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Di Grecia e dei suoi rapporti con Roma avrebbe parlato anche lo ziganologo Adriano Colocci, all'interno di un agile volume dato alle stampe, nel '15, dalla libreria editrice fiorentina Ferrante Gonelli, all'interno di una collana, I libri della guerra, da essa specificamente dedicata al conflitto all'epoca in corso.

L'autore considerava la guerra divampata in Europa l'anno prima l'incipit di una disputa internazionale destinata a caratterizzate il secolo appena iniziato. Se, nel corso dell'ottocento, l'attenzione di statisti e teorici del pensiero politico e della politica estera si era concentrata sulla cosiddetta “questione d'oriente”, destinata ad essere definitivamente superata con l'imminente liquidazione dell'ultimo lembo europeo di impero ottomano ancora rimasto, negli anni a venire, a monopolizzare il dibattito pubblico sarebbe stata la “questione mediterranea”, sorta dai detriti della disputa precedente, ma, rispetto ad essa, “ancora più vasta e formidabile.”

L'Europa del secolo vigesimo si agiterà per codesto grandioso quesito, il quale si riassume nel risolvere se il Mediterraneo rimarrà ai popoli autoctoni che finora lo ebbero, oppure se il secolare dominio di questi dovrà essere condiviso e forse sopraffatto dai popoli nordici, che mirano a discendervi. In altri termini se i latini, i greci e gli arabi del bacino mediterraneo dovranno accettare il condominio dei germani, degli anglo-sassoni e dei sarmati.399

397 Cfr Ibidem. 398 Ibidem.

Di questi tre popoli, i germani risultavano essere ancora gli unici privi di reali acquisizioni territoriali lungo le sponde del bacino conteso, ma, dopo Lissa, essi avevano indotto l'Austria, loro avanguardia “a divenire potente in mare e a conquistare in Mediterraneo influenze ed attività di comando”. I sarmati (categoria etnico-linguistica utilizzata per identificare i russi), ostacolati nel loro proposito di trasformarsi in potenza navale mediterranea dal controllo ottomano sugli Stretti, si sarebbero invece serviti dell'aiuto e della connivenza delle popolazioni slavo-meridionali (e, dal '14 in poi, anche della guerra), per impadronirsi di Istambul e liberare in tal modo la via acquea che congiunge Mar Nero e Mar Mediterraneo. Gli anglo-sassoni, cioè i britannici, erano i veri dominatori indiscussi del mare attorno a cui, secoli addietro, era sorta la civiltà occidentale, perché di esso controllavano “le due porte, a Gibilterra e a Porto Said”, ed i punti strategicamente più rilevanti, Malta e Cipro, dimostrando di non esser disposti a rinunciarvi anche se, col passaggio di secolo, il baricentro della talassocrazia planetaria si era da esso nuovamente allontanato trasformando “l'immenso Atlantico” e “l'ancor più sterminato pacifico” nell aree di maggior frizione geo-strategica internazionale.400 Questa

disputa non poteva non interessare anche l'italia, che, a causa della sua particolare conformazione morfologico-geografica (penisola protesa al centro del Mediterraneo ed in possesso delle sue due maggiori isole), era destinata a giocarvi un ruolo particolare.

Se, dopo l'emancipazione sua del 1866, si fosse acconciata avvedutamenteal rango di potenza giovane e modesta conferendo attorno a sé tutti i minori stati mediterranei, avrebbe rappresentato una forza enorme, che le avrebbe dato la supremazia sull'Adriatico, prima, e l'avrebbe fatta arbitra del Mediterraneo, poi. Un Italia che avesse rappresentato, oltre le sue, anche le forze delle minori nazioni, come la Grecia, la Serbia, la Bulgaria, la Romania e forse la Spagna, non trascurando il mondo arabo, diventava la regolatrice del Mediterraneo. […] Invece l'Italia, piuttosto che divenire la prima delle potenze di second'ordine in Europa, preferì diventare l'ultima delle potenze di prim'ordine, paga di una etichetta vanitosa che l'obbligò di camminare a rimorchio di Napoleone III dal 1860 al 1870, della Germania dal 1870 al 1913, per poi rastare isolata nel momento decisivo del 1914; indebitandosi per mantenere l'alto rango di potenza maggiore e commettendo l'altro sbaglio di voler divenire grande stato nel Mediterraneo, con conquiste forse sproporzionate ai suoi mezzi prima di essersi assicurata la posizione nell'Adriatico.401

Nello specifico frangente storico in cui egli si trovava a scrivere, Roma era crocevia di proferte diplomatiche, ma a muoverle erano soltanto i benefici che gli offerenti ipotizzavano si sarebbero assicurati ottenendo la collaborazione dell'Italia. I membri occidentali dell'Intesa, però, impegnati a fingere di voler soddisfare ogni richiesta avanzata dalla diplomazia sabauda, pur di “spingerci ad entrare seco loro a partecipare alla guerra”, erano altrettanto solerti nel voler escludere l'Italia dal Mediterraneo, come ebbero modo di dimostrare “allorché ci videro incunearci tra l'anglico Egitto e la francese Tunisia.” Ancor

400 Cfr Ivi, p 8. 401 Ivi, p 9.

meno probabile, come dimostrato dalle vicende e dai contrasti dell'ultimo decennio, l'ipotesi di trovare appoggio ed aiuto nell'Austria, “nota perpetua avversaria nostra.” Infine, allearsi con altri popoli affacciantesi sul Mediterraneo era addirittura impensabile, perché “la Spagna era ed è troppo appartata dalla vita europea. E poi l'Italia novella nulla fece mai per amicarsi gli iberici” e per “stabilire più intimi legami cogli spagnuoli.” Con gli arabi, che pure un numeroso stuolo di consoli ed emissari di stato aveva sempre presentato come estremamente desiderosi di esser liberati da Roma, si erano definitivamente incrinati, perché “sbarcata in Libia, l'Italia ha dovuto fare come han fatto gli altri laggiù: ha esordito cioè, colla conquista militare, la repressione violenta, il governo della sciabola, con tutto ciò che ingenera odio biblico nei secoli fra razza e razza.”402

Restava la Grecia. […] balda, piena di vita, di patriottismo, d'avvenire […] la Grecia, che aveva accolto gli esuli nostri da Santarosa a Mercantini, da Tommaseo al Nannucci. La Grecia che non comandava di meglio che d'esserci amica. Fatto inesplicabile! L'Italia non seppe o non volle essere amica sincera della Grecia. È vero i misoelleni italiani – e sono sventuratamente la maggioranza – vanno dicendo che è stata la Grecia, che non ha voluto essere amica nostra! Ma tale ritorsione andrebbe […] provata; e sarebbe ben difficile ad essi di trovar documenti di seri tentativi greci a danno dell'Italia.403

Il governo di Roma, invece, con la sua smania di accreditarsi come attore di primo piano dell'interno del bacino mediterraneo, aveva sempre ostacolato le rivendicazioni nazionali dei greci, “a cominciare da quando il ministro Curtopassi offrì alle flotte europee a nome dell'Italia di occupare militarmente il Pireo coi bersaglieri nostri”. Questo propensione italica ad opporsi al legittimo processo di unificazione ellenica sarebbe poi proseguita partecipando alla dimostrazione navale di suda iniziata, proprio dall'Italia, nel 1886; facendo “da carabiniere a Creta per conto dell'Eurropa e contro le aspirazioni annessioniste” di Atene; negando “Cavala, città greca”, attraverso la feroce azione diplomatica operata, a Bucarest, dal rappresentante della Consulta ivi presente.

Da ultimo, “l'occupazione del Dodecaneso, che è greco”, motivata da esigenze belliche a guerra in corso, e da ragioni di politica estera ad ostilità concluse, ma che non sarebbe mai dovuta sfociare, come invece è avvenuto, in “quella marcata inimicizia al carattere greco e al sentimento greco, che i vari Ameglio ostentarono in quelle isole.”404

Si direbbe che l'Italia covi una gelosia o un'invidia verso questa antica gloriosa sorella della classicità; lo che è, in caso, una stupidità ed un errore. Una stupidità, perché nel grande lavoro dei popoli civili c'è posto per tutti, e la grandezza sua l'Italia la deve cercare nel diventare davvero illustre in sé stessa e per sé stessa in senso assoluto, non già desiderando che altri popoli languiscano in stato d'inferiorità, affinchè l'Italia

402 Cfr Ivi, pp 9-11. 403 Ivi, p 11. 404 Cfr Ivi, p 12.

risulti, nel confronto, più progredita di essi in senso relativo.405

L'unico modo proficuo e produttivo individuato da Colocci per garantire all'Italia la possibilità di accreditare sé stessa come grande potenza a livello internazionale, era suggerire al governo in carica di farsi rappresentante e paladino anche degli interessi altrui, tutelandoli di fronte alle grandi potenze. L'ipotesi di una politica estera improntata alla retorica del primus inter pares non andava, però, fraintesa, considerandola alla stregua di una involontaria adesione all'egalitarismo internazionalista, perché lo studioso di Jesi, nella sua speculazione intellettuale, additava al paese il paradigma di una talassocrazia non vincolata all'ottuso tentativo di estendere la propria giurisdizione su terre non sue, “giacché la potenza di una nazione marittima non è affatto in ragione diretta della sua vastità territoriale. Venezia antica e l'Olanda informino.”406

L'Italia, che ha un estesissimo sviluppo di coste in Europa, cui aggiunse testè tante sponde d'Africa e che per ora detiene un intero arcipelago sulle coste d'Asia, ha già […] un più che sufficiente dominio territoriale nel Mediterraneo. Potrà cercare il meglio. Sarebbe pericoloso cercasse il più. […] Non seguo quegli scrittori che […] instigano a sgranar mire gallofobe sulla Tunisia. Certo che, se si potesse scambiar la Libia con la Tunisia, converrebbe il baratto. Ma se ora l'Italia aggiungesse alla Libia la Reggenza Tunisina, essa si troverebbe con un impero coloniale africano addirittura sproporzionato alla metropoli […] L'Italia diverrebbe dunque una potenza più africana che europea. Senza calcolare che col vento di rivolta che colà spiraspira, già in lotta col senussismo e coll'islamismo fanatico, occorrerebbe all'Italia un esercito coloniale di almeno duecento mila uomini in permanenza per garantirsi contro l'elemento arabo.407

L'Italia avrebbe dovuto dunque abbandonare “le pericolose megalomanie”, smettendo di credere che il primato navale cui essa era destinata fosse inevitabilmente legato all'acquisizione d'una “elefantiasi territoriale sulle sponde mediterranee”. L'Italia si sarebbe dovuta invece concentrare sulla propria retrovia navale, l'Adriatico, impegnandosi a conquistare lì “durevoli basi territoriali”, che le consentissero di riparare, “finché siamo in tempo, l'errore recente di petulare sovverchia estensione nel maggior bacino prima di esserci assicurati la proprietà nostra naturale e defensionale nel minor specchio d'acqua adriatico.”408

Compromette le sorti della Patria e prepara danno alla gente nostra chi per farle balenare un rango superlativo nel Mediterraneo distoglie in questo momento l'anima italiana dalla preventiva riconquista del mare nostrum. E per contro, bene opera chi

405 Ivi, pp 12-13. 406 Cfr Ivi, p 15. 407 Ivi, p 16. 408 Cfr Ivi, p 17.

sostiene la necessità di ribadire ben forte nella coscienza di ogni italiano questa pratica e verace conclusione: l'Italia sarà fra le forti potenze mediterranee solamente se

prima avrà saputo diventare la più forte potenza adriatica.409

Interpretando la storia europea come una perenne lotta fra i popoli nordici (slavi o germanici), da sempre preoccupati di giungere “all'estuario del Mediterraneo”, e quelli meridionali, che da questa pericolosa calata, si sarebbero sempre dovuti difendere. Questa avanzata si sarebbe fatta strada seguendo tre direttrici differenti, tutte destinate, però, a convergere ed intersecarsi sulle sponde dell'Adriatico.

Sull'Adriatico, dunque, l'Italia in difesa delle razze autoctone del Mediterraneo e specialmente della latinità, cui essa appartiene, deve preparasi a sostenere l'urto della doppia invasione germanica e slava, che deciderà del dominio del mare interno. Basti questo a dimostrare quella suprema importanza per la vita e l'avvenire della nostra nazione e della nostra razza rappresenti l'Adriatico!410

Per opporsi a questa marcia trionfale della minaccia slavo-germanica (operata da russi, tedeschi e slavi meridionali), molto più pericolosa di quanto non siano state, in età tardo antica, le terrorizzanti cavalcate capeggiate da Attila e da Odoacre, perché operata attraverso il lento e criptico meccanismo della “penetrazione”, con cui l'invasore si sostituisce al vinto nella lingua, nella mentalità, nel carattere, nei costumi, e si impadronisce del suo territorio colle industrie, coi commerci, colla finanza, il governo di Roma avrebbe dovuto riconquistare all'Italia i “suoi confini naturali nell'Alpe e nel Mare.”411

La corsa al riparo, su, al murale dell'Alpe […] ci salverà specialmente dall'avanzata tedesca. La ripresa dei litorali adriatici ci immunizzerà dall'invasione slava. Codesta rivendicazione dei confini naturali sta in fondo nella formula, che il nostro popolo fissò già da tempoe il cuore suo determinò con due nomi […]: Trento e Trieste. La quale non è formula di romanticismo imbrianesco, né spunto da vecchio comizio come per tanti e troppi anni fece mostra di ritenere la cosidetta gente seria e i partiti sedicenti d'ordine; ma è proprio la visione netta e topografica, che l'anima misteriosa del nostro popolo ebbe del baluardo montano e della diga marina, che ci sono indispensabili per preservare la Patria dal doppio ciclone, che noi minaccia di sopra e di fianco, da terra e sul mare.412

Portare sino alle Alpi il confine politico anche nella parte nord-orientale del paese, infatti, oltre a garantire la possibilità di appoggiarsi ad un efficace ostacolo fisico ogni qualvolta fosse stato necessario difendere il suolo patrio da eventuali aggressioni straniere, avrebbe anche consentito all'Italia, non più minacciata o mantenuta in soggezione dal

409 Ibidem. 410 Ivi, p 22.

411 Cfr Ivi, pp 23-24. 412 Ivi, p 24.

blocco austro-tedesco, di appoggiarsi ai popoli germanofoni, ai magiari ed ai romeni per difendere sé stessa dagli slavi stabilitisi nella parte centro-orientale del continente europeo. Allo stesso modo, rivendicare il possesso della sponda orientale dell'Adriatico avrebbe assicurato “una seconda cintura litoranea”, sotto forma di “cuscinetto costiero” formato da italiani, albanesi e greci, capace di arginare e contenere la marcia al mare intrapresa dagli slavi del sud. Questo, ovviamente, non escludeva si potesse anche pensare di concedere loro “taluni sbocchi o sfiatatoi” territorialmente contenuti, per alleggerire la pressione che essi, nel loro costante tentativo di raggiungere il mare, avrebbe continuato ad esercitare.413

Quindi della improrogabile rivendicazione dell'Alpe nostra e dell'Adriatico là dove è nostro, dobbiamo forgiare l'acciaio della compatta volontà nazionale in quest'ora culminante per per l'istoria italiana. Codesto proposito di riscattare ad ogni costo le terre nord-orientali irredente deve diventare il caposaldo inestirpabile, l'articolo massimo della fede civica in cima al pensiiero di ogni vero italiano.414

Esistevano però, asseriva Colocci, gruppi di pressione non concordi nel focalizzare l'attenzione del paese (e con essa il grosso delle sue risorse) nel tentativo di conseguire questi obbiettivi, perché, pavidi ed insicuri, non li consideravano raggiungibili, dato il prevedibile antagonismo che sarebbe stato opposto dalla Germania guglielmina (nume tutelare della duplice monarchia e del suo desiderio di giungere a Salonicco attraverso i balcani) o, di contro, perché, ambiziosi e megalomani, avrebbero voluto dilatare sino all'inverosimile gli obbiettivi dell'espansione nazionale:

Non basta loro la Libia, non basta il Dodecaneso, non basta Valllona, vorrebbero la Tunisia, l'Abissinia e trinciano a torto e a traverso sulla carta geografica, spingendo lo spirito italiano (che per fortuna non li ascolta troppo) ad una politica alla Giulio Verne, straordinaria, mirabilante. Per esempio uno dei loro clours, da un pezzo in qua consiste nei cosidetti diritti italiani sull'Asia Minore. Non basta loro l'Africa, vogliono anche un tocco d'Asia! Fino a jeri non sapevamo di avere diritti sull'Asia Minore. […] ce li hanno fabbricati di sana pianta. […] e così l'Italia apprese che Adalia, la Palestina, l'Asia Minore ecc. devono essere roba nostra […]. E quanti mali o pericoli che oggi ci assillano e ci crucciano, quante inimicizie che ci siamo procurate, come il senussismo, l'autonomismo albanese, l'avversione dell'ellenismo, la diffidenza e l'antipatia che il nome italiano oggi suscita in Libia, in Siria, in tutto il Levante, noi dobbiamo alla perniciosa influenza esercitata da banchi romani e da banche pseudo-tedesche, da sindacati e da anonimati, che hanno premuto sullo stato e sul giornalismo, deviando le sane direttive verso cui dovevano indirizzarsi l'entusiasmo e il sacrificio della Nazione.415

413 Cfr Ibidem. 414 Ivi, p 26. 415 Ivi, pp 30-32.

Colocci definiva i primi cerariani, perché, come già negli anni in cui l'opinione pubblica italiana dibatteva circa la possibilità o meno di conquistare Roma, per farne la novella capitale d'Italia, ed i pessimisti liquidavano sbrigativamente ogni ipotesi annessionista, asserendo che l'imperatore di Francia non lo avrebbe mai permesso, allo stesso modo, gli scettici di inizio novecento si servivano della figura del monarca tedesco come spauracchio utile a smorzare “l'entusiasmo italiano verso l'irredentismo adriatico”.

Gli altri, invece, erano i cosidetti “imperialisti – esagerazione pullulata su ceppo nazionalista”, colpevoli di essersi prestati a fungere da megafono ideologico di un cartello di affaristi e di banchieri allettati dalla prospettiva di poter “lucrare su talune concessioni strappate al governo turco in Adalia.” Il tacito accordo che vincolava gli uni agli altri e che li vedeva anche disposti ad ingannare e a mentire, pur di garantirsi la possibilità di influire sulle capacità decisionali del governo, si sarebbe rivelato ancor più dannoso e deleterio, perché cercava di distogliere l'interesse dell'opinione pubblica nazionale “dalla giusta impresa, dalla santa impresa”, per indirizzarlo invece verso progetti megalomani, al fine di coinvolgere l'Italia “in interventi là dove essa diventa un'intrusa o una pitocca, in manie di grandezza pazzesche”. Inoltre, a causa del battage mediatico necessario a pubblicizzare questo modus operandi, benché opera di pochi, era andata diffondendosi in Europa l'erronea convinzione (condivisa anche da socialisti e clericali italiani) che Roma fosse affetta da smodate ambizioni espansionistico-egemoniche.

È una calunnia. Se volevamo l'ingrandimento per l'ingrandimento avremmo avremmo avuto il destino facile e a nostra piena disposizione. Bastava che […] fossimo partiti in guerra coi colleghi della Triplice Alleanza l'indomani stesso dell'apertura delle ostilità. A quest'ora noi italiani saremmo padroni di tutta la Contea, di Nizza e forse della Provenza. […] A quest'ora saremmo probabilmente a Marsiglia – la guerra si sarebbe accorciata per la certa vittoria della Triplice Alleanza e, alla stretta dei conti, Nizza e Corsica non ci sarebbero state negate. Codesta poteva, sicuro, essere la via dell'ingrandimento purchessia, anziché il ristoro naturale della sua sicurezza e della sua vita nazionale, che essa non può considerare raggiunto finché nel fondo del suo Adriatico si annidi l'insidia bicipite.416

Nell'agosto del '14, invece, mentre la situazione internazionale precipitava, l'Italia era rimasta immobile ed aveva dichiarato la sua neutralità, anche a costo di risultare infida ed infame; eppure i fondamenti stessi della politica estera (ragion di stato, tornaconto personale e “conseguimento di cospicui ingrandimenti territoriali) avrebbero dovuto consigliarle di inviare la sua flotta, assieme all'austriaca, ad “imbottigliare la flotta anglo- francese internata nei Dardanelli, facendo contemporaneamente marciare verso il Varo ottocento mila italiani”. Obbiettivo di un'eventuale ingresso in guerra dell'Italia non sarebbe dovuto essere, però, l'ingrandimento fine a sé stesso, bensì la possibilità di garantirsi “giusti confini a nord e ad est”, evitando al contempo che stati ostili o dichiaratamente nemici, acquisendo nuovi territori attraverso quella stessa guerra, potessero minacciare di rimpicciolirla. Per questo il governo di Roma si era ben guardato

dall'accettare l'ipotesi di un impegno anti-francese a nord-ovest.417

Non schierarsi a favore degli uni, non avrebbe automaticamente equivalso a parteggiare per gli altri, perché, a ben vedere, le ragioni che avevano portato l'Intesa ad opporsi armi alla mano al blocco austro-tedesco non potevano ritenersi neppure lontanamente compatibili con gli interessi italiani.

L'Italia vole il confine naturale al Brennero e le sue terre adriatiche. […] Devesi perciò ventilare la possibilità per l'Italia della guerra con l'Austria […] con la speranza non solo che l'Austria ne esca vinta, ma che sia liquidata. Ora tale obbiettivo coincide […] colle mire della Triplice Intesa nei riguardi dell'Austria? Affatto! È vero che la Triplice Intesa è in guerra attualmente coll'Austria. Ma altro è il far la guerra, altro è spingerla fino a volere che la guerra distrugga l'avversario. Nei riguardi dell'Austria dimostra la Triplice Intesa due gradi di ostilità: l'ostilità russa che, mirando ad impadronirsi della Galizia, è sensibilmente sincera […] quella invece anglo-francese […] è molle, blanda, piena di sottintesi politici e di inesplicabili menagements.418

L'Inghilterra, infatti, non aveva voluto “scontrarsi coll'Austria, né in terra, né in mare” e la Francia, pur essendosi assunta l'incarico di contrastare da sola l'azione asburgica in Adriatico, dove aveva inviato una flotta a combattere la marina imperia-regia, da più di sei mesi, combatteva con così poca convinzione da “rivela[re] un sottointeso politico di cui non ci sfugge la tendenziosità e che è visibile anche ai più profani.” Di conseguenza, poiché sarebbe stato fondamentale per l'Italia veder la duplice monarchia uscire dal conflitto fortemente diminuita o, meglio, addirittura annichilita, questa scarsa propensione di Londra e di Parigi ad impegnarsi a fondo per distruggerla, non permetteva