Capitolo II: Il pensiero giuridico gentiliano nel suo sviluppo: da “
4. La ricerca di un terzo indirizzo
Secondo Ugo Spirito l’incapacità della scuola classica e della scuola positiva di rispondere ai problemi cruciali della scienza penale nonché l’assoluta incoerenza della nuova scuola tecnico-giuridica consentono di guardare al rinnovato orientamento idealistico come punto di riferimento per la nascita di una vera e propria terza scuola. Nel tentare questo approccio ricostruttivo Spirito non è solo. Fondamentali sono altresì i contributi forniti da un altro esponente dell’attualismo italiano: Giuseppe Maggiore.257 Questi affronterà, in una comunicazione tenuta
presso la Biblioteca filosofica di Palermo, l’otto dicembre 1916, la problematica attinente alla ricerca di una via alternativa ai due orientamenti dominanti più volte citati, dichiarando la necessità della fondazione di un terzo sistema. L’argomentazione di Maggiore si distingue, tuttavia, da quella di Spirito, per la minore impostazione
257 F. D’Urso, L’emersione del ‘giuridico’ nella filosofia di Giuseppe Maggiore, da L’unità del mondo a Il diritto e il suo processo ideale, in “Annali dell’Università
storica e la maggiore attenzione ai fondamenti e ai ragionamenti teorico-concettuali.258
La riflessione di Spirito prende avvio dalla consapevolezza di un nuovo movimento filosofico i cui presupposti teorici potranno consentire una fondazione della scienza penalistica su basi finalmente concrete. Da questo punto di vista, storicamente parlando, secondo Spirito colui che meglio ha incarnato nella sua opera filosofica tale originale tendenza è indubbiamente Giovanni Gentile. La figura di Croce, invece, viene inquadrata come punto di transizione dal positivismo all’idealismo,259 nella quale persistono ancora fondigli di
astrattezza e trascendenza. Secondo il filosofo aretino, in sostanza, Croce pur partendo da presupposti apparentemente diversi rispetto a quelli di origine positivistica raggiunge risultati pressoché identici. Alla base dell’errore crociano si ritrova un concetto essenzialmente
contemplativo della legge: sulla problematica penale la filosofia non
può, a conti fatti, dir niente giacché essa rimane contemplazione che trascende l’azione.260 Di questa assoluta astrattezza riguardo le
modalità con cui i problemi giuridico-filosofici vengono affrontati è la dimostrazione, secondo Spirito, del modo, ad esempio, con cui Croce affronta la questione della responsabilità del soggetto e, conseguentemente, il problema della responsabilità penale. Nella visione di Croce non si è mai veramente responsabili, ma si è fatti tali. Chi ci rende responsabili è la società che impone certe classi di azione dichiarando all’individuo che se egli si conforma a tali condotte non andrà incontro ad alcuna forma di sanzione. Se il cittadino non fa ciò che la società gli impone, dal momento che ne è consapevole, diverrà responsabile. Il dualismo che innerva la riflessione crociana è chiaramente inaccettabile nella prospettiva fatta propria da Spirito che
258 A. Pinazzi, Attualismo e problema giuridico, op. cit., pp. 79 ss., pp. 119 ss. 259 Di diverso avviso A. De Gennaro, Crocianesimo e cultura giuridica italiana,
Giuffrè, Milano 1974.
rivela come questa impostazione si incentri sulla pura considerazione di carattere economico e tralasci del tutto la dimensione etica in forza della quale l’individuo non solo è fatto responsabile ma si percepisce
effettivamente tale. Se da questo concetto generale di responsabilità
passiamo a quello penale la soluzione sarà analoga. La legge non ha alcuna finalità immanente, ha carattere meramente particolare. Il fine della pena giuridica potrà essere determinato solo a posteriori. Così Croce reputa del tutto inutile discettare sulla funzione della pena giacché essa può essere voluta o compiuta sia come minaccia utilitaria sia attuata con il fine di innalzare la moralità dei cittadini: ma non è ad ogni modo possibile determinarne un fine a priori, che risulti connaturato all’intrinseca realtà della legge.
Ai poli opposti si situa invece l’orientamento offerto da Giovanni Gentile giacché in lui «ogni residuo di trascendenza è eliminato, e tra situazione storica da conoscere e azione da operare non c’è più l’iato della condizione e del condizionato»261. Grazie alla sintesi dialettica fra
necessità e libertà si ha l’affermazione del vero concetto di libertà. Venendo negato ogni limite estrinseco all’attività spirituale tutto ciò che un tempo il soggetto conosceva come trascendente rispetto al pensiero viene adesso ricondotto ad un prodotto del pensiero stesso. Tutto ciò che in un primo momento ci sembrava condizione per il soggetto diviene condizionato e lo stesso dualismo, che ancora permaneva nella filosofia di Croce, viene superato. Grazie all’affermazione di questa nuova istanza metafisica il penalista che voglia affrontare i problemi della sua scienza con rigore e consapevolezza non può non volgersi all’opera gentiliana come fonte essenziale di crescita e di maggiore comprensione. «Le affermazioni del Gentile sull’assoluta immanenza di tutta la realtà nell’atto spirituale; dell’assoluta eticità del reale inteso come autocreazione;
della realtà e cioè dello spirito come autoeducazione, ecc., sono appunto il fondamento imprescindibile del nuovo concetto di libertà e responsabilità morale, che devono opporsi alle negazioni non giustificabili dei positivisti».262
Grazie alla nuova concezione attualistica si può quindi pervenire ad una nuova e più rinnovata fondazione del problema della responsabilità alla base del diritto penale. La vecchia scuola classica concepiva la responsabilità del delinquente in modo empirico e, potremmo dire, quasi ingenuo giacché una volta considerato il delitto nella sua astratta oggettività il problema morale della responsabilità veniva ricondotto semplicemente all’autore dell’atto che aveva provocato il fatto e lo si puniva di conseguenza. Il problema del rapporto di quel fatto col mondo non veniva posto. Questione che invece si pose la scuola positiva la quale, però, riducendo l’individuo al mondo, in forza di una postulata e necessaria unità, finiva per far scomparire quella stessa relazione. Chi operava era sempre la natura e l’individuo che in quella natura era sommerso si dimostrava irresponsabile. È qui che Spirito da un giudizio della scuola positiva come scuola di immoralità, proprio alla luce di questa de-responsabilizzazione del soggetto.263 Senonché la
scuola positiva ha avuto il merito di spostare l’attenzione sui fenomeni che sull’individuo venivano ad esplicarsi, passando dal concetto di
responsabilità morale a quello di responsabilità sociale. L’individuo
non è più isolato, è adesso storicamente situato e quindi coinvolto all’interno del processo della vita. Così il nuovo idealismo, ben consapevole dell’esigenza che si celava sotto le tesi del positivismo, ha negato ogni dualismo fra spirito e natura risolvendo questa in quello e perciò l’involontario nel volontario e il necessario nel libero. Per l’idealismo «imputabilità e responsabilità si identificano, ma non nel senso di una riduzione della responsabilità all’imputabilità, bensì in
262 Ibidem, p. 220. 263 Ibidem, p. 229.
quello opposto di una elevazione del concetto di imputabilità a quello di responsabilità morale»264. L’uomo è moralmente responsabile di
tutto perché «egli non è qualcosa di diverso dal tutto».265 Orbene, se
quindi si concepisse il soggetto come individuo particolare, «non solo non può negarsi che ci sia accanto a lui e fuori di lui una realtà di cui non è responsabile, ma non può negarsi neppure ch’egli stesso sia schiavo della sua particolarità e perciò irresponsabile anche di sé».266 Il
vero soggetto che interessa al nuovo orientamento è di ben altro tenore. Il “me stesso” più profondo, l’attività spirituale in forza della quale il mondo tutto, così come il mio Io, divengono mio oggetto e in virtù di ciò è possibile pensare la totalità del mondo come meccanismo: questo è il vero soggetto. Un soggetto per cui non valga limite alcuno, nessuna fatalità o legge naturale. Ma l’oggetto affinché non sia un limite per il soggetto stesso non può essere percepito come realtà altra rispetto a lui. Il soggetto può guardare l’intero mondo come oggetto perché è lui stesso a creare quel mondo. La realtà che lo circonda è la sua realtà, che esiste solo in virtù del pensiero che la pensa e della volontà che la attua. Così quando l’assassino commette un delitto non posso pensare a quest’ultimo come a un qualcosa di estraneo alla mia personalità: egli vive della stessa realtà che vivo io e che «la sua colpa mi appartiene come la sua realtà»267. L’individuo è, ad un tempo
microcosmo e macrosmo. È in questa assoluta unità etica della vita che fonda le basi il nuovo diritto penale. «La pena è quella che la società, l’uomo infligge a se stesso per diventare più uomo, è emenda necessaria alla sua redenzione, è opera di essenziale autoeducazione. Quando il giudice giudica e punisce, non si volge propriamente all’altro da sé, ma a se stesso, e giudice e punisce se stesso in quanto umanità. Perché possa parlarsi veramente di pena, il giudice non deve
264 Ibidem, p. 230. 265 Ibidem. 266 Ibidem, p. 231. 267 Ibidem, p. 233.
essere estraneo al delinquente, né questo a quello: è l’uomo che in essi pecca e si redime».268
Giuseppe Maggiore, sulla scia dei medesimi presupposti di carattere attualistico costruisce, come dicevamo, un’ipotesi di sviluppo di una c.d. terza scuola sulla base di punti di partenza più schiettamente teorici e logico-concettuali. Nella già citata comunicazione dell’otto dicembre 1916 presso la Biblioteca filosofica di Palermo l’intento di Maggiore è quello di cercare una mediazione fra le due tendenze dottrinali predominanti nel diritto penale: quella classica, ch’egli fa derivare direttamente da Cartesio, prima ancora che da Beccaria, e quella positiva. La scuola classica ha il difetto, secondo Maggiore, di aver interpretato il concetto di diritto in modo puramente esteriore, improntandolo a criteri di pura eteronomia. La legge è prodotta da altri per l’individuo, in una dicotomia insuperabile fra individuo e società. La legge, svuotata di ogni elemento morale, diviene unicamente mezzo
per la difesa sociale. Il classicismo giuridico, che Maggiore fa derivare
non già dall’opera di Cesare Beccaria ma, dilatandone l’angolazione storica, direttamente dal lavoro filosofico di Cartesio,269 si fa portavoce
di una filosofia ormai in decadenza, quella illuministica, rappresentando il rapporto fra individuo e Stato come dominato dagli opposti. Lo stesso Beccaria, infatti, cadde nell’errore di configurare il rapporto fra individuo e società in termini fortemente antitetici. Il classicismo giuridico si rivela, quindi, una filosofia improntata ad una logica tardo-illuministica per la quale il soggetto e lo Stato non solo risultano come sostanze distinte ma perfino contraddittorie.
268 Ibidem, p. 234.
269 Secondo Maggiore la filosofia di Cartesio si rivela affetta da una duplice ambiguità: il pensatore francese fu, al contempo, padre del soggettivismo moderno, grazie alla scoperta dell’io penso, ma ontribuì altresì alla nascita dell’oggettivismo razionalista, determinando una radicale scissione fra soggetto pensante e realtà fuori di sé. Cfr. G. Maggiore, L’unità delle scuole di diritto
Volgendo lo sguardo alla dottrina positiva, Maggiore si rifiuta di pensare a questa come una vera e propria corrente teorica, considerandola, piuttosto, una reazione più che a-filosofica, anti-
filosofica, figlia della nuova cultura predominante, quella sociologica e
statistica. Il positivismo si impose come movimento di critica nei confronti delle errate costruzioni della scuola classica e del contrasto fra quest’ultima e i nuovi orientamenti che la società, allora contemporanea, andava mettendo in luce. Secondo il Nostro autore, tuttavia, il vero problema sorge allorché tali teorie da meri strumenti di
ricerca assurgano a vere e proprie speculazioni teoretiche.270 Da questo
punto di vista, a onor del vero, la caduta in errore non risiedeva tanto nelle opere di Lombroso, che pur rimanevano orientate a scopi essenzialmente pratici, ma nei suoi allievi – su tutti Raffaele Garofalo – che assumeranno quelle stesse ricerche come banchi di prova per la dimostrazione delle loro costruzioni teoriche. L’equivoco fondamentale della scuola positiva, come del resto quello del positivismo nel suo complesso, risiedeva, pertanto, nel tentativo di dare una lettura del tutto naturalistica al delitto, lasciandosi sfuggire il fatto che quando diciamo “delitto” altro non esprimiamo che un giudizio di valore, attribuendogli una qualifica che fuori dello spirito perde ogni significato. Come strumento di reazione, di opposizione, come movimento pratico, Maggiore dà del positivismo un giudizio buono denunciandone tuttavia l’insufficienza a livello teorico. La carenza teorica del positivismo ne mette in evidenza la maggiore rilevanza dal punto di vista pratico grazie alla sua capacità di interpretare il senso di disagio di una dogmatica giuridica sempre più angusta. La scuola classica, invece, nonostante le solide fondamenta filosofiche si rivela assolutamente inconsistente in un’ottica pragmatico-funzionale. Entrambe le scuole, dunque, trovano un
270 La posizione di Maggiore è in questo senso assolutamente in linea con le opinioni di Ugo Spirito, Cfr. U. Spirito, Storia del diritto penale in Italia, op. cit.
ostacolo: il positivismo nelle inconsistenti basi teoriche, il classicismo nelle ristrette visioni sul terreno della pratica.
È necessario, pertanto, risolvere l’impasse unificando i principi delle due scuole. Tale compito, secondo Maggiore, spetta all’idealismo. Criterio per la risoluzione è accogliere l’assoluta unitarietà fra teoria
e prassi, l’unità immanente tra sapere e fare. La sola filosofia in grado
di rispondere alle esigenze che il conflitto fra classicismo e positivismo ha determinato è proprio l’attualismo il quale, superando la dicotomia fra attività e pensiero, è scesa nel vero cuore della realtà.
Innanzitutto è d’obbligo sgombrare il campo da errate concezioni antropologiche. Una più adeguata interpretazione della soggettività è la chiave per il superamento delle antitesi strutturali che inficiano le due opposte dottrine. Fuori dalla prospettiva filosofica, secondo Maggiore, l’uomo viene visto in termini puramente naturalistici, mero agglomerato di “misere carni”. A tale volgarizzazione cercò di rispondere lo spiritualismo il quale, tuttavia, cadde, in termini diversi, nel medesimo errore: al corpo affiancò l’anima: aggiunse, quindi, ad una prima sostanza una seconda, senza mutarne tuttavia i termini di valore. L’attualismo, invece, trova la risposta nella vita stessa la quale dimostra come l’individuo se inserito nell’atto vitale, creazione che egli fa di se stesso, viene ridefinito come soggetto: «Cogito ergo sum: in queste tre parole palpita un mondo. La realtà mia vera, profonda, ultima, non può che essere soggettività. Perché la soggettività sola, ponendo sé pone l’essere. L’uomo è dunque soggetto; e la sua scienza non può essere che soggettivismo».271
L’uomo è soggetto del diritto. Grazie alla visione anti-sostanzialista derivata dalle basi attualistiche della sua filosofia Maggiore reinterpreta la figura del soggetto giuridico in termini di pura attività. Non si parla di un qualcosa che sottosta all’azione giuridica, quale
fatto immutabile; è necessario cogliere il soggetto nel suo operare: operatività che è la sua stessa soggettività. Se pertanto il soggetto è attività e l’attività è immanente al soggetto e non già semplice attributo; se, ancora, l’attività è la stessa vita universale, l’indissolubile unità fra l’azione del singolo e l’azione del tutto ci permette di dire che l’attività del soggetto è un’attività assoluta. L’azione, per Maggiore, è
sempre azione del tutto nel singolo e quindi l’azione è la vera libertà.
Chi vuole indifferentemente un’azione piuttosto che un’altra in realtà vuole la sua volontà di agire e quindi vuole, ancorché inconsapevolmente, la sua attività, che è una. L’uomo è, per definizione, soggetto libero. Maggiore, pertanto, non solo struttura l’attività del soggetto come libera e quindi intrinsecamente creatrice ma postula, altresì, l’assoluta corrispondenza fra soggetto e azione: alla stregua di Gentile, anche Maggiore quando parla di diritto si riferisce, in termini sinonimici, ad azione giuridica.
Affermata la libertà del soggetto è conseguenza porsi la domanda della sua imputabilità dal punto di vista giuridico-penale. L’uomo è imputabile perché è libero – diceva la scuola classica: a tale affermazione l’attualismo aggiunge: è libero perché la sua azione è universale. Se l’attività è immanente al soggetto, se l’azione del soggetto fa tutt’uno con la dimensione del suo essere, è conseguenza che se mi si imputano delle azioni non è perché io le abbia volute ma perché sono immanenti alla mia stessa essenza, quindi l’imputabilità non si può circoscrivere ai soli fatti volontari. Inoltre, se l’imputabilità risiede nell’azione e l’azione è universale saranno imputabili anche azioni non mie.
Questa imputabilità universale è spinta da esigenze teoriche e non pratiche della vita giuridica e crea, dobbiamo riconoscere, non pochi problemi a livello pragmatico.272 Con tale visione diviene impossibile
sia l’individuazione che la comminazione della pena, ma anche la stessa distinzione tra lecito e illecito. Maggiore tenterà di rispondere mediante la distinzione fra responsabilità e imputabilità che si rivela, a conti fatti, una complicazione inutile e verbosa la quale mira scindere due concetti che in realtà sono uno solo. La retribuzione che consegue alla responsabilità, la sola che assume rilevanza giacché la dimensione dell’imputabilità viene espunta da Maggiore in quanto non necessaria a fini penalistici, risulta variabile a seconda dei periodici storici. In questo modo, la distinzione tra responsabilità e imputabilità sembra assumere i caratteri della distinzione fra diritto positivo e diritto naturale (o ideale); la problematica dell’imputabilità giuridica viene ridotta da Maggiore ad un problema di ordine morale: in questo modo egli elude il problema, senza affrontarlo. La funzione della pena si distacca dalla necessità di una retribuzione rispetto al delitto commesso invitando il giudice a rendersi legislatore esso stesso al fine di non inquadrare, in termini astratti, il singolo caso concreto alla fattispecie di ordine generale, cercando di strutturare il contenuto del castigo rispetto al caso effettivo riconducibile all’atto compiuto dal soggetto.