Prezzi e distorsioni del mercato: gli esiti della liberalizzazione in Italia e l'indagine condotta dall'Autorità settoriale
TAB 3.3: Quota percentuale di ciascun operatore divisa per macro-aree (2005)
3.4 Problematiche relative al modello di borsa elettrica e all’organizzazione del mercato
3.4.2 Segnali di prezzo e allocazione efficiente degli investiment
In un regime dove agisca un monopolista verticalmente integrato, tutte le informazioni relative alla necessità di investimenti sulla struttura produttiva o sulla rete sono in possesso dell’azienda monopolista, che gestendo ogni fase della filiera può capire, a seconda dei costi che è costretta a sostenere, quali aree necessitino di maggiore capacità produttiva o di più efficienti modalità di trasporto dell’energia (Lo Bianco-Capé-Sapek, 2011). In un regime di mercato, spetta invece ai meccanismi del mercato stesso far sì che gli investimenti in capacità produttiva siano allocati efficientemente. In che modo la borsa elettrica avrebbe dovuto favorire l’allocazione efficiente degli investimenti? Attraverso segnali di prezzo (AEEG, 2005. Termini, 2005. Monsurrò, 2008). Come abbiamo più volte ripetuto, il mercato italiano è diviso in zone dove si formano prezzi di equilibrio diversi tra loro. Sta proprio nel differenziale dei prezzi che si formano sui vari mercati il meccanismo che dovrebbe incentivare l’allocazione efficiente degli investimenti (AEEG, 2005. Termini, 2005). Infatti, proprio per la corresponsione di un prezzo maggiore nelle aree importatrici di energia elettrica, i produttori sarebbero stati incentivati a collocare impianti in queste aree. Non solo: secondo l’AEEG, il differenziale tra i prezzi zonali di equilibrio rappresentava la “quantificazione esplicita del valore economico della capacità di trasmissione tra le zone”, elemento che avrebbe permesso la “valutazione quantitativa dei benefici economici di lungo periodo legati allo sviluppo della rete di trasmissione”.
Quindi, nell'ottica della necessità di sviluppare la rete di trasmissione e risolvere lo squilibrio territoriale della distribuzione degli impianti, sembra che nelle stesse differenze tra i prezzi zonali vi fosse l'indicazione di dove investire per favorire lo sviluppo del sistema.
Possiamo chiederci tuttavia se fosse presente qualche meccanismo, collegato al funzionamento del mercato, che invece possa aver “inibito” potenziali investimenti in aree che, a livello di prezzi e dunque di profitti, si mostravano teoricamente appetibili a investimenti da parte dei produttori. Secondo alcuni (Termini, 2005. Monsurrò, 2008), era in effetti presente un tale meccanismo distorsivo.
Come abbiamo accennato in precedenza, nel mercato borsistico i prezzi zonali di equilibrio erano differenti solo per le aziende produttrici. L’acquisto di energia, invece, era soggetto al meccanismo del PUN (Prezzo Unico Nazionale). Tale soluzione aveva per lo più intenti redistributivi. In altre parole, prezzi differenti a seconda dei mercati rilevanti in cui si fosse acquistata l’energia, avrebbero provocato un aggravio di costi per le imprese e per i consumatori del centro-sud e delle isole (cioè di gran parte del territorio nazionale), a causa del già discusso squilibrio nella collocazione degli impianti di produzione, nonché per i vincoli di trasmissione. Quindi, la previsione di un prezzo
unico medio, da applicare all’acquisto di elettricità in tutta la penisola, era stata concepita con lo scopo di dividere tra tutti i consumatori nazionali i costi connessi alle criticità della struttura produttiva italiana, senza farli gravare su aree specifiche (Monsurrò, 2008. Termini, 2005). Questo meccanismo, connesso a obiettivi di “equità” difficilmente discutibili, comportava però alcune distorsioni del mercato. Una prima criticità riguardava aspetti di stampo politico (o addirittura psicologico) più che economico. Il fatto che i consumatori non fossero in pratica “consapevoli” dei maggiori costi dell’elettricità nelle aree dove risiedevano comportava il cosiddetto pericolo NIMBY, acronimo inglese che sta per “not in my backyard”, ossia “non nel mio cortile” (Monsurrò, 2008). Questo elemento riguarda la riluttanza con cui una comunità accetta la costruzione di particolari infrastrutture nelle proprie vicinanze. Le infrastrutture tipicamente coinvolte sono centrali elettriche, grandi linee di comunicazione, termovalorizzatori, discariche, rami ferroviari, e molte altre tipologie di grandi opere di cui la popolazione non accetta la presenza sul territorio, pur riconoscendone l’utilità oggettiva. I consumatori, essendo soggetti ai medesimi prezzi di quelli di aree più sviluppate, non erano dunque adeguatamente sensibilizzati riguardo l’arretratezza a livello energetico delle aree ove risiedevano (Monsurrò, 2008). Questo, che potrebbe sembrare un problema di scarsa entità, assume proporzioni ben maggiori se consideriamo il fatto che la costruzione di nuovi impianti fosse soggetta ad autorizzazione da parte delle autorità locali (Decreto Bersani). Spesso tali autorità rifiutavano di approvare progetti non condivisi dall’opinione pubblica locale al fine di non perdere voti (Monsurrò, 2008).
A questo aspetto possiamo unire le probabili pressioni da parte dei produttori locali, interessati a mantenere il proprio potere di mercato: infatti, il PUN comportava che la domanda di elettricità fosse anelastica al prezzo. I consumatori, non percependo la reale differenza di prezzi rispetto ad altre aree, non erano incentivati a ridurre i consumi, e questo favoriva il potere di mercato dei produttori proprietari dei pochi impianti presenti (Monsurrò, 2008).
Da più parti (AEEG, 2005. Termini, 2005. Monsurrò, 2008) si invocava la rimozione del PUN onde completare la liberalizzazione del mercato elettrico, eliminare l’anelasticità della domanda e sensibilizzare i consumatori di fronte alla necessità di investimenti. Tuttavia si poneva una contraddizione (Termini, 2005): era davvero necessario aggravare (attraverso prezzi più alti) le condizioni delle imprese del centro-sud, in una situazione che già di per sé aveva evidenziato una media piuttosto alta dei prezzi in Italia (quantomeno rispetto al resto d'Europa)?
Nella nostra opinione, sarebbe stato forse più adatto sviluppare una congrua struttura produttiva nelle aree carenti, e far sì che una maggior capillarità nella distribuzione degli impianti produttivi e un maggior sviluppo della rete di trasmissione ponessero tutte le imprese nazionali su un pari livello, eliminando quindi il meccanismo del PUN quando i problemi strutturali fossero stati risolti,
e non al fine di risolverli (creando, nel frattempo, delle disparità). In definitiva, le infrastrutture nazionali non erano ancora “mature” e adatte ad una piena e completa liberalizzazione del mercato, intesa sia dal punto di vista della domanda che dell'offerta, e per raggiungere le condizioni ideali onde promuoverla sarebbero stati probabilmente necessari investimenti ancora una volta “pilotati” a livello centrale e non “incentivati” da meccanismi di mercato i quali, in un primo momento, avrebbero portato ad una struttura dei prezzi iniqua.