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III. Probabile autobiografia di una generazione

III.8. Riuscire junghiani senza essere anticrocian

Se mi sono dilungato sul confronto tra la dinamica che regola la vita dello Spirito e quella che muove le funzioni tipologiche, è stato in primo luogo perché di esso non vi è traccia, nelle bibliografie critiche che ho potuto consultare (le quali, ovviamente, non esauriscono la totalità degli studi sull’argomento).

Ma, al di là della novità o meno dell’idea, il fatto davvero rilevante, ai fini del discorso che qui si sta portando avanti, è che in questa analogia potrebbe risiedere il nucleo centrale, quanto inespresso, della proposta che avanza Debenedetti in

Probabile autobiografia di una generazione.

Proviamo a ricostruire alcuni tratti della biblioteca debenedettiana nel ’49, al tempo cioè del discorso tenuto al Pen Club. Che egli padroneggiasse, già dai tempi dell’università, quindi almeno da tre decenni, la filosofia di Croce è un fatto ampiamente documentato e che egli stesso ci riferisce, in un passo diventato celebre:

Mattini dell’Università di Torino, dei quali posso testimoniare di persona: sotto i portici del cortile, vaporassero le nebbie dell’inverno col loro sapore di seltz, o il sole degli aprili e dei maggi levigasse di ceruleo le colonne, o fiammeggiasse quello estivo sui giorni d’esame, chi ora con la macchina del tempo potesse

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tornare a quei mattini sentirebbe di che cosa si discorreva. Croce e Gentile, Gentile e Croce, il grande duello: e il criterio per molti di noi preponderante consisteva nel vedere quali di quei concetti in lizza sapesse meglio illuminare l’idea dell’arte. Il medesimo avveniva nelle altre città e luoghi di studio; da ogni parte d’Italia ci incontravamo, affiliati della disputa: mezza parola per riconoscerci, già eravamo nel folto della discussione.354

Non altrettanto certi possiamo essere della sua lettura dei Tipi psicologici a quell’altezza storica. La prima edizione italiana dell’opera risale al 1948: la traduce Cesare Musatti per Astrolabio. Sappiamo dallo stesso Debenedetti, che egli possedeva una copia di quella prima edizione.355 La circostanza, inoltre, che la collana «Psiche e Coscienza» dell’Astrolabio fosse stata creata e diretta congiuntamente da Bobi Bazlen ed Ernest Bernhard, che in quegli stessi anni avevano uno scambio costante con il critico, lascia ampiamente supporre una sua tempestiva lettura del libro. Il traduttore ha riferito poi ad Aldo Carotenuto che, già nel ’40, il celebre patologo Levi, padre di Natalia Ginzburg e antica conoscenza anche di Debenedetti, realizzò una prima traduzione, mai data alle stampe, dietro richiesta del genero Adriano Olivetti:

[Levi] Conosceva bene il tedesco ma aveva una mentalità positivistica e non capiva nulla del pensiero di Jung, per cui incontrò difficoltà nella traduzione. Olivetti mi chiese di aiutarlo ma non riuscii ad intendermi con lui e la traduzione risultò inintelligibile. Allora Olivetti mi chiamò a farla ex novo. Ed io con molta fatica, la feci nell’inverno del 1942.356

È estremamente improbabile che Debenedetti abbia letto la versione del ’40. E non credo neanche che abbia potuto prendere visione di quella del ’42

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G.DEBENEDETTI, Probabile..., cit., pp. 107-108. Ai fini strettamente connessi allo studio, non era forse necessario riportare il pezzo per intero. Mi è sembrato, però, che valesse la pena farlo, in considerazione della squisitezza della prosa debenedettiana, che forse tocca qui uno dei suoi momenti più alti.

355

L’edizione Astrolabio del ’48 è citata più volte nelle note che Debenedetti appone ai suoi quaderni di appunti per le lezioni universitarie.

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nell’anno stesso in cui è stata realizzata. Ma è impensabile che non l’abbia fatto Bazlen, che era, insieme a Bernhard, il consulente privilegiato di Adriano Olivetti, in materia junghiana e non solo. Entrambi, in ogni caso, conoscevano perfettamente l’edizione tedesca da parecchi anni, per Bernhard rappresentava addirittura un fondamentale strumento di lavoro, e non è affatto credibile che, nelle frequenti conversazioni con Debenedetti, possano aver omesso (chissà poi per quale motivo) proprio questo aspetto della psicologia analitica. Ma, anche volendo ammettere questa bizzarra ipotesi e quella ancor più fantasiosa che non abbiano voluto omaggiare il critico di una copia, è certo che Debenedetti, preso com’era dal pensiero junghiano, ne avrebbe comunque acquistata una al momento stesso della sua uscita, non avrebbe certo atteso degli anni per leggere quel testo basilare. Del resto, come abbiamo visto, le pagine della Vocazione di Vittorio

Alfieri, che ricordiamo essere state scritte tra il ’43 e il ’44, fanno già uso della

dinamica di introversione/estroversione.

Nessuno meglio di Debenedetti, quindi, nessuno meglio di colui che, molti anni prima, Gobetti aveva definito la «rivelazione della critica postcrociana»357 e che ora si apriva alle prospettive della psicologia analitica, avrebbe potuto avvertire nelle struttura dei Tipi psicologici, quella certa “aria di famiglia” da cui il nostro discorso ha preso le mosse.

Si potrebbe allora ipotizzare che egli abbia intravisto, in quel particolare elemento della dottrina junghiana, un modo per dinamizzare, per rendere meno rigido, senza però ripudiarlo, quel sistema crociano che gli appariva «scompartito in settori longitudinali»358 e di cui lamentava appunto la staticità:

le quattro forme dello Spirito, disposte come i colori dell’iride sul disco che, rotando, rifà il bianco. Ogni stratificazione orizzontale è evitata, che potrebbe accennare a zone sottostanti – diciamo pure “più basse” – con le quali non si sa

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Cfr. TM, p. 108.

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114 dove si andrebbe a finire.359

E non è questo l’unico punto del discorso del ’49 che lamenti la fissità delle “categorie” crociane:

Di lì ci veniva l’appello: cioè dall’illecito, cioè dalle zone che il Croce aveva proscritte, come appartenenti ad altre «forme» dello spirito, e dunque fomiti di errore per la «forma» estetica dell'artista, per la «forma» logica del critico. L’errore non è, secondo il Croce, confusione e rimescolamento delle «forme»?360

E ancora:

Non è stato il Croce medesimo a constatare la circolarità della Filosofia dello Spirito? Che può anche voler dire l’impossibilità, chi parta da quel centro, di evadere lungo la direzione di qualsiasi raggio; la condanna a proiettarsi nel vuoto, nel difuori, se si prenda una tangente; l’inevitabilità di girare intorno. Circolo: uno splendore di metafora, ma subito diventa un emblema scoraggiante.361

Quindi, abbandonando ogni residuo di quel fare diplomatico che, fin qui, aveva guidato le sue parole:

La Filosofia dello Spirito è asettica e disinfettante. Uno degli aggettivi preferiti dal Croce, per compensarsi delle rinunce e cautele che gli toccano, è l’aggettivo «igienico» [...] Il sistema crociano è uno specchiato galateo che permette di esprimersi su tutti i problemi dell'universale e del particolare, senza mai cadere nello shocking.362 359 Ibidem. 360 Ivi, p. 110. 361 Ibidem. 362

Ivi, p. 112 e 114. Si possono riportare altre citazioni in merito: «Si scoprono numerose simmetrie e parallelismi tra la filosofia del Croce e quella scienza che il Croce considerava così antagonistica al filosofare. La fisica di allora, mettiamo, obbediva alla cosiddetta interpretazione

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Nessuna sorpresa, quindi, che egli possa aver individuato un adeguato antidoto nel «linguaggio rozzo, corpulento e maleducato dei sogni»:363 una chiara sineddoche per indicare la psicologia del profondo, tanto di freudiana, quanto di junghiana estrazione.

È, d’altronde, vero che il critico non pone mai alcuna relazione tra la

Filosofia dello Spirito e i Tipi psicologici, tende anzi a non dare troppo rilievo

all’utilizzo di quest’ultimo testo. Eppure, come spero dimostreranno a chiare lettere i prossimi capitoli, basta una semplice ricognizione all’interno della sua saggistica per rendersi conto di come egli vi faccia ricorso in proporzioni ben più ampie di quanto non emerga dalle varie note di rimando (si tratta, è bene specificare, di un ricorso ben diverso da quello, oggi invalso in certa vulgata psicoanalitica, del test o dell’adozione meccanica di asfittiche categorie tipologiche). Se le argomentazioni che si svilupperanno nel seguito della trattazione mostreranno una qualche fondatezza, potremmo anche spingerci anche a supporre che l’intera produzione debenedettiana, e in particolare Il romanzo del

Novecento, con le sue ripetute invocazioni alla dimensione dell’«oltre», delle

«epifanie» e delle «intermittenze del cuore», elevate sovente a vere e proprie categorie di giudizio, possa essere letta come un inesausto inno all’Intuizione. Una dea, questa, i cui connotati, certo ritracciabili nel dichiarato modello bergsoniano (e in diversi altri), lasciano comunque intravedere la sagoma di Jung e, più in controluce, quella del filosofo abruzzese.

meccanicistica, cioè postulava per ogni maniera di fenomeni una forza specifica e competente: forza luminosa per la luce, forza acustica per il suono, e via elencando forze. Ma anche la filosofia del Croce, per ogni maniera del pensare e del fare umano, deduce una specifica e competente attività dello Spirito: attività estetica per l'arte, attività logica per la conoscenza, ecc.» (ivi, pp. 118- 119). Oppure: «Il Croce [...] dice di tendere all'unità, anzi la dà come raggiunta: senonché, accanto all'architettura quadripartita del sistema, l'altro connotato principale della sua filosofia è l'accanita difesa della distinzione tra le quattro attività dello Spirito: la possibilità di pensare viene addirittura identificata con l'obbligo di preservare quelle distinzioni» (ivi, p. 119). Infine: «Il Croce arriva a minacciare il confondersi, l'oscurarsi di tutto, qualora si rinunci alle distinzioni. Ci si domanda se il bisogno, comune al Croce e agli scienziati suoi contemporanei, di considerare le forze del mondo come operanti a schiere divise, tenute disgiunte da servizievoli diaframmi, se questo bisogno non sia determinato da motivi anteriori a quello che l'uomo dice o sa di sapere, da quella specie di primordio dell'individuo che ognuno porta in sé, e insomma da quelle ragioni del vivere che si sono già pronunciate, prima che la ragioni cominci a parlare» (ivi, pp. 119-120).

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Adottando e reinterpretando, dunque, molto personalmente quelle procedure della psicologia analitica che lo allontanavano da Croce, proprio su questa strada, Debenedetti potrebbe aver finito col rincontrarlo. Prendendo in prestito una nota frase continiana, potremmo dire che, attraverso Jung, Debenedetti ha trovato il suo peculiare sistema di “riuscire postcrociano senza essere anticrociano”.364

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Si sta ovviamente parafrasando la massima: «Riuscire postcrociani senza essere anticrociani» (G.CONTINI, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1989, p. IX. Il saggio è uscito la prima volta con il titolo: L’influenza culturale di Benedetto Croce, «L’Approdo Letterario. Rivista trimestrale di Lettere e Arti», XII, n. s. [1966], 36, pp. 3-32).

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