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IL CARATTERE MULTIFORME DELLA DUPLICAZIONE

III.6. Simbologia della dualità in Nostra Signora dei Turch

Ai gomiti e ai piedi avranno stelle; Benché impazziscano saranno sani di mente, Benché sprofondino in mare risaliranno a galla, Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo; E la morte non avrà più dominio.125 Amami! È tanto, sai, se abbiamo salvato gli occhi! Flora vestiti e vattene! Non c’era nessuna Flora.

Oppure s’è vestita e se n’è andata. Tornando verso lo specchio: adorami!

                                                                                                                         

124 Ivi, pp. 91-92.

125 DYLAN THOMAS, E la morte non avrà più dominio, in ID., Poesie e racconti, a cura di Ariodante Marianni, Torino, Einaudi, 1996, p. 22 (1933).

Sulla tavola ardevano bottiglie, candele e coppe di gerani. Lasciò cadere le vesti che aveva raccolto in grembo ed erano rose.126

Il testo127 è costituito come una fluida partitura, un flusso di coscienza in cui visioni e associazioni poetiche da un lato evocano quel patrimonio della memoria collettiva e dall’altro riconducono al più intimo vissuto artistico e biografico128 di Bene. Nel tessere i fili di questo grande affresco egli procede a un intricato accumulo di materiali (sempre per “sottrazione” – come spesso amava ricordare –): una liturgia sconsacrata, (eppure a suo modo devota alla memoria cristiana), dal Barocco delle prime esperienze teatrali di Bene (in una compagnia che potremmo dire in modo ironico, mescolava in modo disinvolto gorgiera e coturni), alla parodia degli innumerevoli Io che dominano l’uomo.

L’opera si costituisce come una traccia in divenire, un excursus dove la successione temporale viene meno e a prevalere è un tempo sospeso, caotico, scombinato in cui l’occupazione turca si mescola all’irreale (o al reale?) risolvendosi in una gita turistica129 o dove Santa Margherita appare fumando a letto mentre sfoglia una rivista femminile.

Materiali difformi, frammentari che ripercorrono quel microcosmo complesso della potenza psichica, di trabocchetti mentali, fatti e disfatti quasi simultaneamente, vere e proprie spirali al limite dello psicotico che confluiscono in reiterate ripetizioni di riti dissacranti celebrati nell’angusto spazio di una stanza.

                                                                                                                         

126 CARMELO BENE, Nostra Signora dei Turchi, in ID.,Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, p. 47.

127 Nostra Signora dei Turchi è un romanzo del 1966 di un giovane Carmelo Bene, insieme regista, scrittore, drammaturgo e attore. Il testo ha avuto una trasposizione teatrale nello stesso anno e cinematografica nel 1968. 128 È il suo immaginario e al contempo reale “sud del sud dei santi” lo sfondo pugliese del romanzo, “un luogo non luogo”.

129 «Questo attore si vanta di non essere bravo. Si professa cretino addirittura. Si promette capace di ricondurre la Cristianità collettiva alla irresponsabilità personale. Che sarà di Otranto? Appunto. Chi difenderà le mura? Nessuno! Ve li immaginate i turchi sfondare una porta aperta? Entreranno. Non troveranno una fede da castigare. Si ridurranno a vagabondare per le vie del centro, turisti alla ricerca di quanto avrebbero dovuto fare, perduti a sera tra le inesattezze della loro storia, finché scandalizzati dai prezzi, se ne andranno, contravvenendo ai termini della crociera. Una stagione estiva come un’altra» (C.BENE, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 92).  

In fondo, in questi riti, non era mai riuscito a superare i preamboli. Si era smarrito nel rituale, sfinito, ferito addormentato o ubriaco, e senza grazia. Appassionato, oh sì! Ma aveva scelto di attribuire al non metodo e alla sicura impreparazione fisica, i collassi che volta a volta gli precludevano lo stato finale di demenza. E non a torto.130

È una soglia, l’entrata in un santuario dell’Io, in cui si trova il protagonista. Un “luogo non luogo” perché non appena cominciamo a credere nella sua follia, lo scopriamo invece incredibilmente lucido: egli sembra “figurarsi” in modo consapevole le sue stesse “non- rappresentazioni”.131 Uno spettacolo a se stesso in cui egli è attore e spettatore insieme. In questo estremamente autobiografico, Nostra Signora dei Turchi preannuncia un modus operandi a venire.

[…] Allora indossava un camice da chirurgo, lentamente, e, così paludato, disfaceva il letto e lo rifaceva, rincalzando anche il lenzuolo superiore. Poi, rivolto a nessun astante in apprensione, diceva: “Mi dispiace!” Si liberava del camice e, portandosi allo specchio, si spettinava, balbettando commosso: “Perché? Perché?” Si rispondeva esitante, come se intervistato, in francese. Voleva affacciarsi al balcone, come se reclamato, a ringraziare…132

L’opera si costituisce più che altro di semi, embrioni, punti di partenza sparpagliati lungo quella che si può dire una interminabile fase progettuale (poiché per Bene è il progetto in quanto tale a darsi, nel continuo farsi e disfarsi, nell’impossibilità del portare a compimento, nel reiterato ripetersi e ritornare...), in attesa di essere plasmati dal lettore. È il progetto stesso a perdersi, nell’inammissibilità dell’attuare, dell’agire, di un procedere che in fondo non ha interesse, che si smarrisce. E, d’altra parte, abbiamo un corpo reificato, santificato, nell’esasperazione che si auto-infligge il martirio fisico nelle rinnovate e calcolate cadute dal

                                                                                                                         

130 C.BENE, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 48.

131 Si veda in proposito il saggio di GILLES DELEUZE, Il teatro e la sua critica (in C. BENE,Opere, cit., pp. 1431- 1465).

balcone o dai supplizi replicati più volte davanti allo specchio:

Chiuse gli occhi. Si ricordò dell’altezza, quasi un primo piano, scavalcò il parapetto, abbracciandovisi forte, fingendo di chiamare: “Aiuto!”, e si lasciò andare giù, sulla strada. Cadde seduto, ma dolorosamente. Non era la prima volta che si buttava dalla finestra. Nessuno accorse. Era livido e sanguinava, soprattutto dalla fronte. Si guardò attorno e rimase immobile, disteso, finché vide, o gli parve, venire gente da lontano alla sua volta. Provò ad alzarsi e gli fu difficile. Tuttavia si trascinò verso le scale di casa, sempre rassicurando: “Non è successo niente!” Per le scale, carponi, se fosse stato sicuro che nessuno lo avesse notato, avrebbe voluto mettersi a correre. Non potendo, si trascinava canterellando.133

Un corpo vessato, dove il sacrificio è incolpevolezza, un precipitare che è ardimento sprovveduto, grazia senza conseguenza, senza tempo. O ancora, dopo l’indiscutibile decisione di partire (non prima di aver ben bene assicurato la casa murando porte e finestre) l’atleta del cuore,134 spossato,135 si addormenta e si risveglia:

Il gesso, ormai asciutto sul suo viso, gli aveva teso i lineamenti. Si sfiorò con le dita la pelle incartapecorita e faticò a furia di smorfie a muovere le labbra. Aveva dormito con la bocca aperta . Risalì sul tavolo e incastrò l’ultimo mattone. Ridiscese. Si liberò di quella maschera addirittura ricorrendo alla spatola. Prese a scorticarsi. Poi a lavarsi più volte. La pelle ne era rimasta irritata, come ustionata. Si rimproverò non poco la leggerezza di aver adoperato quel cerone al servizio di un trucco interiore. Pure, lavandosi, prese a canzonarsi insinuandosi: “lo stai volendo tu”.136

Il testo si muove di continuo dalla dimensione viva dell’inconscio al raffronto con la storia rievocato dall’occupazione turca. Viene così a instaurarsi, attraverso la scrittura (o “riscrittura” di Bene? Giacché si può solo “riscrivere”, “ri-citare”) un continuo colloquio del non senso, un esausto dialogo sconnesso, fra la tradizione e le istanze del presente, collegando,

                                                                                                                         

133 Ivi, p. 66.

134 Come l’avrebbe chiamato Artaud.

135 Non certo per la fatica, ma per quel suo eroismo da preludio. 136 C.BENE, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 97.

gettando un ponte tra quei mondi originari ed enigmatici della simbologia cristiana e dell’inconscio e d’altro lato, della “contemporaneità”.

Vi è un protagonista non protagonista, se così si può dire, perché egli non è un “personaggio”, piuttosto la figura di un lucido folle visionario che prende vita dal demenziale nonché straordinario irrompere di un inoffensivo delirio, vaneggiato in una rarefatta e disperata farsa barocca.137

A tratti diventa maniacale, con gesti improvvisi e rapidi per poi bloccarsi e fissare il vuoto con uno sguardo ubriaco, beffardo, ormai saturo di sbigottimenti o stupori innocenti; uno sguardo che si risolve in seguito nel ghigno limpido di chi, alla fine, è improvvisamente pieno delle proprie azioni, come in un sogno nitido.

Ben saldo a quel suo delirio diabolico che è il suo supplizio e il suo grande amore, percorre tutta una scala di eccitazioni e turbamenti, passando da momenti di foga impetuosa a una commovente, rassegnata, quasi passiva, umanità. Così nelle sue peregrinazioni infruttuose sembra mescolare una vacuità terribile e una lucida presenza a se stesso.

La bandiera italiana e il passaporto138 non sono immuni da quel disordine del significante contro cui egli si accanisce:

Si strappava dal fondo della tasca il passaporto e lo buttava dalla finestra. Era incredibile, ma, quasi simultaneamente, correva giù per le scale a raccattarlo sul selciato. E tornato al balcone, lo gettava in strada ancora una volta, e ancora una volta si precipitava a riprenderlo. E questo per un’infinità di volte.[…]Talvolta gli accadeva che l’oggetto non oltrepassasse il balcone, trattenuto magari dall’inferriata. E lui, comunque risoluto a ignorare la propria maldestrezza, si precipitava giù per le scale, frugava dappertutto, in strada, oltre la siepe, fino a che , vista vana ogni ricerca, si disperava fino a mettersi a piangere. Fortuna che ritornava al balcone per buttarcisi anche lui e rinveniva così il suo documento, addirittura

                                                                                                                         

137 È noto che Bene rinnegasse l’idea del personaggio: egli si riferiva piuttosto “situazioni”.

posato sulla balaustrata. Allora lo chiudeva in un cassetto, ma sotto chiave.139

Alla figura caleidoscopica del protagonista si alternano sulla scena diversi personaggi simbolici: i vescovi, Santa Margherita, il frate e lo stesso fantasma del protagonista (che in sella alla sua giumenta porterà via come un cavaliere d’altri tempi la sua giovane e sensuale fanciulla scomparendo all’orizzonte).

Un viaggio poetico e allucinato verso zone di se stessi non raggiungibili, zone altre, che portano a un ennesimo travestimento dentro al travestimento. Lo sdoppiamento di lui e la metamorfosi di Santa Margherita in una non meglio precisata donna mortale proveniente da chissà quale altra epoca, costituiscono un emblema di quello che è il romanzo dentro al romanzo, il Doppio che si specchia nel suo stesso specchio.

Figure atemporali, emerse da chissà quale inconscio collettivo, formano un coro che è presente quasi interrottamente: con movimenti lenti, veloci o immediatamente interrotti, bloccati in immagini. Una danza quasi, rotta dai singhiozzi di un bambino che improvvisamente compare tra le innumerevoli andate e i ripetuti ritorni. Commuove la carezza sbadata, arrendevole a quel mucchio di capelli biondi a cui il protagonista si abbandona, come in un ricordo d’infanzia, in una casa che non sa dire se è la sua.

Figure che, moltiplicando i propri echi, vivendo doppie nature, dischiudono e brillano nella loro fertile nudità. A dare ulteriore forza scenica, le immagini create dall’icona primordiale di Santa Margherita:

Proprio qui gli appariva S Margherita. Il terrore di lui lo guadagnava a terrazze, quando l’immagine della Santa, dolcissima, girava per la stanza, come trainata da cuscinetti a sfera, strapazzata dalla fede dei devoti, tutti miracolati, e gli ripeteva come un disco

                                                                                                                         

incantato in una articolazione celeste di perfidia: “Ti perdono, ti perdono!”.140

Nondimeno a tratti, ella sembra mobilitare il dissolversi di un’immagine: il suo stesso volto, deformato, che si combina con quello di un’altra donna, dove le caratteristiche della Santa si alterano, rovinano, in una maschera guastata dalla gelosia o dal delirio (e poi di chi?).

Una Santa, compunta nel dolore, ma che insieme è anche dea della distruzione (dispensatrice di vita?) e al contempo di salvezza, a restituire tutta una simbologia sul femminile. Santa Margherita che, nella molteplicità delle sue forme, è anche assillo, incantatrice, leggera perfidia, che sembra lasciarsi condurre dal protagonista ma che allo stesso tempo lo assoggetta quasi a ipnotizzarlo.

Ella è complice della scena, della rappresentazione di cui egli vuole farla partecipe, ma anche agente sovvertitore dello spettacolo alle cui regole non vuole sottostare, come una bimba capricciosa, tradita:

Poco dopo erano a tavola tutti e quattro: lui e la Santa, il ricordo di lei e se stesso. Erano a tavola tutti e quattro. “Sono eccezionalmente in vena stasera!” disse la Santa mescolando le carte. “Noi due giochiamo insieme”, proclamò rivolta al balcone. “È chiaro?!” aggiungendo esasperata, non trovando riscontro al suo progetto. Qui gli pestò decisamente un piede. O forse aveva inteso destinare le coppie di gioco da un’altezza vertiginosa, lirica, spietata. “Noi due stiamo insieme!” Gli chiarì in parole povere, specchiandosi. “O preferisci di no?!” Ma sì era chiaro, un tavolo da quattro, due apparenze sfidanti due realtà. “Tu sei lì e sei la, hai capito?” gli disse infine credendosi esplicita. “Io sto qui e di qua la signorina. O non ti va?!” Anche questa coda, questo consultarlo, dopo aver inventato lei quella sistemazione mostruosa, questa coda lo innervosiva non poco.141

In Nostra Signora dei Turchi c’è quella contraddittorietà intrinseca per cui ogni cosa si affianca al suo contrario, a ogni immagine il suo rovescio. Se il corrispettivo linguistico è

                                                                                                                         

140 Ivi, p. 59. 141 Ivi, p. 138.

l’ossimoro, nei personaggi questa ambiguità si esplica nelle loro molteplici tonalità e sfaccettature.

Così ad esempio il frate, figura che compare all’improvviso, sollecita affabilmente e senza molti scrupoli il protagonista di seguire i suoi insegnamenti secondo una personale, contraddittoria e discutibile disciplina. Una scienza, la sua, alquanto impalpabile ma senz’altro stimata dall’allievo, che sembra quasi volteggiare nell’aria nel portare a compimento le sue istruzioni.

Un frate che è un po’ direttore d’orchestra, che mentre biascica ammonimenti e sentenze censurabili scola la pasta e chiede al suo protetto di baciargli la mano mentre questi, cresciuto all’ombra del suo magistero, si adopera al meglio per rimuovere l’acqua che ha invaso la cucina.

È lui il grande mentore del protagonista, medium incomprensibile tra il mondo reale e quello dell’immaginario, sconclusionato messaggero di verità che si convertono in fandonie e viceversa a seconda della volontà di chi le ascolta. Viene così a comporsi il quadro allucinato di un sodalizio irreale, reo, perverso.

In quest’opera non solo regna lo strano sapore di sangue rappreso, ma anche la simbologia del vedere in tutta la sua ambivalenza: è noto che il termine theatron rimanda al vedere, un vedere che è apparizione, della Madonna, dei Santi.

Una proliferazione di visioni che viene colta dal lettore in modo intuitivo, e che, in quanto intuizioni (intese come elaborazioni condensate in sintesi emozionali), seguitano a nutrire il processo immaginativo (la moltiplicazione di echi, risonanze, amplificazioni, distorsioni non solo della realtà ma di quel patrimonio culturale che nostro malgrado ci appartiene), infondendo risvolti e sviluppi imprevedibili al romanzo.

E, ancora, gli occhi della cattedrale di Otranto, occhi che guardano, (occhi della percezione senza storia, o dove la storia si accorda al favoloso, leggendario senza tempo

dell’invasione turca) che assistono allo scivolare degli eventi verso il fato che ritorna. Egli del resto era lì allora, in qualche altra vita era un martire, come oggi, “santo”. È un’altra celebrazione della duplicità del romanzo che mette in luce le infinite possibilità interpretative, l’indagine dei molteplici percorsi di lettura del testo.

Stava immobile, come nell’urna perduta, ma, a differenza degli altri martiri, oltre ai pezzi di fegato, alle membrane, ai tendini, aveva conservato gli occhi, così che gli altri lo vedevano in un’urna, mentre lui li vedeva in un’altra urna. Era un meriggio di poche visite, tanto che avevano deciso di chiudere la cripta e riaprirla magari a sera, quando il numero dei pellegrini sarebbe senz’altro cresciuto […] “Mi vedo visto” pensava. E il suo viso grondava ormai dentro una confusione di perle e diamanti, astri diurni che, tremanti, cadevano a spegnersi e risalivano accesi dalle lacrime, disinteressate e sante, a tempestarlo di gioielli diversi, fino a smarrire il volto, tutto un tesoro segreto in lui. Chi lo avesse ammirato dal di fuori, lo avrebbe veduto solamente piangere, anche perché non avrebbe osato forzare i legni dell’urna e frugare; avrebbe dannato le mani in carezze impossibili, non avrebbe trovato mai due perle nere. Aveva ragione lei a tranquillizzarlo. Non gli avrebbero cavato gli occhi.142

La parola in tutta la sua ambivalenza, nel suo incanto poetico e sintetico-simbolico, parola che si specchia nel suo contrario fino a coincidere nel destino che si compie, come la ciclicità del romanzo: un inizio, una fine, una parabola che torna, che si specchia, che lascia l’interrogativo di una coincidenza al termine dell’opera: «Si sono svegliati, Flora… vestiti e vattene!” disse piano scoprendo il lenzuolo deserto. Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata».143

Tutto ciò consente uno squarcio di immaginazione sulla forza autoriale, scenica e ipnotica di questo grande attore-autore che seppe essere innovativo e sovversivo pur, a veder bene, nel rispetto della grande tradizione.

Le reiterate cadute dal balcone, gli svenimenti tra la folla che non sa che soccorrerlo

                                                                                                                         

142 Ivi, p. 86. 143 Ivi, p. 175.

significa ucciderlo, martirizzarlo, lui, già impegnato a martirizzarsi da solo, ma senza esito, istrione di se stesso, là dove le piaghe sono come dice Santa Margherita, insufficienti ridicole («questo lusso di sangue non ti si addice»144).

Farsa dell’Io macchiato dal sangue “incolpevole”, “limpido” del protagonista, e dallo spasmo, del compimento disfatto a più ritorni, senza possibilità di ravvedimento, dove l’unica strada da continuare a percorrere è quella già intrapresa del martirio, fino alla fine, fino all’indagine praticata scrupolosamente su di sé, della morte: una morte che però si scioglie sempre in un addormentarsi, un riposare.

Dormiva. Quando era stanco dormiva a bocca. aperta .Come un cretino. Sarebbe stato felice di saperlo. Le notti le avrebbe trascorse a mirarsi dormire. Vivere è in fondo assistere a una disgrazia o a una festa, ma solamente assistere, coinvolti fino a un certo punto, testimoni al massimo e non più… [...] Volare. Assistere con tutta l’anima, guardare con tutta l’anima. Appassionarsi come ad un caso altrui. Vergognarsi dei propri problemi. Indulgere. Essere buoni con se stessi. Dov’è un carcere, liberare una farfalla. Ucciderne una invece di andarsene. Dormire. Volare addormentati, per amare senza essere amati, o anche riamati. Decidere soprattutto quando non dipende da noi, e se dipende da noi ubbidire. Dormire comunque. O semplicemente tradire.145

Con Bene assistiamo alla negazione scenica dell’interpretazione della pazzia, dove l’attore si spoglia progressivamente degli abiti rimanendo con una veste bianca, un sudario, ma si tratta sempre di una irrisione verso se stesso.

Si tratta allora di cantare l’impossibilità del fare, Bene non modula la scena, il romanzo, ma l’impossibilità di farlo. È una riflessione sullo scacco: in luogo dell’agire, mostrarne l’impossibilità, l’inattuabilità, attraverso momenti di grande poesia e continui riflessi, dove, in fondo, è lo stesso lettore a specchiarsi. «Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono,

                                                                                                                         

144 Ivi, p. 146. 145 Ivi, p. 60.

quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa».146

Nostra Signora dei Turchi non si può decifrare e risolvere, è un momento effimero di

poesia (non sembra quel “morto orale” contro cui Bene infieriva parlando del testo scritto), è un’epifania, la si può immaginare, raccoglierne la memoria, o forse riscriverla.