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Uno studio sui profili diffusi del controllo di costituzionalità delle leggi in Italia – Corti e giudici comuni nel modello «soffuso» di giustizia costituzionale

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I

Indice

Introduzione ... V CAPITOLO I

DEL MODELLO MISTO DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE NEI PRIMI

QUARANT’ANNI DI FUNZIONAMENTO DELLA CORTE ... 1

I- Il dibattito in Assemblea Costituente ... 1

1. I modelli “puri” di giustizia costituzionale ... 1

2. Contezza della materia e velo dell’ignoranza in Assemblea Costituente ... 10

3. Il compromesso sul controllo di costituzionalità e il modello misto ... 15

II- La fase transitoria e i primi anni di funzionamento della Corte ... 22

1. La VII disposizione transitoria e finale della Costituzione ... 22

2. L’avvio dei lavori della Consulta: la sent. 1/1956 ... 28

3. L’iniziale opera di “sensibilizzazione” della magistratura ... 29

III- La giurisprudenza costituzionale dalla «prima guerra tra le Corti» alla valorizzazione del diritto vivente ... 33

1. L’interpretazione della Corte come precedente autorevole ... 33

2. La dottrina del diritto vivente come prima valorizzazione del ruolo della giurisprudenza comune... 36

IV- Diritto mite e interpretazione conforme: la sentenza 356/1996 ... 38

1. Alcuni spunti filosofico-dottrinari per inquadrare il canone dell’interpretazione conforme ... 38

2. Una nuova definizione di incostituzionalità ... 40

3. Riassetto dei rapporti tra giurisprudenza comune e giurisprudenza costituzionale all’indomani della sent. 356/1996 ... 44

CAPITOLO II – DELL’INTERPRETAZIONE CONFORME A COSTITUZIONE PER COME ACCENTUA LE FORMULE DI “DIFFUSIONE” ALL’INTERNO DEL MODELLO ITALIANO DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE ... 51

I- Un primo inquadramento del problema: la concretezza del giudizio di costituzionalità ... 51

1. Astrattezza e concretezza del controllo di legittimità costituzionale ... 51

2. La concretezza del giudizio sulle leggi e i suoi rapporti con la “diffusione” ... 55

II- L’interpretazione conforme a Costituzione come ulteriore requisito dell’ordinanza di rinvio ... 61

1. Interpretazione conforme e interpretazione adeguatrice ... 61

2. I rapporti col requisito della non manifesta infondatezza ... 63

3. Come attraverso l’interpretazione conforme si realizza una “utilizzazione diffusa” della Costituzione ... 71

4. Come attraverso l’interpretazione conforme è possibile caducare o addirittura espungere una norma dall’ordinamento ... 75

III- Giudice a quo e interpretazione conforme: alcuni casi giurisprudenziali ... 86

1. Una veloce ricognizione dell’esperienza giudiziaria degli ultimi venti anni ... 86

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II

3. Il ruolo dell’interpretazione conforme negli equilibri costituzionali tra magistratura e potere

politico-legislativo (cenni)... 99

IV- Ulteriori aspetti dell’interpretazione conforme e considerazioni finali sul tema ... 102

1. Controversi casi di ipotizzabilità della disapplicazione ... 102

2. Osservazioni conclusive sull’interpretazione conforme a Costituzione ... 106

CAPITOLO III

DEL RUOLO DEL GIUDICE COMUNE NEL MODELLO DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE CON RIGUARDO ALL’APPLICAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA ... 111

I- Il cammino comunitario e gli approdi del dialogo tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia europea ... 111

1. Il primato del diritto comunitario nella giurisprudenza di Lussemburgo ... 111

2. Le resistenze della Corte costituzionale italiana ... 115

3. Gli approdi del dialogo tra Corti: allineamento della Consulta e ritaglio di alcune aree di competenza residuali ... 121

II- Sulla “non applicazione” del diritto interno ... 124

1. Il giudice comune di fronte al diritto interno contrastante col diritto eurounitario ... 124

2. Disapplicazione e non applicazione ... 132

III- L’esegesi conforme al diritto dell’Unione Europea con riguardo alle direttive non direttamente applicabili ... 136

1. L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea... 136

2. I profili di diffusione relativi al diritto non direttamente applicabile ... 138

3. Alcuni casi giurisprudenziali: le incertezze del giudice italiano e la prassi negli altri Stati dell’Unione ... 147

4. Conclusioni provvisorie sul tema e rinvio ... 155

CAPITOLO IV

DEI CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI IN ORDINE ALL’APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO NEL GIUDIZIO COMUNE . 157 I- La questione della natura giuridica della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ... 157

1. Il Consiglio d’Europa, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Strasburgo ... 157

2. Dal recepimento della Cedu tramite legge di esecuzione ai primi tentativi dottrinari di elaborazione di una copertura costituzionale ... 160

3. La riconosciuta possibilità di ricorrere alle norme della Cedu al fine di integrare il parametro costituzionale ... 163

4. Il nuovo art. 117, comma 1, Cost. e le sentenze gemelle del 2007 ... 165

II- In ordine alla disapplicazione del diritto interno contrastante con la Cedu ... 170

1. La rivendicazione del ruolo della Corte come unico organo competente a sindacare la legittimità costituzionale del diritto interno ... 170

2. I tentativi di disapplicazione della giurisprudenza comune: in particolare, del contrasto della Corte con i giudici ordinario e amministrativo all’indomani delle sentenze gemelle ... 171

3. Un quadro ancora in fieri: possibili prospettive a seguito della futura adesione dell’UE alla Cedu ... 175

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III III- L’interpretazione conforme alla Convenzione europea nel dialogo tra giudici

comuni, Corte Costituzionale e Corte di Strasburgo ... 177

1. La dottrina dell’esegesi convenzionalmente conforme ... 177

2. L’interpretazione conforme alla Cedu nella giurisprudenza comune ... 179

3. L’interpretazione della Cedu per come risulta dalla giurisprudenza di Strasburgo ... 183

IV- Un caso esemplare: la c.d. revisione europea ... 190

1. Approfondendo la necessità di un dialogo tra Corti e tra giudici comuni e Corti: un superamento della concezione teorica di contrapposizione tra accentramento e diffusione ... 190

2. Di come l’ordinamento possa essere innovato sulla base del dialogo tra giudici e Corti nell’inerzia del legislatore: la vicenda della revisione europea in rapporto all’art. 630 c.p.p. ... 192

CAPITOLO V

DELLA NATURA MISTA E COMPOSITA DELLA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE ITALIANA: IL MODELLO «SOFFUSO» ... 201

I- Il modello misto italiano ... 201

1. La valorizzazione del ruolo del giudice comune all’interno del sistema di giustizia costituzionale ... 201

2. I settori accentrati del modello ... 210

3. Dal modello misto al modello duale? ... 218

II- Il modello «soffuso» ... 222

1. Esibizione della diffusione ma reale vocazione all’accentramento? Una questione di prospettiva ... 222

2. Superare una concezione conflittuale dei rapporti tra accentramento e diffusione: il modello «soffuso» ... 226

Ringraziamenti ... 237

Bibliografia ... 239

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(5)

V

Introduzione

Affrontare un tema come la tensione del sistema di giustizia costituzionale italiano verso soluzioni di tipo più o meno marcatamente diffuso è, senza dubbio, prova stimo-lante la costruzione di un disegno unitario dello stato stesso della giustizia costituzio-nale italiana. Prova alquanto impegnativa, probabilmente di molto soverchiante le forze quali adesso mi assistono, e straordinariamente ricca di implicazioni alquanto articolate, tali da investire pressoché tutti gli aspetti più fondamentali, sensibili e, forse soprattutto, discussi della giustizia costituzionale. In primo luogo la stessa sua radice, vale a dire la concezione, prima ancora che giuridica, filosofico-politica di Costitu-zione; secondariamente, la natura delle istituzioni e dell’organo1 (o degli organi,

even-tualmente) posti a presidio della costituzionalità delle fonti del diritto di rango inferiore alla Carta, e in particolare delle leggi e degli atti aventi forza parificata; ancora, la delineazione del rapporto che lega la nostra Corte costituzionale alla forma di governo e ai vari attori che la costruiscono, nonché i variegati e imprevedibili corollari che nuovi assestamenti di questi rapporti comporterebbero nella stessa configurazione della nostra democrazia, specie in riferimento alla tutela dei diritti fondamentali degli individui. Di modo che il diritto costituzionale nel suo insieme, o quantomeno nel suo nucleo più cardinale, ne risulta investito. Tutti aspetti che mi è evidentemente impos-sibile non dico sviluppare, ma perfino solo abbozzare in questa sede, se anche non fosse per personale inadeguatezza dinanzi a tematiche così complesse, pure soltanto per ragioni eminentemente e praticamente legate alla natura del mio lavoro. E tuttavia, accennare quantomeno alle principali delle innumerevoli e capillari derivazioni di un’analisi che indaga il cuore stesso del modello di giustizia costituzionale mi pareva senz’altro doveroso, nonché rispettoso del lavoro dei molti che con tali derivazioni si

1 Sulla natura giurisdizionale e assieme politica delle Corti costituzionali, e in particolare di quella

ita-liana, si discute da tempo in dottrina, con molte sfumature anche legate ai differenti periodi storici e all’evoluzione del fenomeno in essi. Tra gli altri, cito qui i contributi di Paolo Barile, Enzo Cheli e Stefano Grassi (Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Bologna, Il Mulino, 1982), Alessandro Pizzorusso (Uso e abuso del diritto processuale costituzionale, in Diritto

giurispru-denziale, a cura di Mario Bessone, Torino, Giappichelli, 1996, 133), Roberto Romboli (La natura della Corte costituzionale alla luce della sua giurisprudenza più recente, in Istituzioni e dinamiche del diritto: i confini mobili della separazione dei poteri, a cura di Aljs Vignudelli, Milano, Giuffrè, 2009), Gustavo

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VI

sono cimentati, e da cui con assoluto riguardo ho tratto gli strumenti per condurre que-sto mio studio.

Nel corso della trattazione che quindi svilupperò, mi limiterò allora a esaminare con maggiore cura i tre momenti della giustizia costituzionale dal cui studio credo emergere con assoluta chiarezza la promiscuità del nostro modello (che, per l’appunto, viene definito “misto” o “europeo”2, a sottolineare la caratura storicamente continen-tale di continen-tale ibridazione), e in particolare il fatto che l’oscillazione tra soluzioni accen-trate e formule diffuse di controllo di costituzionalità conosca assai frequentemente l’indugiare dell’ago della prassi su queste ultime. Nell’esperienza storica del modello italiano, infatti, da un lato la concezione di interpretazione conforme a Costituzione della legge (o “interpretazione adeguatrice”3, la quale viene rimessa dalla stessa

Con-sulta alle potenzialità espressive del giudice comune); dall’altro gli approdi del lungo e travagliato “cammino comunitario” compiuto complessivamente dal nostro ordina-mento e, più specificamente, dalla nostra giurisprudenza costituzionale; infine i nume-rosi contrasti intorno all’inquadramento della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nelle fonti del diritto in seno al nostro ordinamento, e intorno ai differenti metodi di applicabilità della stessa4, sono, ritengo, i tre aspetti che più riecheggiano i

2 Il modello “misto” (anche “derivato”) viene generalmente così denominato in contrapposizione ai

modelli definiti “originari” o “puri”, a sottolineare la contaminazione delle espressioni storicamente più risalenti e strutturalmente più definite nella loro frontale contrapposizione (per l’appunto i modelli “dif-fuso”, di tradizione anglosassone e, originariamente, nordamericana, e “accentrato”, nato dalle elabora-zioni teoriche europee per appuntarsi più armoniosamente sulla tradizione di civil law). La denomina-zione “europeo” nasce per contrapposidenomina-zione al modello nordamericano, prototipo della “diffusione”, incardinato sul principio dello stare decisis, tipico delle tradizioni di common law. Molta autorevole dottrina rileva peraltro come quest’ultima denominazione sia troppo approssimativa, se non decisa-mente fuorviante, sottolineando come i diversi modelli europei di giustizia costituzionale siano caratte-rizzati, nel loro reciproco confronto, da differenze talmente marcate da far apparire molto debole e su-perficiale questa classificazione. Sulla riflessione circa il modello c.d. “misto”, fondamentale in lettera-tura è il contrasto tra Hans Kelsen e Carl Schmitt; più recentemente, si citano qui gli spunti offerti dal lavoro di Mario Battaglini (cfr. in particolare Contributo alla storia del controllo di costituzionalità

delle leggi, Milano, Giuffrè, 1957), Giuseppe Volpe (v. il suo L’ingiustizia delle leggi. Studi sui modelli di giustizia costituzionale, Milano, Giuffrè, 1977) e Jörg Luther (di cui riporto Giustizia costituzionale, in Filosofia del diritto. Concetti fondamentali, a cura di Ulderico Pomarici, Torino, Giappichelli 2007).

3 Le due espressioni, si vedrà, parrebbero non essere completamente coincidenti, di modo che occorrerà

prima tentare di capire sotto quale profilo esse si diversifichino, per poter essere di conseguenza più precisi nel significare concetti e situazioni non del tutto simili in modo più puntuale. Vedi su questo punto, in particolare, infra, Cap. II, § II, 1.

4 Mi riferisco evidentemente ai diversi utilizzi della Cedu (spesso solo potenziali, o addirittura censurati

dalla Consulta nel tortuoso percorso per la sua configurazione, come avrò occasione di dire più diffusa-mente), tra i quali spicca l’impiego di questo Trattato sia come norma interposta atta a integrare il pa-rametro costituzionale che si assume violato dalla fonte primaria; sia nella sua applicazione diretta ai casi concreti anzi il giudice comune; sia come fonte di riferimento per giustificare la disapplicazione della norma interna con essa contrastante.

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VII

possibili cedimenti del nostro modello “misto” di giustizia costituzionale verso mani-festazioni di controllo di costituzionalità diffuso. Studiare questi tre aspetti è un primo passo verso la raffigurazione di un fenomeno, quello della diffusione del giudizio sulle leggi, a lungo osservato, commentato e talvolta come vaticinato dalla dottrina costitu-zionalistica. Nello svolgimento di questi tre spunti trovo peraltro utile soffermarmi in particolare sulla figura del giudice a quo e sulla valorizzazione del ruolo della giuri-sprudenza comune intervenuta sia in rerum natura, per il naturale svilupparsi della prassi processuale, sia per effetto di fondamentali elaborazioni dottrinarie5, sia soprat-tutto per le importanti prese di posizione e per gli avalli della Corte costituzionale relativamente a questi approdi.

Fotografare lo “stato dell’arte” del fenomeno su evidenziato è quindi utile per trarre alcune approssimative conclusioni su almeno due interrogativi: se tali manife-stazioni di diffusione siano sostanzialmente sussistenti, nel senso se non appaiano in-vece come meri fenomeni di una sottostante, reale tensione verso forme viceversa di più spiccato accentramento6; se, ammettendo pur che la vocazione alla diffusione sia effettiva, tale piega della giustizia costituzionale sia auspicabile e utile per gli equilibri complessivi del nostro sistema e, più in generale, dell’intero ordinamento, soprattutto in riferimento alla tutela dei diritti fondamentali7.

Sottacendo le articolatissime espressioni cui tale analisi finale darebbe luogo, e che pure ho cercato di accennare più sopra, trovo però essenziale ricostruire, prelimi-narmente alla stessa più approfondita trattazione che mi propongo di svolgere, il per-corso storico che ha portato a configurare prima, e a far evolvere poi, il modello ita-liano di giustizia costituzionale. Percorso che affonda le sue radici in epoche molto risalenti nel tempo, e che si sviluppa pienamente, per quanto qui più da vicino

5 Molti gli autori intervenuti in tal senso. Possiamo qui citare, come esponenti di spicco della prima

letteratura costituzionalista, Piero Calamandrei, Vezio Crisafulli, Leopoldo Elia e Carlo Lavagna. Di particolare rilievo quest’ultimo, cui si deve l’enucleazione del concetto di norma interposta, che tanta parte avrebbe avuto nella maturazione della nostra giustizia costituzionale, anche dal lato dell’accesso al controllo di costituzionalità attraverso il necessario rinvio: cfr. Lavagna C., Problemi di giustizia

costituzionale sotto il profilo della «manifesta fondatezza», Milano, Giuffrè, 1957.

6 Come pure sostenuto da taluno in dottrina. Si veda in particolare AntonioRuggeri, La giustizia

costi-tuzionale italiana tra finzione e realtà, ovverosia tra esibizione della «diffusione» e vocazione all’«ac-centramento», in Rivista di diritto costituzionale, 2007. Su questo punto v. infra, Cap. V, § II, 1.

7 Una considerazione in tal senso, seppure appena abbozzata e riferita principalmente al modello di

giustizia costituzionale spagnolo, e segnatamente al meccanismo di amparo, si trova in Francisco Rubio Llorente, nella sua Relazione introduttiva al fondamentale lavoro su questo argomento svolto dal “Gruppo di Pisa”, Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”, Torino, Giappichelli, 2002.

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VIII

ressa, nel periodo precedente, contestuale e successivo al dibattito in Assemblea Co-stituente circa le fattezze di cui scolpire il volto della giustizia costituzionale della Re-pubblica italiana. Tutto ciò ovviamente per tenere in debito conto quale importanza abbia avuta la pregressa (sopita) tradizione8 nell’elaborazione di un modello da un lato recante decisi caratteri di accentramento, dall’altro bisognoso di un’iniziativa diffusa per correttamente scandire l’accesso all’organo centrale, unico Giudice delle leggi9.

Ma tutto ciò pure per non perdere di vista la necessaria attenzione a come i fenomeni della realtà, e dunque anche gli istituti giuridici (e tanto più le istituzioni pubbliche e costituzionali), si diano nella storia, per meglio comprendere le ragioni di tali fenomeni nella attualità e nella contingenza; perché, mi sia consentito un caro e alto riferimento, è più semplice e produce migliori frutti “andare drieto alla verità effettuale della cosa” seguendo “una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle an-tique”10. E se la mia personale esperienza delle cose moderne in questo settore può sicuramente non dirsi così lunga, il mio tentativo iniziale sarà quantomeno quello di calarmi in essa attraverso una almeno ponderata lezione delle antique.

Da questa (per forza di cose) succinta ricapitolazione del movimento della giusti-zia costituzionale italiana nella storia, prenderò le mosse per illustrare con maggiore compiutezza le tre articolazioni che più tradiscono un effettivo sbilanciamento del no-stro modello verso soluzioni di tipo diffuso, vale a dire di sindacato di costituzionalità delle leggi rimesso, con ovvie deviazioni dal modello puro di diffusione, al giudice comune (e ad ogni giudice comune sul territorio dello Stato), quantomeno per vie di fatto.

Il primo momento che prendo in considerazione è quello dell'interpretazione con-forme a Costituzione. Tenterò di immettermi in questo specifico ambito proprio a par-tire dall’evoluzione storica della giurisprudenza costituzionale, diluendo le tappe fon-damentali del suo percorso nella precisa analisi di questo problema. È infatti noto come la Corte costituzionale sia arrivata per gradi alla valorizzazione della magistratura, progressivamente legittimandola a maneggiare la Carta fondamentale, prima con

8 Peraltro provvisoriamente confermata nel primo decennio repubblicano per il disposto della VII disp.

trans. fin. Cost., in attesa dell’emanazione di una compiuta disciplina della giustizia costituzionale (in-tervenuta progressivamente, prima con l.cost. 1/1948, poi, più compiutamente, con l. cost. 1/1953 e l. 87/1953) e, tendenzialmente, fino all’effettivo avvio dei lavori della Corte costituzionale, nel 1956.

9 Sottaccio qui, anche per ragioni oggettivamente storiche, l’altra grande arteria di accesso alla Corte,

la via d’azione, nonché le ulteriori competenze della Consulta.

10 Cfr. Niccolò Machiavelli, Il principe, Dedica, Nicolaus Maclavellus ad Magnificum Laurentium

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IX

estrema delicatezza, poi con maggiore decisione e in termini molto più perfezionati. Già dalla sua prima storica decisione11, la Consulta si sbarazza dell’idea di una netta

divisione di sfere di competenza, riassunta dalla formula “ai giudici la legge, alla Corte costituzionale la Costituzione”12. È invece un dialogo istituzionale quello che la Corte intende intrattenere fin da subito con la magistratura e, via via che questa assume una maggiore sensibilità ai valori costituzionali, gli spazi entro cui il giudice a quo viene legittimato a intervenire, in senso appunto costituzionale, si accrescono notevol-mente. Questo dialogo tra Corte e giudici, limitatamente al profilo dell’interpretazione conforme, si svilupperà infatti in almeno tre grandi stagioni13.

In una prima fase (1956-1965), la Corte, soprattutto attraverso l’elaborazione delle decisioni interpretative di rigetto14, invita la magistratura a servirsi della Costituzione come norma giuridica, in funzione, come è stato osservato, quasi pedagogica, diretta cioè alla sensibilizzazione costituzionale.

Nella successiva stagione (1965-metà degli anni ’90), la magistratura sembra aver oramai acquisito quel sentimento, quella coscienza costituzionali, se è vero che questo secondo grande periodo viene inaugurato proprio da chi, della magistratura, è in qual-che modo voce. Fu una nota mozione dell’Associazione nazionale magistrati15 a

di-chiarare esplicitamente che rientra a pieno titolo tra le attribuzioni dei giudici comuni anche il potere di utilizzare la Carta fondamentale come materiale normativo, e cioè di interpretare la legge in senso conforme a Costituzione, da un lato, e di dare diretta applicazione alle sue norme, ove possibile, dall’altro. Come affermato da Lamarque16,

la “fabbrica delle interpretazioni conformi” cessa di essere appannaggio pressoché esclusivo della Consulta, per estendersi dapprima ai giudici di merito, poi alle giuri-sdizioni superiori, ordinarie e amministrative. Se con l’effettivo funzionamento della

11 Corte cost., sent. 14.06.1956, n. 1, autorevole precedente capace di superare in via definitiva la

con-cezione meramente programmatica della gran parte delle norme contenute in Costituzione, aprendo così la strada alla possibilità di applicazione diretta della Carta da parte dei giudici comuni.

12 Cfr. Mezzanotte C., La Corte costituzionale: esperienze e prospettive, in Attualità e attuazione della

Costituzione, Bari, 1979, p. 160.

13 Uno spunto, questo, rintracciabile anzitutto negli studi compiuti da Elisabetta Lamarque.

14 Si tratta infatti di una categoria di decisioni non prevista legislativamente, ma elaborata in via

giuri-sprudenziale dalla stessa Corte per sfuggire all’aut aut, positivamente impostole nel merito (l. 87/1953), tra rigettare o accogliere la questione di costituzionalità. Peraltro le decisioni interpretative di rigetto sono la più antica espressione di questa volontà creatrice della Corte, risalendo agli albori del suo fun-zionamento.

15 Approvata nel corso di un movimentato congresso dell’Anm svoltosi a Gardone tra il 25 e il 28

set-tembre 1965.

16 V. Lamarque E., La fabbrica delle interpretazioni conformi a Costituzione tra Corte costituzionale e

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X

Corte la Costituzione si è mossa17, adesso la Costituzione comincia a vivere nelle aule

di tribunale, vale a dire laddove essa è più prossima a toccare la viva carne dei cittadini. In questo arco di tempo, la Corte rivede e affina le modalità di utilizzo delle sen-tenze interpretative di rigetto, legandone i destini all’elaborazione della teoria del di-ritto vivente18. La Consulta, in sostanza, propone proprie interpretazioni conformi a Costituzione (evidentemente delle leggi che sono indirizzate al suo controllo) sola-mente quando non si è già formato un diritto vivente incostituzionale. Emettendo sen-tenze interpretative di rigetto, la Corte va a censurare l’interpretazione del giudice a quo discostatasi da un affermato diritto vivente costituzionalmente conforme, oppure offre la propria interpretazione quando, sulla legge sottoposta alla sua attenzione, an-cora nessun diritto vivente si sia formato. In presenza di un diritto vivente incostitu-zionale, invece, la Corte procede senz’altro all’accoglimento della questione di costi-tuzionalità.

Secondo autorevole dottrina, la teoria del diritto vivente viene in qualche modo superata con la nuova valorizzazione del concetto di interpretazione conforme a Co-stituzione. L’indirizzo giurisprudenziale che animerà la Corte nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, infatti, apre quella che può chiamarsi terza stagione della giustizia costituzionale (la attuale, se si ha riguardo alla parabola dell’interpretazione con-forme), la quale segnerà una piccola rivoluzione all’interno di questa materia. Ne ri-sulteranno interessati svariati profili che modificheranno sensibilmente il modo di pro-cedere della Corte19, ma anche e soprattutto quello del giudice a quo, che, tra i requisiti necessari per adire la Consulta attraverso l’ordinanza di rinvio, vedrà ora emergere,

17 È questa una celebre massima di Piero Calamandrei, affidata alle pagine de La Stampa il 6 giugno

1956, il giorno dopo la prima decisione della Corte costituzionale, e ispiratrice dell’ultimo periodo della sua attività di studioso.

18 Col sintagma “diritto vivente” si indica sostanzialmente “la communis opinio maturata nella

giuri-sprudenza e nella dottrina in ordine al significato normativo da attribuire ad una determinata disposi-zione”. Così Luigi Salvato, Profili del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale, in www.cor-tecostituzionale.it, 2015; l’autore ha cura di specificare come «la verbalizzazione del formante

giuri-sprudenziale nella dottrina del diritto vivente» nel nostro Paese è conseguita proprio «alla riflessione condotta dalla Corte costituzionale che con la propria giurisprudenza ha riconosciuto espressamente il suo valore», così riportando la voce “diritto vivente”, a cura di M. Cavino, in Digesto pubbl., 2010.

19 Mi riferisco principalmente al fenomeno delle sentenze interpretative (sia di rigetto, sia di

accogli-mento), divenuto certamente recessivo, anche se non del tutto scomparso, come pure era stato teorizzato in considerazione del nuovo, decisivo peso assunto dall’interpretazione conforme nel giudizio a quo. D’altra parte, anche ove utilizzato, questo tipo di decisione conosce un radicale mutamento genetico o, secondo le parole di Pugiotto, una vera e propria metamorfosi, venendo le interpretative di rigetto uti-lizzate in forme inedite, come contrasto a orientamenti interpretativi ritenuti dissonanti con la Carta, o per favorire la circolazione di nuove interpretazioni conformi, dalla Corte elaborate, precedentemente inesistenti, spesso creative o addirittura foriere di stonature rispetto al testo originale. V. Pugiotto A.,

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XI

accanto alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza, l’obbligo di procedere a in-terpretare la legge conformemente a Costituzione. Un obbligo a ben vedere non per-fettamente collimante e coerente con il requisito della non manifesta infondatezza, dal momento che l’interpretazione conforme, per come intesa dalla giurisprudenza costi-tuzionale, sembrerebbe reagire su di esso, trasformando il mero dubbio sulla incosti-tuzionalità di una legge in una sostanziale certezza di illegittimità costituzionale. In-fatti, come precisato dalla Corte in una celebre sentenza20, “in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne inter-pretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossi-bile darne interpretazioni costituzionali”. Come si comprende agilmente, si è di fronte a un cambiamento di prospettiva radicale. Tanto che, appunto, l’interpretazione con-forme assurge, dal 1996, a vero e proprio presupposto per la formulazione dell’ordi-nanza di rimessione, e anzi a presupposto principe, in qualche modo il controllo di conformità dovendo precedere (se non altro da un punto di vista logico, ma anche, evidentemente, processuale e procedimentale) la valutazione del giudice circa la rile-vanza e la non manifesta infondatezza. Tanto più che la Corte, qualora intraveda una possibile interpretazione compatibile con la Carta fondamentale trascurata dal giudice del rinvio, provvederà con ordinanza di inammissibilità, rigettando di fatto la questione di costituzionalità in rito. E proprio questo è il nodo fondamentale su cui si appunta il primo vistoso cedimento verso formule di sindacato diffuso: la Corte stessa richiede al giudice comune, sottolineando tale richiesta con una pronuncia di inammissibilità, di procedere a interpretazione conforme prima di sollevare la questione presso di sé, e, preferibilmente, in luogo della Giudice delle leggi. Un vincolo questo che Lamarque definisce “ineludibile” per il giudice comune, e che attribuisce al nostro sistema una connotazione spiccatamente diffusa nel momento stesso in cui, possibili plurime inter-pretazioni di una disposizione, il giudice provvede in sostanza a caducarne alcune e affermarne altre21. Ciò che, dal punto di vista della filosofia del diritto, che distingue

20 Corte cost., sent. 22.10.1996, n. 356. Su tale fondamentale pronuncia v. in particolare infra, Cap. I, §

IV, 2.

21 Evidentemente mi riferisco a fenomeni interpretativi di più ampia portata che non la singola vicenda

processuale, magari avallati da costante e univoca giurisprudenza di legittimità. In effetti, l’afferma-zione di un indirizzo tanto consolidato in giurisprudenza da non venire, nei fatti, neppure scalfito da sporadiche pronunce può avere il risultato sostanziale (anche se non formale o effettivo, potendo, al-meno teoricamente, un’interpretazione caduta in disuso ritornare ad affacciarsi tra gli operatori) di espungere una o più norme dall’ordinamento; ciò che è visibilmente diverso da una mera scelta in uno o più casi pratici, anche non isolati, la quale neppure nei fatti opera una eliminazione (ma, semmai e eventualmente, una disomogeneità nell’applicazione del diritto). Si confronti sul punto, ad esempio,

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XII

tra disposizioni e norme22, significa in definitiva espungere una o più norme

dall’ordi-namento, senza che la Consulta abbia a pronunciarsi su ciò. Anzi, con la precisa indi-cazione della Consulta a procedere in tal senso, pena l’inammissibilità della questione.

Lo studio della radicalizzazione dell’interpretazione conforme arriva così a inve-stire il ruolo del giudice comune nel sistema di giustizia costituzionale e a cogliere come questo ruolo ne risalti inevitabilmente le sfumature non tanto di iniziativa dif-fusa, ma proprio di diffusione interne al modello misto italiano. E, si badi, è questo un elemento, per così dire, invisibile, una spinta alla diffusione che avviene sistematica-mente ma impercettibilsistematica-mente (e, è appena il caso di notarlo, in modo giocoforza non uniforme, se non per i movimenti di resistenza dovuti ai meccanismi nomofilattici) su tutto il territorio nazionale. Infatti, qualora il giudice a quo non eserciti correttamente il proprio potere di interpretazione conforme, la Consulta arriverà a censurare questa manchevolezza con un’ordinanza di inammissibilità; nel caso non esista un’interpre-tazione conforme possibile, la Consulta potrebbe a quel punto agire con una decisione interpretativa di rigetto assolutamente creativa (e forse esorbitante le proprie compe-tenze?), oppure semplicemente dichiarare incostituzionale la legge sottoposta al suo giudizio; ma nel caso in cui esista un’interpretazione conforme a fronte di interpreta-zioni (ritenute dal singolo giudice) non conformi, o nel caso in cui esistano più inter-pretazioni conformi, la scelta dell’una a sfavore delle altre determinerà di fatto la si-lente disapplicazione (o non applicazione) di queste ultime. Il che è tipico del modello diffuso di controllo di costituzionalità.

A questi aspetti, che costituiscono un dato di fatto, si accompagnano anche alcuni rilievi critici e interrogativi di varia natura, approssimativamente e in ultima analisi riconducibili all’esigenza di preservare il più possibile il principio di certezza del di-ritto. Nel corso della trattazione proverò a prendere posizione su queste inevitabili con-seguenze della valorizzazione del ruolo del giudice comune.

Lorenza Carlassare, Le «questioni inammissibili» e la loro riproposizione, in Giurisprudenza

costitu-zionale, 1984, 757 ss., la quale sostiene che “le norme, disapplicabili ma non eliminate, resterebbero lì, pronte per chiunque intendesse farne applicazione”; descrizione del fenomeno condivisibilissima in

ogni caso, ma specialmente nel secondo qui accennato.

22 Sul punto ritornerò nella sede opportuna più diffusamente (cfr. infra, Cap. II, § II, 4). Sulla distinzione

tra disposizioni e norme si veda, tra gli innumerevoli contributi, l’opera di Riccardo Guastini (cito qui, in particolare, Interpretare e argomentare, Milano, Giuffrè, 2011).

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XIII

Il secondo grande momento della giustizia costituzionale che pone interrogativi su quale sia la parte verso cui insiste di più il pendolo, nella sua oscillazione tra diffu-sione e accentramento, è rappresentato dall’applicazione del diritto dell’Unione Euro-pea nei procedimenti anzi il giudice comune nazionale.

Anche in questo caso la storia è testis temporum, lux veritas, […] magistra vitae23, poiché il fenomeno della disapplicazione (o non applicazione) del diritto interno con-trastante con il diritto dell’Unione Europea deve essere compreso attraverso la rico-struzione delle tappe (perlopiù giurisprudenziali) che vi hanno condotto, e che vedono coinvolte, come assoluti protagonisti, la Corte costituzionale italiana e la Corte di Giu-stizia dell’Unione Europea. È il c.d. “cammino comunitario”.

Velocemente riportandone in questa sede qualche minimo cenno, il fenomeno in questione si risolve nell’elaborazione, da parte della Corte di Lussemburgo, della tesi monista, foriera dell’affermazione del primato del diritto comunitario, cui la Corte co-stituzionale, inizialmente contrapponendole un’opposta tesi dualista, alla fine di un travagliato percorso, sostanzialmente, si uniforma24. Infatti, dopo aver affermato in prima battuta l’applicabilità, anche con riferimento ai rapporti tra fonte interna e fonte comunitaria, del principio di successione temporale come criterio risolutivo delle an-tinomie25, la nostra Corte cambia progressivamente giurisprudenza accettando (prima

timidamente26, poi con decisione27) il principio del primato. Si configura quindi un

meccanismo che rimette ai giudici comuni la disapplicazione (rectius, non applica-zione28) della disposizione interna incompatibile. Come sostenuto da molti in dot-trina29, in questo modo si finisce per cedere un bel po’ a un sistema di tipo diffuso.

23 Già molto prima di Machiavelli, la classicità, qui nel particolare stoicismo di Cicerone, se n’era

av-veduta: cfr. Cicerone, De Oratore, II, 9, 36.

24 Sono questi tutti aspetti su cui tornerò molto più ampiamente nelle sedi opportune: cfr. infra, Cap. III,

in generale § I.

25 Corte cost., sent. 07.03.1964, n. 14, che solleciterà la risposta della Corte di Lussemburgo (contenuta

nella celebre sent. Costa c. Enel) in cui sarà quindi affermato il principio del primato: CGCE, 15.07.1964, causa C- 6/64, Costa.

26 Corte cost., sent. 30.10.1975, n. 232.

27 Corte cost., sent. 08.06.1984, n. 170, Granital.

28 La differenza si basa, in buona sostanza, sulla considerazione per cui la fonte “non applicata”, a

differenza di quella disapplicata, non è in alcun modo incisa da vizi, ed è, diciamo, posta in stato di quiescenza (non proprio espunta dall’ordinamento) unicamente in virtù del principio del primato.

29 Qui cito, in particolare, Romboli R., Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle

fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in Associazione per gli studi e le ricerche parla-mentari, Quaderno n. 16, a cura di Paolo Carretti e Massimo Morisi, Torino, Giappichelli, 2006, che

sostiene: “[…] Attraverso la possibilità di disapplicazione della fonte nazionale, in quanto contrastante

con il diritto comunitario, il giudice comune viene così ad esercitare una sorta di controllo diffuso di “comunitarietà” nei confronti della legge nazionale […]”.

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XIV

Il discorso si fa comunque assai più complesso ove si consideri la diversità che contraddistingue le varie fonti del diritto dell’Unione Europea, involgendo così i rap-porti tra Corti, tra Carte, tra giudici comuni e Corti, e ridisegnando per questa via i ruoli delle giurisprudenze di merito e di legittimità, costituzionale e eurounitaria; quindi, in ultima analisi, offrendo numerosi spunti per ritrarre una situazione della giu-stizia costituzionale sensibilmente modificata rispetto a quella originariamente dise-gnata dalla Costituzione e configurata dalla prima attività della Consulta, e cioè il mo-dello accentrato a iniziativa diffusa. Un lavoro reso non certo più semplice (e tuttavia più affascinante) dall’intrecciarsi di due diverse questioni: i rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione, specie quello non direttamente applicabile, da un lato, e la ne-cessità di operare, dall’altro, un’interpretazione conforme, stavolta, al diritto UE da parte della magistratura (ciò che solleva anche articolate implicazioni in ordine al rin-vio pregiudiziale). Un’esegesi, questa, che poi, per un intricato gioco di rimandi, si risolve in definitiva in un’interpretazione conforme a Costituzione30.

Un terzo ambito che evidenzia le spinte del nostro sistema verso la diffusione (ma pure le correzioni di tiro offerte dalla Corte), è rintracciabile nella vexata quaestio sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fonda-mentali. Un problema, questo, assai tormentato e del resto ancora in divenire, che sca-turisce dalla stessa configurazione della Cedu all’interno del sistema delle fonti dell’ordinamento italiano. Ma pure dell’Unione Europea, data la dichiarata volontà di adesione alla Convenzione da parte dell’UE come tale (dichiarata ma, ad oggi, non ancora realizzata, e probabilmente non prossima), ciò che forse potrebbe portare il di-battito su questa spinosa questione a soluzioni inaspettate e risolutrici. Riservando alla sede più opportuna il completo sviluppo di tanto basilari spunti, è utile qui ripercorrere i momenti più essenziali dei difficili rapporti, anche in questo caso, tra Corti e tra Carte. La Convenzione europea, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore in Italia come legge ordinaria cinque anni più tardi, è rimasta a lungo una Carta, dal punto di vista processuale interno, poco meno che quiescente, per acquisire invece un’enorme importanza solo dopo circa cinquant’anni. Il sistema messo in piedi dalla Convenzione era ed è, in sé, molto lineare: essa ha istituito una Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, con il compito di interpretare un numero limitato di

30 Il riferimento è, in particolare, all’art. 11 Cost. È un altro aspetto di quello che può essere anche

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XV

documenti (la stessa Convenzione e i successivi Protocolli) e, ancor prima, di assicu-rarne il rispetto da parte degli Stati membri. Questa portata relativamente limitata dell’ordinamento costruito dalla Cedu permette di capire anche per quale motivo la Corte di Strasburgo non si sia occupata direttamente della questione della collocazione della Convenzione nel sistema delle fonti interne. Un aspetto in effetti marginale dalla prospettiva di Strasburgo, ma assolutamente non banale nell’ottica degli Stati. Per quanto riguarda l’Italia, è stata una legge ordinaria31 a dare esecuzione alla Cedu32, che

è andata dunque a collocarsi, nella gerarchia delle fonti interne, sullo stesso piano della legge che l’ha recepita, assumendo pertanto la collocazione di fonte primaria, nono-stante il suo contenuto “materialmente costituzionale”33. E, nonostante gli sforzi di

rintracciare una copertura costituzionale34, la Cedu, allo stato, rimane, nell’ordina-mento italiano, una fonte primaria. Un primo monell’ordina-mento cruciale nell’evoluzione dell’assetto originario è rappresentato dall’entrata in vigore del Protocollo 11, nel 1998, che istituisce una Corte unica permanente direttamente accessibile ai cittadini che ritengano i propri diritti fondamentali violati da una pubblica autorità interna. Ac-cresciuto il peso della giurisprudenza di Strasburgo, dal punto di vista dell’ordina-mento italiano, il passo successivo è stata la riforma costituzionale intervenuta con l. cost. 3/2001, che riscrive l’art. 117 Cost. Il primo comma di tale articolo attualmente recita: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obbli-ghi internazionali”. Quest’ultimo inciso ha consentito di superare lo stretto e proba-bilmente inappropriato riferimento all’art. 11 Cost., permettendo di inquadrare final-mente la Cedu almeno come norma interposta da poter utilizzare nel giudizio di

31 È la l. 4 agosto 1955, n. 848.

32 Formalmente, occorre ricordarlo, un Trattato, quindi una fonte internazionale pattizia.

33 Così Malfatti E., Panizza S., Romboli R., Giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 2013, p. 366. 34 Spesso facendo leva sull’art. 2 Cost., in ragione del fatto che il testo della Cedu si compone di norme

che sanciscono e si propongono di tutelare i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo. Non sono man-cati tentativi di inquadrare la Cedu a partire dagli art. 10 e 11 Cost., anche se queste ricostruzioni non avuto la forza di imporsi, spesso smentite dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Più particolare, e limitato ai profili del diritto di difesa e dell’equo processo (prima della riforma dell’art. 111 ad opera della l. cost. 2/1999), è stato il richiamo all’art. 24 Cost. Il problema della copertura costituzionale re-sterà comunque aperto e irrisolto fino alle sentenze gemelle del 2007, come subito si dirà.

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XVI

tuzionalità. Questa è stata, da ultimo, la posizione della stessa Consulta che, inaugu-rando un periodo di svolte giurisprudenziali35, ebbe a pronunciare le celeberrime

sen-tenze gemelle nel 200736.

Dopo aver ribadito la sostanziale diversità della Cedu rispetto alle norme comu-nitarie e aver confermato la sua precedente giurisprudenza circa l’impossibilità di prendere in considerazione l’art. 11 Cost., dal momento che con la Cedu gli Stati mem-bri, e tra questi l’Italia, non hanno consentito ad “alcuna limitazione della sovranità nazionale”37, e aver precisato come lo stesso legislatore della riforma, introducendo l’art. 117, comma 1, Cost., abbia “confermato il precitato orientamento giurispruden-ziale”38, la Corte costituzionale si riferisce proprio all’art. 117, comma 1, Cost., fon-dando su di esso la propria competenza a decidere sui contrasti tra legge ordinaria e Convenzione europea. Dice la Corte: “se da una parte [l’art. 117, comma 1] rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme [della Convenzione] rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale”. Una presa di posizione fondamentale circa la possibilità di inquadrare la parametricità della Cedu, utilizzando la stessa come norma interposta, vale a dire norma “di rango sub-costituzionale, desti-nat[a] a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere”. A tutto ciò la Corte fa se-guire l’importante corollario dell’impossibilità, per il giudice comune, di disapplicare la legge ordinaria ritenuta contrastante con una norma della Convenzione, in quanto appunto “l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legit-timità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”.

35 Mi riferisco alla stagione coincidente con la fine del decennio passato, caratterizzata da un vero e

proprio salto di qualità nella giurisprudenza costituzionale: non soltanto la Corte si pronuncia sulla col-locazione della Cedu nel sistema delle fonti, e di conseguenza sui nuovi rapporti che questa configura-zione comporta tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corte di Strasburgo, ma, come avrò occasione di dire trattando del diritto dell’Unione Europea, anche in questo ambito la Consulta prende delle deci-sioni epocali, smarcandosi dal pericoloso isolamento rispetto alla Corte di Giustizia in cui si era chiusa in precedenza e fissando dei punti decisivi in ordine a temi molto sensibili in materia, primo su tutti la questione del rinvio pregiudiziale

36 Corte cost., sentt. 24.10.2007, nn. 348 e 349.

37 Così già Corte cost., sent. 22.12.1980, n. 188, ripresa dalla sent. 348/2007. 38 Corte cost., sent. 24.10.2007, n. 348.

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XVII

Rimandando suo loco la più meticolosa disamina dei molti fondamentali aspetti toccati dalle sentenze gemelle, quello che qui preme sottolineare è che la Corte si ap-pella a Strasburgo quale organo competente a interpretare le norme della Convenzione, mentre esclude seccamente che il giudice comune nazionale possa esercitare un potere di disapplicazione della norma interna contrastante analogo a quello di cui è investito con riguardo al diritto dell’Unione Europea. Invece, anche in successive pronunce39,

la Corte attribuisce al giudice comune il potere (in quanto anche “giudice comune della Convenzione”) di “procedere ad una interpretazione […] conforme a quella conven-zionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avva-lendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica”, rispettando peraltro la consolidata interpretazione della Convenzione offerta dalla giurisprudenza di Stra-sburgo. Qualora il contrasto non sia componibile in via interpretativa, al giudice co-mune non resterà che sollevare la questione di costituzionalità. Spetterà quindi alla Consulta assumere tutte le decisioni del caso, sottolineando però l’impossibilità di “sindacare l’interpretazione […] fornita [da] Strasburgo”.

Interessante ai fini del presente studio è peraltro notare come il quadro così deli-neato dalle sentenze gemelle e dalle successive pronunce della Consulta sia tutt’altro che stabile, e comunque decisamente in fieri. Vorrei in questa sede dare conto del fatto che tale giurisprudenza non sempre ha visto allinearvisi il giudice comune, che talvolta ha tentato di smarcarsi dall’impostazione seguita dalla Corte, soprattutto in ordine all’impossibilità di disapplicare (o non applicare) la norma interna confliggente. Tra i vari episodi, certamente merita una particolare considerazione una pronuncia del Con-siglio di Stato40 che, sul presupposto di dover fare applicazione dei principi di effetti-vità della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. e artt. 6 e 13 Cedu, “divenuti diretta-mente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell'art. 6 del Trat-tato41, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009”, onde evitare la violazione della Cedu, la applicava direttamente. Di poco successiva, invece, una pronuncia del Tar del Lazio42, sullo stesso presupposto dell’adesione dell’Unione

39 V. ad esempio Corte cost., sent. 26.11.2009, n. 311. 40 Cons. St., IV sez., 02.03.2010, n. 1220.

41 Le cui due affermazioni più fondamentali sono ora la disposizione in virtù della quale la Carta di

Nizza ha “lo stesso valore giuridico dei trattati” e quella per cui “l'Unione aderisce alla Convenzione

europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”.

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XVIII

alla Cedu, arrivava addirittura ad affermare l’obbligo, per il giudice nazionale, in ade-renza a quanto avviene per il diritto comunitario, di disapplicare la norma interna con-trastante. La risposta della Consulta non si è fatta attendere43. La Corte ha ribadito in quella occasione, dopo aver fissato alcuni punti fondamentali su cui avrò modo di tor-nare più diffusamente, la piena validità dei principi contenuti nelle sentenze gemelle, escludendo categoricamente la possibilità, per il giudice comune, di non applicare le norme interne confliggenti con la Cedu. Ma anche dopo questo arresto, nonostante la magistratura paia essersi alfine allineata all’indirizzo del Giudice delle leggi, pure in considerazione di prese di posizione esogene al sistema44, rimane comunque il dato testuale del nuovo art. 6 TUE, che potrebbe aprire la porta a nuovi sviluppi circa la possibilità di una non applicazione della legge interna da parte della giurisprudenza comune. Si tratta dunque di una questione non ancora chiusa, che è stata finora capace di generare contrasti che, andando ben oltre i confini nazionali, si sono dimostrati tali da coinvolgere, oltre che naturalmente la Corte di Strasburgo, perfino la Corte di Giu-stizia europea, e la cui soluzione appare comunque rimessa soprattutto a future scelte politiche. Riservandomi di sviluppare meglio nel corso della trattazione questi aspetti, mi preme qui sottolineare come anche il descritto braccio di ferro tra giudici comuni e Corte costituzionale possa testimoniare un’evoluzione dei rapporti tra questi soggetti in grado di sfociare nella scrittura di un altro importante capitolo sulla conquista di ulteriori spazi a vantaggio della diffusione nel nostro sistema di giustizia costituzio-nale. E del resto, essi già parrebbero imporsi nella necessità, affermata dalla stessa Corte costituzionale, di una interpretazione conforme alla Convenzione europea, tema estremamente delicato, che coinvolge un dialogo tra magistratura, Giudice delle leggi e Corte di Strasburgo45. Potrebbero poi spingersi più in là, per adesso animando un contrasto che sembra comunque veder prevalere la posizione espressa dalle sentenze gemelle (la quale, come detto, almeno su questo versante, appare indirizzata verso l’accentramento alla Corte delle questioni di legittimità costituzionale sorte per con-trasto con norme della Cedu); ma in futuro, qualora si addivenisse alla effettiva ade-sione dell’UE alla Convenzione, potrebbe non essere esclusa una nuova articolazione

43 Corte cost., sent. 11.03.2011, n. 80.

44 La stessa Corte di giustizia dell’Unione Europea, sollecitata su questo punto, ha recentemente

formu-lato una propria interpretazione chiarificatrice (o almeno al momento appagante) in ordine a tale pro-blema: cfr. CGUE (grande sezione), 24.04.2012, causa C-571/10, Kamberaj, e v. infra, Cap. IV, § II, 2.

45 Vedi in proposito anche la recente sent. 49/2015 della Corte costituzionale, cui si dedicherà ampio

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XIX

dei rapporti tra Cedu, diritto eurounitario e Costituzione capace di condurre ad approdi non lontani dalla non applicazione del diritto interno ad opera dei singoli giudici.

Concludendo, attraverso l’approfondimento di questi tre grandi filoni qui abboz-zati, trovo interessante provare a tirare le fila sullo stato del nostro modello di giustizia costituzionale, come ho provato ad accennare più su, in apertura a questa introduzione.

Credo che il punto focale non sia tanto provare a vaticinare se e quando la nostra giustizia costituzionale prenderà (o abbia già preso) una piega decisamente indirizzata alla diffusione, e se questa sarà in grado di sopravanzare tanto l’accentramento da mo-dificare così in radice il volto del sindacato di legittimità costituzionale da determinare la necessità di creare nuovi equilibri, anche positivi. Penso piuttosto che occorra inter-rogarsi su come inquadrare lo stato attuale della nostra giustizia costituzionale, e pro-prio per questo è necessario procedere a una ricognizione dei momenti principali di cedimento verso formule di sindacato diffuso, dal momento che essi ci offrono spunti decisivi per riflettere sulle trasformazioni subite dal nostro modello o, comunque, sulla sua capacità di adattarsi, sfruttando la propria originaria natura ibrida, alle potenziali evoluzioni della realtà giuridica. E penso altresì che la risposta a tutto ciò debba essere cercata in un principio di leale collaborazione tra i vari soggetti che, appunto allo stato attuale della giustizia costituzionale, sono obiettivamente i protagonisti della stessa, cercando di sforzarci di non ragionare secondo classificazioni che, come del resto già sostenuto da molti in dottrina, appaiono sterili nella loro approssimazione.

Appare innegabile che la magistratura abbia acquisito oramai un ruolo centrale nel giudizio sulle leggi; ma altrettanto innegabile (e direi oggettivamente essenziale) è il ruolo della Corte costituzionale, nonché dei vari soggetti in ambito sovra- e interna-zionale (appunto le Corti di Lussemburgo e Strasburgo), nella definizione di cosa è e cosa non è costituzionalmente (e dipoi comunitariamente; convenzionalmente) legit-timo. In questo senso, le recenti aperture al dialogo con le Corti europee non possono che giovare incredibilmente al sistema, specie nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali cui, in definitiva, il controllo di costituzionalità è diretto, essendo la Co-stituzione (e in generale essendo una Carta) pensata per, direi, far uscire l’uomo dallo stato di minorità anche da un punto di vista giuridico, nelle molteplici manifestazioni che quel vivere giuridico comporta per le aspirazioni materiali e spirituali dell’indivi-duo (meglio, del cittadino), politiche, economiche, sociali, lavorative, culturali, rela-zionali, emotive che siano.

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XX

Costruire un circuito sempre più saldo di rapporti – di dialogo – tra Corti, e dipoi tra Corti e giudici comuni, è pertanto l’ottica entro la quale ragionare per capire quale modello di giustizia costituzionale stiamo vivendo, al di là della sfumatura diffusa (se così la si vuol chiamare) di cui questo pare colorarsi. Quindi provare a descriverlo.

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1

CAPITOLO I

DEL MODELLO MISTO DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE NEI

PRIMI QUARANT’ANNI DI FUNZIONAMENTO DELLA CORTE

Sommario: I- Il dibattito in Assemblea Costituente – 1. I modelli “puri” di giustizia

costitu-zionale – 2. Contezza della materia e velo dell’ignoranza in Assemblea Costituente – 3. Il compromesso sul controllo di costituzionalità e il modello misto – II- La fase transitoria e i primi anni di funzionamento della Corte – 1. La VII disposizione transitoria e finale della Costituzione – 2. L’avvio dei lavori della Consulta: la sent. 1/1956 – 3. L’iniziale opera di “sensibilizzazione” della magistratura – III- La giurisprudenza costituzionale dalla «prima guerra tra le Corti» alla valorizzazione del diritto vivente – 1. L’interpretazione della Corte come precedente autorevole – 2. La dottrina del diritto vivente come pima valorizzazione del ruolo della giurisprudenza comune – IV- Diritto mite e interpretazione conforme: la sentenza 356/1996 – 1. Alcuni spunti filosofico-dottrinari per inquadrare il canone dell’interpretazione conforme – 2. Una nuova definizione di incostituzionalità – 3. Riassetto dei rapporti tra giuri-sprudenza comune e giurigiuri-sprudenza costituzionale all’indomani della sent. 356/1996

I-

Il dibattito in Assemblea Costituente

1. I modelli “puri” di giustizia costituzionale

Nel condurre uno studio intorno agli elementi di diffusione presenti nel nostro sistema di giustizia costituzionale, e intorno ai modi in cui questi vengano dipoi a va-lorizzarsi, senz’altro occorre muovere i passi dalla raffigurazione del modello pre-scelto dal Costituente e andato via via disegnandosi nell’evoluzione storica degli or-gani al suo interno istituiti.

Seguendo questa lunga lezione delle cose antique, trovo utile inquadrare rapida-mente il nostro modello alla luce delle pregresse esperienze relative al controllo di costituzionalità delle leggi. Tale veloce ricapitolazione è senza dubbio opportuna per comprendere i motivi che hanno spinto l’Assemblea Costituente a forgiare un modello misto di giustizia costituzionale, piattaforma di partenza necessaria per l’innesto di qualsivoglia ricostruzione circa la tensione dello stesso verso soluzioni di sindacato diffuso.

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2

Come è noto, il nostro modello viene definito misto1 in contrapposizione ai due

modelli puri, diffuso e accentrato, storicamente configuratisi attraverso il XIX e il XX secolo, alla foce di un lungo percorso che rintracciava le sue sorgenti già in tempi più antichi2.

Ora, ritengo possa essere corretto sostenere che le diverse configurazioni di giu-stizia costituzionale, e ancor prima il concetto stesso di giugiu-stizia costituzionale, ger-minino e si sviluppino a partire da due elementi fondamentali: la scrittura di Costitu-zioni nell’accezione contemporanea del termine e la formulazione di indirizzi e teorie generali sul ruolo delle Carte fondamentali nel sistema delle fonti.

I due episodi centrali che segneranno la nascita della giustizia costituzionale sono così da rintracciare nei momenti che seguirono l’elaborazione delle Costituzioni statu-nitense e francesi, a loro volta scaturite dalle rispettive rivoluzioni. Il contributo dei teorici alla determinazione della funzione di tali Carte nell’ordinamento fu assoluta-mente decisivo per la nascita di una (e, anzi, di più d’una) giustizia costituzionale.

Nei neonati Stati Uniti d’America sono le elaborazioni di Alexander Hamilton a plasmare il ruolo della Costituzione ancora da ratificare: Hamilton sostiene sui Fede-ralist papers3 che l’eventuale contrasto tra le leggi prodotte dagli organi

costituzional-mente investiti della funzione legislativa e la Costituzione che così li investe dovrà essere risolto nel senso della prevalenza della seconda sulle prime, una prevalenza che sarà un preciso potere costituzionale a valutare e, se del caso, affermare. Questo potere viene rintracciato nel sistema giudiziario, il quale solo, venendosi a disegnare come autonomo e indipendente rispetto ai poteri politici, possiede la forza necessaria per

1 Come del resto la maggior parte dei modelli europei contemporanei, ciascuno con le proprie peculiari

caratteristiche, legate alla tradizione storica, politica e giuridica del singolo Stato, ma riconducibili a unità per le loro più o meno marcate ibridazioni rispetto ai modelli c.d. “puri”. Cfr., tra gli altri, Malfatti E., Panizza S., Romboli R., Giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 2013; Pizzorusso A.,

Giusti-zia costituzionale (diritto comparato), in Enciclopedia del diritto, Annali, 1, Milano, Giuffrè, 2007, ad vocem; Volpe G., L’ingiustizia delle leggi. Studi sui modelli di giustizia costituzionale, op. cit.

2 Le prime manifestazioni di un sentire costituzionale, nel senso di un suo pieno inserimento tra le fonti

del diritto e anzi di una superiorità della Legge fondamentale, una volta elaborata questa nozione in senso moderno, si registrano già in precedenti storici fondamentali del XVII secolo, sul continente dopo la pace di Vestfalia, in Inghilterra già a partire dal c.d. dr. Bonham’s case, risolto nel 1610 dal chief

justice Edward Coke, che affermò: “[…] quando un atto del Parlamento è contrario al diritto e alla ragione comune, o ripugnante, o di impossibile attuazione, la common law lo controllerà, e lo giudi-cherà nullo e privo di efficacia.” La traduzione dall’originale inglese è tratta da Ancarani G., Dal costi-tuzionalismo alle costituzioni – Fonti, Milano Vita e pensiero, 1994, p. 111. Sul tema cfr., tra gli altri,

Cappelletti M., Il controllo di costituzionalità delle leggi nel diritto comparato, Milano, Giuffrè, 1978.

3 È il celebre articolo 78, del 1788, rintracciabile in Hamilton A., Jay J., Madison J., Il Federalista, a

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3

sottomettere la legge alla Costituzione federale. Sarebbe dovuta essere dunque la Corte Suprema a valutare gli atti prodottisi ultra vires, almeno nei casi di “manifesta viola-zione”, affidando per il resto il controllo ai giudici ordinari. Questo principio, prodotto da elaborazioni teoriche e senza alcun riscontro testuale nella frattanto ratificata Co-stituzione degli Stati Uniti, trovò sicura applicazione a partire dal 1803, per via giuri-sprudenziale4. Nel celebre caso Marbury vs Madison5, il presidente della Suprema Corte John Marshall formulò uno dei principi fondamentali sia per la collocazione della Costituzione nel sistema delle fonti, sia per la teoria del controllo di costituzio-nalità delle leggi. Traducendo il pensiero già espresso da Hamilton circa venticinque anni prima, Marshall si pose un interrogativo imprescindibile per la risoluzione del caso sottoposto all’esame della Corte, e capitale per la configurazione del contempo-raneo costituzionalismo. O (queste le alternative ponderate) la Costituzione è una legge superiore, come tale non modificabile da parte di una legge “comune”; o la Costitu-zione è, al pari di ogni altra legge, soggetta ai meccanismi di modificaCostitu-zione e abroga-zione ordinari, di modo che un semplice atto legislativo successivo nel tempo ha il potere di contraddirla e, contraddicendola, prevalervi. Prendendo le mosse dalla con-siderazione di Hamilton per cui la prevalenza della Costituzione si sarebbe fondata sulla maggiore vicinanza alla possibilità del popolo di esprimersi nella formulazione delle regole essenziali di convivenza dei consociati, secondo un’accezione che rie-cheggia il pactum societatis dei giusnaturalisti, Marshall osservò che, sposando la tesi della parità di livello tra leggi e Costituzione, quest’ultima sarebbe risultata un inutile tentativo del popolo di limitare il potere pubblico. Donde la di lui scelta per la solu-zione opposta: ne sarebbe discesa la possibilità per il potere giudiziario di disapplicare

4 Occorre del resto inquadrare questa peculiare modalità di procedere nel sistema giuridico statunitense,

che aveva ereditato dalla madrepatria britannica il c.d. common law. Elemento del resto basilare, questo, per comprendere lo sviluppo del modello diffuso di giustizia costituzionale. Per una completa compren-sione del tema è certo utile il riferimento all’opera di Ugo Mattei. Cito qui, in particolare, Common law:

il diritto anglo americano, Torino, Utet, 1992.

5 La vicenda è quella, celeberrima, che contrappose William Marbury, uno dei c.d. “giudici di

mezza-notte” nominati come ultimo atto presidenziale del federalista John Adams prima dell’insediamento del nuovo presidente Thomas Jefferson, del partito opposto, e James Madison, segretario del neopresidente, il quale, rifiutando di notificare la nomina a giudice di Marbury, nonostante il decreto presidenziale (con ogni probabilità politicamente scorretto o inopportuno, ma giuridicamente valido e tale quindi da qua-lificare come atto dovuto la notifica), diede inizio a una lite che giunse fino alla Corte Suprema, presie-duta da John Marshall, ex segretario di Stato di Adams. Da questo intricato groviglio di poteri, dipanato da Marshall attribuendo la ragione al compagno di partito Marbury, sarebbe nata la prima contempora-nea espressione di una giustizia costituzionale. Per un approfondimento della vicenda in rapporto all’evoluzione del sistema di common law statunitense, v. Barsotti V., Varano V., La tradizione

giuri-dica occidentale. Volume I – Testo e materiali per un confronto civil law common law, Torino,

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la legge confliggente con la Carta fondamentale della Federazione. Ciò che, inseren-dosi per di più in un sistema di common law, vigente il principio dello stare decisis, giunge a determinare la nascita del primo modello di giustizia costituzionale, quello diffuso. Avendo in effetti le decisioni della Suprema Corte la particolare incisività di precedente vincolante, una loro disapplicazione di leggi confliggenti con la Costitu-zione avrebbe determinato nientemeno che una sostanziale cassaCostitu-zione, un’espunCostitu-zione di fatto dall’ordinamento.

Sull’altra sponda dell’oceano, frattanto, la situazione costituzionale evolveva di-versamente. Articolati e progressivi sono gli approdi che porteranno al maturo affer-marsi di un sistema misto di giustizia costituzionale solo nel corso della metà del No-vecento.

Ancora una volta, il contributo dei teorici è essenziale. Al di là delle indubbie particolarità, dipendenti da ragioni storico-politiche ben precise, che differenziarono l’Inghilterra (e successivamente gli Stati Uniti) dalla Francia, uno dei dati di maggiore interesse è comprendere perché, nel Paese che prima di altri sviluppò un concetto con-temporaneo di Costituzione sul continente, la Francia per l’appunto, la concezione di Costituzione fosse così diversa da quella che andava modellandosi in Nord America negli stessi anni. Se, infatti, negli Stati Uniti la Costituzione era stata concepita come l’atto del popolo che crea il governo (il celebre government of the people, by the people and for the people), in Francia ricostruzioni eminentemente politiche dominano una focalizzazione precisa di potere costituente e potere costituito. Già Rousseau aveva posto in evidenza come, col patto sociale, la volontà dei diversi singoli venisse ad annullarsi e confluire nella volontà generale, che avrebbe così potuto esprimere la so-vranità. È, se vogliamo, una nuova concezione di assolutismo, che si sostituisce a quella tipicamente hobbesiana del monarca legibus solutus solo per il fatto che, adesso, monarca legibus solutus non è più un unico individuo, bensì la volontà generale del popolo: una prospettiva fatta propria dai rivoluzionari al momento di formulare prima la Dichiarazione dei diritti del 1789, poi la Costituzione del 1791 e le successive. La volontà generale, fattasi Nazione, esercitava in questo modo la propria sovranità, pro-ducendo la Costituzione: ne sarebbe disceso il potere di chi ne fosse stato legittimato, muovendosi nel solco tracciato con la Carta, di disciplinare, come delegatario, i rap-porti ordinari. Una distinzione molto netta tra potere costituente e potere costituito: ed ecco che il primo, ogni qual volta lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto, per

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