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Rinvio pregiudiziale e Corte Costituzionale italiana

Nel documento Il giudice tributario come giudice europeo (pagine 136-147)

Resi noti i termini del dibattito teorico appaiono di palmare evidenza, i riflessi, sul piano pratico tributario che conseguono alle posizioni assunte dalla Corte Costituzionale Italiana nei confronti del diritto dell’Unione, la quale ha rivestito un ruolo imprescindibile nell’evoluzione del diritto interno, con evidenti ricadute sia sul diritto tributario sostanziale che processual-tributario. Il trend evolutivo della giurisprudenza italiana si infatti è mosso nel senso di una uniforme applicazione del diritto comunitario conseguente ad un ammorbidimento delle posizioni che in un primo momento erano state assunte dalla Corte Costituzionale .

Sentenze della Corte Costituzionale italiana quali la Granital, Sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 1984 e le successive sentenze B.E.C.A. n. 113 del 1985 così come la sentenza n. 64 del 1990 hanno modellato un concetto di supremazia del diritto comunitario, e delle sentenze della Corte di giustizia idonee a fornire una interpretazione autentica che si estrinseca come potere di disapplicazione, che autorizza il giudice tributario nazionale a disapplicare la disposizione confliggente, sia essa di emanazione anteriore ovvero successiva a quella comunitaria, anche in ambito tributario.

Il giudice tributario nazionale è chiamato infatti a dare applicazione immediata della norma comunitaria così come interpretata dalla Corte Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale e perfino delle direttive che abbiano i requisiti per avere effetto diretto. Più specificamente nel diritto tributario, l'esercizio di questo potere, ed in particolare sul piano processual-tributario, è disciplinato all’articolo 7 del D.lgs. 546 de 1992 laddove stabilisce che le Commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento od un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano in relazione all'oggetto dedotto in giudizio. Detta affermazione sancisce il riconoscimento di un potere generale di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da considerare tamquam non esset dopo una cognizione “incidenter

tantum” effettuata ai soli fini della decisione sull'atto impugnato. Altrettanto avviene

per la norma tributaria interna confliggente con il diritto comunitario che non può essere dichiarata né nulla né invalida ma solo inapplicabile al rapporto controverso senza bisogno di ricorrere al giudizio di costituzionalità.

Per la verità il percorso della Corte Costituzionale italiana che ha portato alle considerazioni appena esposte, non è stato lineare, ma l’elaborazione giurisprudenziale è stata travagliata; permanevano, infatti, esegesi in antitesi alle argomentazioni sopra

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esposte, che circoscrivevano l’ambito di applicazione e l’operatività del diritto in oggetto.

Come noto, in una prima fase, la Corte Costituzionale italiana aveva creduto di poter risolvere gli eventuali contrasti tra le fonti interne e le fonti comunitarie attraverso il ricorso ad un criterio di tipo cronologico, sentenza n. 14 del 1964 della Corte Costituzionale. Tale impostazione era però incompatibile con il concetto di sovraordinazione gerarchica del diritto comunitario. Fu infatti respinta dalla Corte di giustizia, la quale, pronunciandosi a distanza di poche settimane sul medesimo caso oggetto della decisione della Consulta, affermò nella sentenza 15 luglio 1964, Costa/ENEL, causa C-14/64, per la prima volta quello che sarebbe in seguito divenuto uno dei principi fondamentali su cui si regge l'intero ordinamento comunitario, vale a dire il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati membri222.

Nel 1975, la Corte italiana, con la sentenza n. 232, abbandonò l'idea della prevalenza della legge interna successiva rispetto al diritto comunitario incompatibile, adottando un criterio di risoluzione delle antinomie sostanzialmente riconducibile all'applicazione del principio di competenza. In particolare, secondo la Consultale norme interne successive, emanate con legge o con atti aventi valore di legge ordinaria, non conferiva al giudice italiano il potere di disapplicarle, poiché rimaneva fermo in ogni caso l'obbligo di rimessione del conflitto al vaglio di costituzionalità della Corte, restando precluso al giudice disapplicare autonomamente la norma ritenuta incompatibile ed essendo egli invece tenuto a sollevare questione di costituzionalità. La cooperazione giudice comunitario-giudice nazionale, compreso quello tributario, sarebbe stata però in questo modo ridotta ove non si fosse potuto fare applicazione immediata del diritto comunitario attendendo la previa rimozione in via legislativa o costituzionale della norma interna incompatibile.

La Corte di giustizia,quindi con la famosa sentenza Simmenthal del 1978, causa C- 106/67, sancisce che le norme di diritto comunitario dovevano esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità, ed in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora direttamente applicabili, avrebbero prodotto l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo rendendo ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche in quanto dette disposizioni e detti atti erano parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri

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Come affermato da GIOVANNETTI T., in PASSAGLIA P., Corti costituzionali e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in Quad. Cost., 27, 3-4, 2007, 625 ss.

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quindi avrebbero impediti la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui incompatibili con norme comunitarie. Ciò significava, che qualsiasi giudice nazionale, adito nell'ambito della sua competenza, aveva l'obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuiva ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria poiché incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario.

Fu, dunque, la Corte di Lussemburgo ad indicare chiaramente ai giudici comuni la strada da seguire, invitandoli a disapplicare all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale.

A seguito di questo esplicito invito, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 170 del 1984, sulla scorta del criterio di specialità nella risoluzione delle antinomie, ha definitivamente aperto la strada alla disapplicazione giudiziaria delle leggi nazionali contrastanti con il diritto comunitario223.

Il contrasto tra norme comunitarie direttamente applicabili e norme interne deve, quindi, anche ad avviso della Corte italiana, essere risolto da tutti gli operatori giuridici, ed in primis dai giudici comuni, compreso anche il giudice tributario, facendo prevalere le prime attraverso la non applicazione delle seconde ferma restando la necessità di procedere poi all'abrogazione in via legislativa della norma interna a fini di chiarezza e di certezza. In sostanza, a fronte di una apparentemente insuperabile divergenza di presupposti teorici.

In ultimo con la setenza Factortame del 1990, C- 213/89, fu riaffermato il principio del primato del diritto comunitario sulle disposizioni legislative nazionali, principio che inevitabilmente produce effetto su tutte le branche del diritto e specialmente quella tributaria e processual-tributaria.

La pronuncia, infatti, affermava la legittimità del provvedimento provvisorio adottato dall’Alta Corte di Giustizia inglese, che aveva provveduto a disapplicare la normativa nazionale in attesa della soluzione fornita dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee in merito alla controversia avente per oggetto norme comunitarie224.

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Secondo la Corte, infatti, l'effetto connesso con la vigenza di un regolamento comunitario è quello, non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale.

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Il caso era stato sollevato da alcune compagnie marittime mercantili, molte delle quali controllate da soggetti spagnoli, che invocavano una revisione del British Merchant Shipping Act del 1988 in merito alle modalità di iscrizione ai registri marittimi inglesi. Nella legislazione britannica relativa ai battelli per l’esercizio della pesca, per l’immatricolazione era necessario che i proprietari, armatori o utilizzatori del battello, fossero cittadini britannici oppure società costituite in Gran Bretagna. Tutto ciò era in aperto contrasto con il principio di uguaglianza del trattamento nazionale previsto dall’articolo 43 del Trattato CE in tema di diritto di stabilimento. I ricorrenti affermavano che tali disposizioni erano discriminatorie per le navi non inglesi e ledevano il loro diritto di stabilimento sancito dal trattato istitutivo della Comunità europea. Essi richiedevano, quindi, la sospensione dei provvedimenti in questione e l’adozione di provvedimenti provvisori in attesa della soluzione del caso.

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L’evoluzione giurisprudenziale ha portato quindi ad attribuire allo stesso giudice nazionale, quant’anche giudice tributario, questo potere, con riconoscimento della autonomia dei rispettivi ordinamenti, comunitario e nazionale, distinti ma coordinati tra loro, restando inammissibile ogni prospettata questione di costituzionalità, a meno che la norma comunitaria non violi principi fondamentali di rango costituzionale. Ne consegue che i tributi contrastanti con normativa comunitaria di immediata applicabilità non saranno dovuti nella misura in cui il giudice tributario nell'esercizio della sua giurisdizione ne accerti l’incompatibilità, disapplicando la disposizione nazionale confliggente, così come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 168 del 1991.

Nella prassi, però, è dato rilevare è che il contenzioso che avrebbe dovuto passare attraverso la strada della questione incidentale di costituzionalità ha, in realtà, finito per incanalarsi in quella del rinvio alla Corte di giustizia. E ciò è avvenuto anche grazie alla posizione assunta dalla stessa Corte Costituzionale , che ha, con una serie di prese di posizione successive su aspetti specifici, largamente incoraggiato i giudici comuni a imboccare la strada di Lussemburgo, sulla base della convinzione per cui ogni questione che coinvolga un problema di interpretazione del diritto comunitario deve previamente essere risolta dal giudice che di quel diritto rappresenta l'interprete ultimo, cioè, appunto, la Corte di giustizia.

Vi è infatti sempre un certo margine di rischio per il giudice nell'operare in totale autonomia senza avvalersi dell'ausilio ermeneutico della Corte di Giustizia. Basti richiamare il caso della compatibilità con la direttiva 335/69 CE della tassazione del patrimonio netto delle imprese imposta istituita dalla L. 394/ 1992 e poi abrogata dal D.lgs. 446/97 istitutivo dell'IRAP, riconosciuta dalla Corte di Giustizia ( Corte di Giustizia, sent. 27 ottobre 1998 C-4/97 Nonwoven, DRE Toscana) nonostante numerose Commissioni tributarie avessero in precedenza optato per la incompatibilità dalla normativa dichiarando illegittimo il relativo prelievo.

Od ancora, più recentemente, la giurisprudenza delle Commissioni tributarie italiane per lungo tempo tendenzialmente portate a riconoscere il diritto al rimborso dell'Iva sugli acquisti di beni e di servizi da parte di soggetti che effettuano operazioni esenti (strutture sanitarie ed agenzie assicurative225) siccome impossibilitati ad avvalersi della

Tale richiesta, accettata dalla sezione dinanzi alla quale era stato sollevato il caso, fu rigettata dalla Corte d’Appello e dalla Camera dei Lords; queste ultime affermavano infatti l’impossibilità di sospendere norme nazionali per applicare norme temporanee che tutelassero diritti sanciti dal trattato.

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È stato peraltro affermato che la legittimazione al rimborso spetterebbe al solo cedente ancorchè il tributo sia stato traslato sul cessionario (contribuente di fatto) a seguito del meccanismo della rivalsa che non avrebbe alcun riflesso sull’individuazione del soggetto passivo d’imposta.

La riscossione dell'Iva configurerebbe infatti una fattispecie complessa nella quale - accanto all'au- tonomo e distinto rapporto di natura tributaria istituito tra cedente ed AF - ve ne sarebbe un altro di natura privatistica tra cedente e consumatore finale che autorizzerebbe quest'ultimo solo a proporre verso il primo azione di ripetizione d’ indebito oggettivo ex ari. 2033 cc.

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detrazione ex articolo 19 DPR 633/72 in virtù di un asserito contrasto con i principi emergenti dalla VI direttiva 388/77 CE (sub articolo 13 in tema di “altre esenzioni”) ha trovato smentita nella sentenza della Corte di Giustizia 8 dicembre 2005 C - 280/04 Finans che ha fornito una interpretazione restrittiva dei termini con cui sono state designate tali esenzioni miranti ad evitare una doppia imposizione contraria alla neutralità del tributo e non ad introdurre ulteriori fattispecie ad “aliquota zero”.

Lo stesso è avvenuto per l'IRAP che aveva portato talune Commissioni a disapplicarla sulla scorta delle conclusioni assunte dell'Avvocato generale presso la Corte di Giustizia226 (conclusioni che l'esperienza insegna essere di regola anticipatorie della decisione della Corte di Giustizia unica vincolante il giudice nazionale) che aveva individuato nell'IRAP le quattro caratteristiche fondamentali dell'IVA (applicazione dell'imposta in modo generalizzato alla cessioni di beni e servizi, proporzionalità ai prezzi, applicazione in ogni fase del processo di produzione e distribuzione, gravame commisurato al loro valore aggiunto ) e dunque una “duplicazione” vietata dalla disposizione comunitaria, poi smentita dalla citata decisione dei giudici comunitari. Da ciò emerge come sia talora più opportuno rinunziare ad una decisione quale quella di “disapplicazione” automatica della norma e propendere invece per più ponderati provvedimenti interlocutori volti ad attivare quel grande strumento di cooperazione con la Corte di giustizia che si traduce nel rinvio pregiudiziale d’interpretazione ai sensi dell'articolo 234 del Trattato, oggi articolo 267 TFUE.

Ciò anche influito sulla “doppia pregiudizialità” secondo la quale il giudice comune deve richiedere previamente l'intervento della Corte di giustizia e solo successivamente quello della Corte Costituzionale , costituendo il mancato rinvio al giudice di Lussemburgo un motivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale 227.La priorità così stabilita della questione pregiudiziale comunitaria rispetto a quella di costituzionalità, insieme al riconoscimento da parte della Corte Costituzionale dell'efficacia di fonte del diritto alle sentenze della Corte di giustizia, determina il più delle volte l'inutilità del successivo intervento della Consulta, essendo spesso il dubbio sulla conformità tra norma interna e norma comunitaria più o meno esplicitamente risolto dalla stessa Corte di Lussemburgo nell'ambito dell'attività di interpretazione del diritto comunitario.

Esistono dei settori dove il diritto fiscale è strettamente compenetrato con il diritto della concorrenza per cui la normativa procedurale comunitaria ha da tempo previsto

Questa impostazione ha peraltro suscitato dubbi di compatibilità comunitaria sul piano della neutralità dell'Iva e dei principi di effettività e non discriminazione che ha da ultimo indotto la Cass. SS. UU (ord. 4808/06) a rimettere la questione interpretativa alla Corte di Giustizia sulla legittimazione del committente - cessionaro IVA a promuovere azioni di rimborso nei confronti dell'Erario per addebito e versamento dell'imposta non dovuta (sirniliter ord. 1015705).

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Conclusioni dell'avv. Jacob presentate il 17 marzo 1995 in causa C - 475/03.

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Cfr., ex p1urimis, le ordinanze nn. 536 del 1995, 319 del 1996 e 108 del 1998, nonché più recentemente, ordinanze nn. 415 del 2008 e 100 del 2009.

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un sistema alternativo di cooperazione informativa tra giudici nazionali e Commissione.

La materia degli aiuti di stato (il cui concetto è delineato dall'articolo 87 del Trattato) interessa strettamente il diritto tributario perchè tra le misure agevolative accordate alle imprese rientrano evidentemente anche gli aiuti fiscali che costituiscono uno degli strumenti più diffusi di concessione di agevolazioni pubbliche alle imprese.

D'altra parte, procurando un vantaggio ai beneficiari rispetto ai concorrenti nel ridurre i costi che fanno parte del bilancio dell'impresa, alterano il mercato e sono pertanto presi in considerazione anche dal diritto della concorrenza che li considera incompatibili con il diritto comunitario nella misura in cui risultino selettivi e non rivolti alla generalità della categoria interessata.

La Corte di giustizia ha infatti più volte affermato che qualunque misura che comporti uno specifico vantaggio finanziario a determinate imprese o settori produttivi e che determini una perdita a carico del bilancio pubblico (quale la mancata percezione di entrate tributarie) costituisce un aiuto di Stato.

Una volta che venga dichiarata l’illegittimità comunitaria della norma interna che prevede gli aiuti, lo Stato deve procedere al recupero verso il beneficiario mettendo in atto le misure amministrative e legislative idonee al ripristino. Secondo la c. d. giurisprudenza Daggendorf, peraltro osteggiata dall'Italia, l’attivazione nel recupero dei bonus verrebbe a condizionare la concessione di nuove agevolazioni, ma la conflittualità inerente, in caso di opposizione del beneficiario o del terzo concorrente danneggiato dalla mancata esecuzione dell'obbligo restitutorio, interessa più che il giudice tributario (in mancanza di atti accertativi impugnabili) il giudice amministrativo o quello ordinario della concorrenza.

Si ricorda inoltre caso delle fondazioni bancarie con riferimento alle agevolazioni fruite (esonero dalla ritenuta sui dividendi e riduzione dell'IRPEG) che ha portato la Corte a richiedere con rinvio pregiudiziale ex articolo 234 CE228, oggi articolo 267 TFUE, se esse dovessero sottostare alla disciplina comunitaria in materia di concorrenza e di aiuti e dopo la risposta al quesito fornita dal giudice comunitario229 ha formulato, integrandone fattualmente gli enunciati, il principio di diritto al quale avrebbe dovuto attenersi il giudice del merito e cioè che la gestione da parte delle fondazioni bancarie di partecipazioni di controllo attraverso una propria struttura organizzata è idonea a far qualificare tali soggetti come imprese ai fini dell'applicazione del diritto comunitario della concorrenza, e quindi degli aiuti salva la prova che in campo tributario incombe al soggetto che invoca l'agevolazione e che

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Cass. ord. 23 marzo 2004

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La Corte di giustizia con sentenza 10. I. 2006 C - 224/04 ha così statuito"In esito ad una valutazione che spetta al giudice nazionale compiere, una persona giuridica quale la fondazione bancaria può essere qualificata come impresa a sensi dell'ari. 87. 1 CE e in quanto tale essere sottoposta alle norme comunitarie in materia di aiuti di stato per cui un’esenzione della ritenuta sui dividendi può esse qualificata come aiuto di stato."

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deve perciò dimostrarne la sussistenza dei presupposti che tale gestione abbia avuto un ruolo non prevalente o strumentale alla provvista di risorse destinate all'esercizio di attività sociali, di beneficenza o culturali costituenti le uniche espletate dall'ente.

All'esito di tale indagine il giudice di legittimità ha dunque invitato il giudice del merito ove ritenesse la misura esonerativa un aiuto di stato senza che lo Stato italiano avesse seguito la procedura ex articolo 88. 3 Trattato CE, a disapplicare la norma nazionale corrispondente dichiarando non spettante l'agevolazione in parola230 . Così il caso del consorzio tra imprenditori del settore della pesca che aveva adottato lo schema della cooperativa per usufruire dei vantaggi fiscali ed extrafiscali previsti dalla pertinente normativa. Secondo l'ufficio accertatore gli effettivi imprenditori erano i soci e la cooperativa costituita, lungi dal perseguire profili di mutualità, svolgeva un mero servizio d’intermediazione nella commercializzazione dei beni venduti dai soci percependo una provvigione. Pertanto venivano riprese come non spettanti le agevolazioni IRPEG231.

Alla medesima logica sembrano iscriversi le affermazioni della Corte Costituzionale in ordine all'inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale sollevate da un giudice contemporaneamente ad una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia232, all'inammissibilità delle questioni di costituzionalità che coinvolgano una disposizione comunitaria che sia contemporaneamente già sottoposta all'esame della Corte di

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Cfr. Cass. SS. UU.. 27619/06, in Racc.

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La Corte di Cassazione, con ordinanza 3525/06, ha richiesto alla Commissione Europea informazioni sulla qualificabilità come aiuti di Stato di misure di agevolazione fiscale a favore delle cooperative, le determinazioni assunte in materia in sede comunitaria, gli elementi per valutare la compatibilità, con il diritto nazionale, di un regime nazionale derogatorio a favore di enti societari in forma di cooperativa.Lo strumento utilizzato - in questo caso - è stato quello informale della consultazione informativa già previsto nel campo della concorrenza dal Regolamento n. 1/2003 concernente l'applicazione delle regole di cui agli artt. 81 ed 82 del Trattato che ha riproposto - con la forza cogente propria dell'atto legislativo231 - l'attribuzione alle giurisdizioni nazionali della potestà di richiedere alla Commissione informazioni (in fatto) per accertare se un determinato caso sia all'esame della Commissione, se su esso abbia preso posizione e quando presumibilmente assumerà una decisione e pareri (in diritto) su questioni - procedurali, giuridiche, economiche - relative all'applicazione delle regole di concorrenza comunitaria.Questa modalità d’ intervento è prevista specificamente anche dalla Comunicazione 23.11.2005 95/c 312/07 in materia di aiuti di Stato dove nel titolo V è stabilito che i giudici nazionali possano rivolgersi alla Commissione per chiedere informazioni fattuali (di carattere procedurale e per sapere se una deterrninata pratica è pendente dinanzi alla Commissione, se questa ha avviato un procedimento o preso una qualsiasi decisione) e informazioni giuridiche riguardanti in particolare la qualificazione delle misure quali aiuti di stato, la distorsione della concorrenza che ne può derivare sugli scambi tra gli stati, conoscere la prassi seguita su tali problemi dalla Commissione ed acquisire attraverso tale diritto di consultazione (non

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