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5. Il c.d. ergastolo ostativo: disciplina

5.4. Le critiche all’ergastolo ostativo

5.4.1. La scelta di non collaborare

5.4.1.1. (Segue): Una scelta non sempre sintomo di appartenenza all’associazione.

Il sicuro ravvedimento richiesto dall’art. 176 c.p. per la concessione della liberazione condizionale presuppone una prognosi positiva circa il futuro comportamento del condannato, che si presume abbia accettato un modello di vita conforme alle regole della collettività107. Accertamento dove, lo ricordiamo, assumono un ruolo significativo alcuni indicatori esterni come ad esempio il comportamento generale e la partecipazione all’attività di lavoro e di studio108.

La valutazione prognostica deve tener conto, come ricordato dalla Corte costituzionale109, dell’avvenuta rottura o della mancanza di collegamenti con

107 G.MARINUCCI –E.DOLCINI,Manuale di diritto penale, op. cit., p. 633.

108 Ibidem.

l’associazione criminale, in assenza della quale non sarebbe possibile ipotizzare la cessazione della pericolosità sociale del detenuto. Dunque la collaborazione con la giustizia assume il ruolo di criterio di accertamento dello scioglimento del sodalizio criminale. E’ così chiara la volontà del legislatore del 1992 che ritiene raggiungibile il sicuro ravvedimento per l’ammissione alla liberazione condizionale, solo in presenza della condotta collaborativa ex art. 58-ter ord. penit. a prescindere dal percorso risocializzativo effettivamente svolto nell’istituto di pena.

Gran parte della dottrina, a seguito della sentenza della Consulta del 2003, ha sottolineato come la disposizione risulti troppo rigida nella sua applicazione poiché non è sempre adattabile alle diverse casistiche110.

Si ritiene che possa verificarsi una violazione degli artt. 3 e 27 co. 3 Cost. poiché la rottura del legame criminoso potrebbe ben realizzarsi a seguito di un processo di interiore revisione critica del passato che conduca il soggetto a una “nuova coscienza sociale”111.

La decisione del detenuto e in questo caso dell’ergastolano di non collaborare con la giustizia non è sempre sintomo di un’attualità di collegamenti con l’associazione criminale di originaria appartenenza e di mancata rieducazione. Il profilo problematico che si cerca di mettere in luce in questa sede è la troppa rigidità

110G. LA GRECA, Liberazione condizionale e criminalità organizzata nella giurisprudenza costituzionale, in Foro.it, 2002, I, p. 24.

111 In tal senso A. PUGIOTTO, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché l’ergastolo è incostituzionale, op. cit., p. 118 ss. Per l’autore una ragione di criticità dell’art. 4 bis ord. penit. attiene al dato normativo che “fa coincidere il sicuro ravvedimento con un comportamento di collaborazione fruttuosa con la giustizia. La collaborazione (magari forzata ed enfatizzata perché interessata) fa infatti uscire di galera. La revisione critica del proprio passato (autentica ed attestata da comportamenti certi di dissociazione, ma non di delazione) tiene, invece, dietro le sbarre per sempre il condannato, anche quando ormai è altro da sé”.

del sistema che tende a considerare “rieducato” il solo condannato che collabora, senza tener conto dell’effettivo percorso rieducativo svolto dal condannato e dei comprensibili motivi per cui non è sempre facile collaborare.

In primo luogo, l’assenza di collaborazione può essere l’effetto del timore del condannato di subire gravi ritorsioni ai danni dei suoi familiari112. Vero è che lo Stato dovrebbe assumersi il compito di tutelare le famiglie dei collaboratori di giustizia tramite la predisposizione di idonei programmi di protezione, ma vero anche che, nei fatti, i programmi di protezione non sempre risultano idonei allo scopo che si prefiggono113. In questo modo l’ordinamento mira a raggiungere due risultati: pretendere la condotta collaborativa per accertare fatti e responsabilità, e tutelare i familiari dell’ergastolano da possibili vendette, molto frequenti nell’ambiente mafioso114.

In secondo luogo, talvolta il detenuto decide di non collaborare poiché il suo apporto sarebbe utile solamente per accertare vicende criminose concluse da tempo con la motivazione di non “scambiare” la propria libertà con la detenzione di persone

112

L.EUSEBI, L’ergastolano «non collaborante», op. cit., p. 1220 ss.

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Numerosi collaboratori di giustizia hanno tuttavia deciso di rinunciare al programma di protezione poiché riconosciuti da affiliati nelle varie località segrete in cui erano stati mandati, manifestando inoltre il loro disagio per la ricorrente situazione di non ricevere i nuovi documenti di identità e per l’esigua indennità economica che lo Stato assicura ai collaboratori. Uno dei primi a denunciare questa situazione è stato Luigi Bonaventura, esponente della ‘Ndrina Vrenna Bonaventura Corigliano, che oggi vive senza protezione nel comune di Termoli.

114 Numerosi collaboratori di giustizia hanno tuttavia deciso di rinunciare al programma di protezione poiché riconosciuti da affiliati nelle varie località segrete in cui erano stati mandati, manifestando inoltre il loro disagio per la ricorrente situazione di non ricevere i nuovi documenti di identità e per l’esigua indennità economica che lo Stato assicura ai collaboratori. Uno dei primi a denunciare questa situazione è stato Luigi Bonaventura, esponente della ‘Ndrina Vrenna Bonaventura Corigliano, che oggi vive senza protezione nel comune di Termoli.

non più legate ad attività criminali. La delazione è spesso vista dal detenuto come una forma di scambio: la mia libertà (intesa come un regime penitenziario più mite) per la detenzione di un mio vecchio complice.

Concludendo si possono fare due considerazioni in merito alla scelta non collaborativa.

E’ chiaro che nella maggior parte dei casi la mancata collaborazione è indice di una scelta di permanere nell’associazione: in questi casi nessun percorso rieducativo è possibile poiché manca il presupposto della disponibilità ad essere rieducato.

In altri casi, e per i motivi sopra esposti, la mancata collaborazione potrebbe convivere con il distacco dall’associazione criminale di provenienza. La mancata concessione dei benefici penitenziari diventa intollerabile perché non tiene conto del percorso riabilitativo sostenuto dal condannato che ha portato ad un reale ravvedimento interiore.

La soluzione per risolvere questo contrasto è il superamento della presunzione assoluta posta dall’art. 4-bis ord. penit. di insussistenza dei requisiti che consentono l’accesso del detenuto ai benefici penitenziari tramite la predisposizione di una presunzione relativa, e in quanto tale superabile con adeguata motivazione, dal magistrato di sorveglianza. In tal senso dispone un’interessante proposta di modifica dell’art. 4-bis ord. penit. di cui si darà conto più approfonditamente nel corso della trattazione (cfr. infra, par. 5.6).

In ogni caso, poi, anche laddove non possa rinvenirsi un contrasto con il principio della rieducazione, l’ergastolo ostativo, in quanto pena necessariamente perpetua, si pone in contrasto - ad avviso di parte della dottrina - con un altro principio fondamentale ossia quello del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti.

Questo fattore ha mosso una parte della dottrina a criticare l’ergastolo ostativo sotto un altro profilo, garantito dalla Costituzione e da numerose convenzioni internazionali di cui l’Italia risulta firmataria.

Il particolare regime di esecuzione della pena previsto dall’art. 4-bis ord. penit., traducendosi in carcere a vita senza contatti con il mondo esterno, potrebbe violare il principio sancito dall’art. 27 co. 3 Cost. prima parte ove “le pene non

possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.

L’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1989115 prevede che: “Ogni

atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per propositi quali ottenere da essa o da un terzo informazioni o confessioni, punirlo per un atto che lui o un terzo hanno commesso o di cui sono sospettati (…) è, per il diritto internazionale, tortura”.

Ma la disposizione più interessante in tema di pena inumana è rinvenibile nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’art. 3 CEDU statuisce che:

“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o (trattamento) inumani o

degradanti”116, disposizione avente rango subcostituzionale per via del richiamo operato dall’art. 117 Cost. La giurisprudenza della Corte Edu ha fornito delle utili indicazioni per accertare la violazione o meno del divieto di pene inumane. A questo riguardo rilevano sicuramente le modalità concrete di irrogazione della pena che non deve pregiudicare la dignità umana dell’individuo che vi è sottoposto117. In particolare, la Corte valorizza una serie di elementi come le condizioni specifiche di detenzione118, l’età e le condizioni specifiche di salute del condannato119, la durata della pena120, nonché la percezione soggettiva del carattere umiliante di una determinata pena121.

In relazione all’ergastolo ostativo il carattere della durata della pena diventa fondamentale. C’è da chiedersi se una pena effettivamente perpetua sia da considerarsi conforme alla CEDU. La risposta sembrerebbe essere negativa a seguito della sentenza della Grande Camera del 9 luglio 2013 (Vinter e altri c. Regno Unito). La Corte Edu nella sua composizione più autorevole, ribaltando il verdetto emesso dalla quarta sezione della stessa Corte, ha ammesso, con particolare riferimento alla legislazione britannica, che l’ergastolo senza possibilità di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità di scarcerazione è considerato un trattamento degradante e inumano contro il detenuto condannato in via definitiva alla

116 Traduzione tratta da: C. E. PALIERO (a cura di), Art. 3 CEDU, Codice penale e normativa complementare, Milano, 2013, p. 35.

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Corte Edu, Grande Camera, 26 ottobre 2000, Kulda c. Polonia.

118 Corte Edu, Sez. III, 15 luglio 2002, Kalashnikov c. Russia.

119 Corte Edu, Sez. II, 20 gennaio 2009, Guvec c. Turchia.

120 Corte Edu, Grande Camera, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro.

pena a vita con violazione dell’art. 3 CEDU122 (per un’analisi più approfondita della legislazione e della giurisprudenza della Corte Edu si rimanda al capitolo IV).

Il meccanismo previsto dall’art. 4-bis ord. penit. non consente di valutare il percorso rieducativo del condannato dunque, in assenza di collaborazione, la pena dell’ergastolo sembrerebbe urtare con i principi pronunciati dalla Corte Edu.