritto vivente. Trovo utile riportare qui per intero il suo ragiona- mento. “Negli ultimi anni”, egli dice, “è dato di assistere, con sempre maggiore frequenza, ad ipotesi

in cui, a fronte di un diritto vivente inequivocabilmente formatosi, la Corte avanza ciò nonostante pro- prie, differenti interpretazioni, mentre in altri casi essa rivolge esplicitamente ai giudici l’invito a se- guire una interpretazione conforme, anche in presenza di un diritto vivente o di un orientamento giuri- sprudenziale univoco, avendo il giudice “solo la facoltà e non l’obbligo di uniformarsi al prevalente orientamento giurisprudenziale” [si riportano qui le parole dell’ordinanza 01.07.2005, n. 252 della

Corte]. Così facendo – e dichiarando altrimenti manifestamente inammissibili le questioni di legittimità

costituzionale sollevate dai giudici in quanto finalizzate a chiedere un avallo alla propria opzione in- terpretativa, tale da superare quella di altri giudici (spesso dei gradi superiori del giudizio) – la Corte induce il giudice a seguire un’interpretazione in certo senso “suicida”, in quanto quasi certamente destinata ad essere annullata dalla pronuncia dei giudici dei gradi superiori e sottoponendo, come esattamente rilevato, ad una specie di “calvario”, con pesanti conseguenze anche di ordine economico, le parti sostanziali dei giudizi principali. Nel rapporto tra diritto vivente ed interpretazione conforme, la Corte costituzionale mostra quindi di dare la prevalenza alla seconda, venendo quindi il primo ad assumere la natura di criterio residuale”. Cfr. Romboli R., Qualcosa di nuovo… anzi d’antico: la con- tesa sull’interpretazione conforme della legge, in La giustizia costituzionale tra memoria e prospet- tive. A cinquant'anni dalla pubblicazione della prima sentenza della Corte costituzionale, a cura di

Paolo Carnevale e Carlo Colapietro, Torino, Giappichelli, 2008.

128 E cioè per il tramite degli orientamenti interpretavi ricavabili dalla complessiva giurisprudenza co-

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sollevare una questione di costituzionalità unicamente per realizzare “un improprio tentativo per ottenere dalla Corte costituzionale l'avallo a favore di un'interpreta- zione, contro un'altra interpretazione, senza che da ciò conseguano differenze in or- dine alla difesa dei principi e delle regole costituzionali, ciò in cui, esclusivamente, consiste il compito della giurisdizione costituzionale”129. La Corte costituzionale, cioè, non è un altro grado di giudizio, né un organo di revisione della nomofilachia; la sua funzione non è risolvere contrasti giurisprudenziali, ma valutare la costituzionalità delle leggi e, in caso di esito negativo, espungerle dall’ordinamento.

E pertanto, solo quando esista un diritto vivente della cui costituzionalità si dubiti (né si riesca a superare attraverso un’interpretazione conforme) sarà possibile rivol- gersi alla Corte. In questo caso, però, il giudice comune che ritenga il diritto vivente contrario a Costituzione dovrà, oltre a tentare un’interpretazione conforme, e tentando fallirla, anche “dare atto dell’esistenza di un diritto vivente nel senso da lui ipotizzato e posto a base dell’incidente di costituzionalità”130. Ed è questo un onere pressante del

giudice quo, che non potrà limitarsi a un’unica citazione di un’isolata pronuncia della Cassazione, ma dovrà dare conto della sussistenza di un effettivo diritto vivente in materia131.

È qui comunque doveroso precisare come la giurisprudenza costituzionale, su questo punto, risulti non troppo limpida. Nel caso infatti di un diritto vivente della cui costituzionalità vi siano solidi motivi di dubitare, la Corte sembra sposare una conce- zione meno rigida dell’obbligo di interpretazione conforme, in modo da consentire al giudice di raggiungere con più facilità l’organo centrale e a questo di espungere defi- nitivamente, e con efficacia erga omnes, un diritto vivente vistosamente, o almeno molto probabilmente, incostituzionale. E pure questo tema si lega ai diversi strumenti utilizzabili dalla Corte, alle differenti decisioni da essa esperibili: ci si riferisce al fatto

129 Così appunto la sent. 356/1996.

130 Ancora Salvato, op. ult. cit., p. 44. Cfr., a tale proposito, l’ordinanza 19 luglio 2012, n. 194, che

recita: “nemmeno, il giudice a quo dà minimamente conto di un dubbio residuo che si mostrasse irridu-

cibile ad ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme, né riferisce dell’esistenza di un diritto vivente che lo avrebbe costretto necessariamente verso l’interpretazione che egli sospetta affetta da incostituzionalità”.

131 Per un approfondimento del tema, la cui compiuta trattazione mi porterebbe troppo lontano dall’ar-

gomento qui affrontato, rinvio a Salvato, op. ult. cit., che precisa altresì l’orientamento della Corte co- stituzionale quando giudice rimettente sia la Corte di cassazione.

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che, mentre le sentenze interpretative di rigetto avrebbero scarsa incidenza in un si- stema che valorizzi a tal punto l’interpretazione conforme132, le sentenze interpretative

di accoglimento133, invece, sarebbero il mezzo più idoneo a fronteggiare il problema anzidetto. Attraverso di esse, invero, si potrebbe potare i rami di un’interpretazione tanto ormai consolidata, quanto evidentemente contraria a Costituzione, senza sradi- care le radici della disposizione, che, almeno rispetto al suo dato letterale, non verrebbe censurata.

C’è da dire che la Corte non sempre è così conseguente nell’affrontare questa pro- blematica, e anzi spesso arriva a utilizzare con troppa disinvoltura le interpretative di rigetto secondo schemi tipici di altre stagioni, come pure accennato più su. In materia, insomma, non tutto è ordinato, e quel che emerge con chiarezza è che, seppure reces- sivo nel senso sopra specificato, il canone del diritto vivente non può che intrecciarsi in vario modo con quello dell’interpretazione conforme.

Volgendo ora al termine della ricostruzione storica offerta in queste pagine, oc- corre mettere l’accento sul fatto che tutti questi fenomeni, se in fondo parlano con voci spesso poco allineate, sembrano però comunicarci all’unisono che, soprattutto dopo la sent. 356/’96, ma in parte anche precedentemente ad essa, importantissime trasforma- zioni si sono prodotte nei rapporti tra legalità legale e legalità costituzionale. Ciò che è venuto a modificarsi, più precisamente, è senz’altro l’assetto dei rapporti tra magi- stratura comune e Consulta. La magistratura, all’esito di un percorso quarantennale, poteva certo dirsi matura dal punto di vista della sensibilità ai valori costituzionali, tanto che al modello della separazione, che voleva la Carta cosa della Consulta, la

132 È questa la tesi di molta dottrina: oltre alla già citata Lamarque, basti qui ricordare Anzon, Il giudice

a quo e la Corte costituzionale tra dottrina dell’interpretazione conforme a Costituzione e dottrina del

diritto vivente, op. cit., nonché D’Atena, Interpretazioni adeguatrici, diritto vivente e sentenze interpre- tative della Corte costituzionale, op. cit. Evidentemente, se il giudice può sollevare la questione di co-

stituzionalità solo se fallito il tentativo di interpretazione conforme, le questioni interpretative dovreb- bero essere tutte risolte proprio dinanzi al giudice a quo; altrimenti, la Corte non mancherà di dichiarare la manifesta infondatezza, rinviando di nuovo l’interpretazione al giudice. Peraltro, come dimostra la pratica, la Corte costituzionale non ha seguito sempre questa logica.

133 Sono, in due parole, le sentenze interpretative, germinate dalle gemelle di rigetto, che accolgono la

questione di costituzionalità relativamente all’interpretazione (e cioè a una possibile norma desumibile dal testo), espungendo sì questa, ma mantenendo invece la disposizione da cui è tratta. Per alcuni anche questo tipo di sentenza, come tutte quelle interpretative, sarebbe incompatibile col sistema delineato all’indomani della sent. 356/1996, per le ragioni esposte nella precedente nota. Visto però che la Corte pare non seguire con rigore questa ricostruzione, le interpretative di accoglimento sembrerebbero pro- prio il tipo di decisione più calzante per risolvere il problema di un diritto vivente incostituzionale.

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legge cosa dei giudici, si è sostituito quello dell’integrazione, che ai giudici ha attri- buito anche la Carta134; e d’altra parte l’attenzione a questa acquisita sensibilità si è

potuta dimostrare anche attraverso la creazione di un diritto vivente, nonché con la sua valorizzazione, negli anni, da parte della Corte costituzionale. Quando poi la Corte decide di voltare pagina, concedendo così al giudice comune inediti spazi di operatività nell’attuazione della Costituzione, ciò che cambia è, in definitiva, il fatto che la Corte viene portata ad intervenire in merito al sindacato sulle leggi soltanto qualora il dato letterale della fonte primaria sia tanto resistente a qualsiasi tipo di ricostruzione erme- neutica che tenti di riconciliarlo con i valori della Carta fondamentale, che la norma appaia del tutto incompatibile con la Costituzione. Per il resto, sarà il giudice comune a piegare la legge ai principi costituzionali135.

Se e come tutto ciò comporti un effettivo slittamento del nostro sistema, perlo- meno con riguardo al giudizio in via incidentale, verso formule più diffuse che accen- trate, sarà mia preoccupazione svilupparlo nelle sedi più opportune. Nel prosieguo della trattazione cercherò quindi di calare questa prospettiva storica nel dato più pro- priamente giuridico, attenendomi più precisamente allo studio del ruolo del giudice comune e della sua interpretazione conforme a Costituzione nel nostro modello di giu- stizia costituzionale.

134 Questa impostazione è ripresa ancora da Mezzanotte,La Corte costituzionale: esperienze e prospet-

tive, op. cit.

135 Da questo momento più che mai acquistano valore le parole di Giardino Carli, il quale già a suo

tempo sosteneva che l’autorità giurisdizionale “deve «usare» la Costituzione non solo come parametro

nel giudizio sull’evidenza del dubbio di legittimità, ma anche come parte del sistema normativo e tener conto dei principi in questa espressi nel ricostruire il significato dell’atto impugnato”. Cfr. Giardino

Carli A., Giudici e Corte costituzionale nel sindacato sulle leggi, op. cit., p. 77, che ricorda anche gli inviti della dottrina dell’epoca acciocché la giurisprudenza comune, appunto, tenesse conto dei principi costituzionali per ricostruire il significato della legge. Vedi, a tal proposito, Carlassare L., Le «questioni

inammissibili» e la loro riproposizioni, op. cit., pp. 768-769, nonché Elia L., La giustizia costituzionale nel 1982 (conferenza stampa del Presidente della Corte costituzionale), in Giurisprudenza costituzio- nale, 1983, I, p. 689, dove si parla di “essenziale funzione interpretativa del giudice a quo, funzione che va effettivamente esercitata e non demandata alla Corte costituzionale”.

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