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Per sfatare il falso mito che continuamente rapporta la figura dell’otaku con quello degli hikikomori non basta la considerazione fatta precedentemente da Marc Hair- ston, ci avvarremmo così degli studi realizzati dal Dipartimento di Psichiatria del Policlinico A.U.O. di Catania89 e condotti da un’equipe di esperti del settore: le

loro ricerche si sono concretizzate in un articolo intitolato “Il fenomeno dell’hiki- komori: cultural bound o quadro psicopatologico emergente?” pubblicato sul

89 Dipartimento di Chimica Biologica, Chimica Medica e Biologica Molecolare, U.O.P.I. di Psi- chiatria, A.U.O. Policlinico di Catania.

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Giornale Italiano di Psicopatologia90. Secondo quanto riportato, in determinati

contesti socioculturali possono verificarsi delle patologie determinate dalla tradi- zione e dalla cultura che risultano specifiche di una ben precisa popolazione ma che attraverso l’ampia diffusione dei mezzi di comunicazione globale possono es- sere artefici di un contagio transculturale. Il Giappone rappresenterebbe un esem- pio d’eccezione al riguardo, dati i contrasti generati dal rapporto tra antico e mo- derno che determinano una situazione di parallelismo tra tradizione, sviluppo tec- nologico e comunicazione di massa. In questo contesto, a subire più sensibilmente l’influsso di una consistente crisi socioculturale sono gli adolescenti ed è preva- lentemente in questo paese, ma anche in Corea ed in Taiwan che si è diffuso il fenomeno degli hikikomori, definito come “sindrome culturale”91. In ambito orien-

tale risulta periglioso affrontare l’analisi di determinate patologie interconnesse con l’ambito sociale per problematiche di ordine metodologico a cui si rapporta specificatamente la psichiatria transculturale:

“Mentre le basi scientifiche della cultura occidentale permettono di classifi- care i sintomi psichiatrici in quadri ben precisi, nei luoghi in cui le sindromi culturali si verificano, vengono spesso accettate come eventi non patologici. Inoltre, il sistema medico occidentale opera una netta distinzione fra mali di ordine fisico e mali d’ordine psichico; nelle culture tradizionali invece questa distinzione si perde, sia per quanto riguarda le procedure terapeutiche, che spesso non si differenziano, sia per quanto attiene alla ricerca delle cause della patologia. Lo scopo della psichiatria transculturale è quello di individuare il rapporto esistente tra psicopatologia e manifestazioni culturali, in modo tale

90 E. AGUGLIA, M.S. SIGNORELLI, C. POLLICINO, E: ARCIDIACONO, A. PETRALIA, Il

fenomeno dell’hikikomori: cultural bound o quadro psicopatologico emergente?, in «Giornale Italiano di Psicopatologia», 16 (2010) citato da http://www.jpsychopathol.it/article/hikikomori- phenomenon-cultural-bound-or-emergent-psychopathology/

91 E. AGUGLIA, M.S. SIGNORELLI, C. POLLICINO, E: ARCIDIACONO, A. PETRALIA, Il fenomeno dell’hikikomori: cultural bound o quadro psicopatologico emergente?, cit., p. 157.

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da poter individuare gli stressors sociali che in un soggetto vulnerabile deter- minano il manifestarsi del quadro patologico. In tal senso, studiare il feno- meno dell’hikikomori comporta un approfondimento della dimensione socio- culturale nipponica, estremamente differente da quella occidentale.”92

Partendo da una considerazione della cultura come di una impalcatura di ori- gine culturale che si pone come scheletro portante dell’edificio psichico, possiamo considerare l’essenzialità di filtri culturali che forniscano gli strumenti adeguati all’attuazione dei suddetti processi psicologici93: l’analisi socioculturale permette

così di risalire alle problematiche che determinano la formazione e lo sviluppo della suddetta patologia. Dobbiamo considerare che hai tempi della ricerca del Po- liclinico di Catania, il 2010, risultano affetti dalla sindrome circa due milioni di adolescenti: una cifra sicuramente molto consistente e che spiega perché rappre- senti una questione molto delicata e sentita dalla popolazione giapponese, non solo per la sua ampia diffusione ma soprattutto per i sintomi. L’hikikomori è un adole- scente che si oppone all’intero sistema socioculturale giapponese attuando una re- clusione volontaria che esprime il desiderio di distaccarsi sia dai valori tradizionali, sia da l’intera società. La figura dell’hikikomori si trova molto spesso stereotipata all’interno di manga e di anime: un ragazzo o una ragazza che vivono rinchiusi all’interno della loro cameretta con le porte e le finestre rigorosamente sbarrate ed in completa solitudine94. Questa espressione di estremo rifiuto deriverebbe quindi

da quel contrasto profondo tra i valori culturali del passato e l’intenso e fulmineo progresso tecnologico che ha segnato il paese, sommandosi poi con un processo di occidentalizzazione che ha modificato la base di sviluppo culturale. L’articolo su cui ci basiamo ammette esplicitamente che le patologie emerse hanno iniziato ad interessare anche l’Italia in quanto questa condizione che molto facilmente po- trebbe apparirci “esotica” se pecchiamo di orientalismo, risulta invece molto più

92 Ivi, p. 158. 93 Ivi, p. 157. 94 Ivi, p. 158.

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concreta e vicina di quanto si pensi: sembrerebbe che siano stati constatati casi di hikikomori italiani nel Sud del paese, in seguito alla realizzazione che la società giapponese non sia poi così diversa da quella italiana o almeno non lo sia in quelle dinamiche familiari che spingono i genitori a trattenere i figli in casa, oltre quell’età in cui si presuppone essi necessitino di indipendenza95. Il termine “hiki-

komori” fu coniato da Tamaki Saito e può essere tradotto con “ritiro sociale” ma i primi casi furono scoperti da Y. Kasahara nel 1978 che indicò quella patologia come “ritiro nevrotico” osservando alcuni soggetti che abbandonavano la scuola o il lavoro per lunghi periodi di tempo senza presentare segni di depressione o schi- zofrenia96. Per essere diagnosticati come hikikomori sembra sia necessario aver

trascorso almeno sei mesi in completo isolamento, anche se con questo termine si deve intendere nessun contatto oltre ai componenti della famiglia: il periodo medio indicato è invece trentanove mesi ma si ammette che la sindrome può protrarsi da alcuni mesi a parecchi anni. Per quanto riguarda invece l’identikit del classico hi- kikomori, il fenomeno sembra attestarsi tra i maschi primogeniti di età compresa tra i diciannove ed i trent’anni; per le donne invece la situazione sembra notevol- mente diversa: rappresenterebbero solo il 10% del nucleo ed il periodo di reclu- sione risulterebbe notevolmente più basso97. La stima precedentemente indicata di

ben due milioni di hikikomori che, ripetiamo è risalente al 2010, viene indicata nell’articolo da cui stiamo traendo i dati, come in continua crescita; l’attendibilità delle fonti utilizzate però viene messa in dubbio da problematiche relative all’ac- quisizione delle fonti stesse:

“[…] l’attendibilità dei dati che descrivono la prevalenza e l’incidenza di hi- kikomori appare limitata da diversi bias; da una parte, la reticenza delle fami- glie a denunciare i casi, dall’altra talora la sovrastima del fenomeno dovuta ad una scarsa conoscenza dello stesso. Forse una delle stime più attendibili è

95 Ibid.

96 Ibid.

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stata fornita da Furlong che riferendosi ai dati dell’Università di Okinawa parla di 410.000 soggetti, ma secondo i dati riferiti da Saito la prevalenza di hikikomori sarebbe di due milioni di soggetti, dato confermato anche dalle stime di Takatsuka.”98

Come viene specificatamente espresso vi è di base una scarsa conoscenza del fenomeno che oltre a falsare i numeri si trova congiunta con il timore delle famiglie a rendere pubblica una situazione familiare notevolmente sanzionata sul piano so- ciale (più avanti risulterà chiarissimo il motivo) e questo ci costringe a considerare i dati solo come significativi di una diffusione della sindrome molto accentuata ma ancora realmente imprecisata. Altri dati sulla figura dell’hikikomori giungono di- rettamente dal Ministero della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali attra- verso uno studio condotto nel 2003 da cui sono state dedotte quelle caratteristiche che abbiamo precedentemente accennato; oltre ad esse, sembrerebbe che si debba aggiungere una prevalenza di soggetti appartenenti a famiglie di ceto sociale me- dio-alto con la presenza significativa di casi in cui i due genitori sono laureati. Oltretutto il fenomeno sembra accentuarsi in individui che sono stai oggetto di bullismo durante il periodo scolastico99. I sintomi attestati che l’hikikomori mani-

festa sono molteplici:

“I sintomi della sindrome dell’hikikomori descritti da Saito sono: ritiro so- ciale, fobia scolare e ritiro scolastico, antropofobia, automisofobia, agorafo- bia, manie di persecuzione, sintomi ossessivi e compulsivi, comportamento regressivo, evitamento sociale, apatia, letargia, umore depresso, pensieri di morte e tentato suicidio, inversione del ritmo circadiano di sonno veglia e comportamento violento contro la famiglia, in particolare verso la madre.”100

98 Ibid.

99 Ibid. 100 Ivi, p. 160.

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Una commistione così ampia di sintomi può, nei casi più acuti, portare ad identificare la propria stanza come una sorta di rifugio o prigione: una condizione del genere comporta l’impossibilità per il soggetto di lasciare quel luogo, neanche per lavarsi o per mangiare. Nei manga o negli anime che trattano di questi argo- menti si notano continuamente le scene della madre che lascia il cibo poggiato su un vassoio dinnanzi alla porta: solo dopo che la madre si sarà allontanata e conse- guentemente al contatto sociale scampato, l’hikikomori aprirà la porta per tirarlo dentro la stanza e consumarlo in silenzio. Il continuo isolamento protratto per lungo tempo scatena anche reazioni violente che ricadono ovviamente sui genitori, gli unici ad essere in contatto con il malato, in particolare la madre; anche il ritmo di sonno e veglia viene riportato come alterato e le attività che si svolgono all’in- terno di quella piccola roccaforte rappresentata dalla stanza sono molto limitate come giocare con i videogiochi, navigare in internet, leggere manga e guardare anime101: tutte azioni che normalmente svolge un otaku e già da questa constata-

zione possiamo lievemente intravedere quanto l’associazione di idee sia facilis- sima ma estremamente superficiale e frutto di un ragionamento realizzato senza riflessione. Secondo l’articolo, l’hikikomori non proviene da un contesto familiare instabile, magari caratterizzato da separazioni o divorzi: la lacuna sarebbe da attri- buirsi al mancato apporto di una preparazione che avrebbe permesso al figlio di integrarsi nel contesto sociale ed economico. Gli sconvolgimenti che il modello della famiglia giapponese ha subito in seguito agli eventi correlati con la Seconda Guerra Mondiale102 rappresenterebbero il fulcro della questione: il “sistema dello

ie” che regolava la famiglia allargata tradizionale, somigliante ad una vasta corpo-

razione tribale103, venne sostituito da un sistema di tipo occidentale in cui il padre

viene totalmente assorbito dal lavoro e quindi non può più rappresentare una figura di autorità ed ispirazione nei confronti del figlio; la gran parte dei compiti e delle

101 Ibid. 102 Ibid.

103 GIADA FARRAH FOWLER, La struttura familiare giapponese e il concetto di Amae, Me- dium, 15 giugno 2015, citato da https://medium.com/kynodontas-adolescenza-senza-uscita/la- struttura-familiare-giapponese-e-il-concetto-di-amae-e828a642cbdb

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responsabilità così ricadono sulla madre, tra cui quella di occuparsi dell’educa- zione del figlio. Il compito di queste donne risulta alquanto gravoso ed il modello che si è imposto può generare situazioni paradossali:

“In Giappone la moglie assolve tutti i compiti: dalla gestione della casa e, naturalmente, dei figli, a quella delle finanze trasferite integralmente dal ma- rito che, quando è presente, diventa spesso un estraneo ingombrante, arri- vando anche a paradossi come quello dell’individuazione della RHS, Retired Husband Syndrome, che affliggerebbe le mogli di uomini andati in pensione che non riescono ad accettare la presenza quotidiana del marito in pensione, poiché durante la sua assenza durata per molti anni, hanno sviluppato uno stile di vita che viene completamente scardinato al momento del ritorno della figura maschile.”104

Le problematiche interconnesse all’occidentalizzazione hanno condizionato in profondità la società giapponese ma da quanto possiamo notare il sistema fami- liare è tra quegli aspetti risultati più permeabili e più contraddittori. La morale confuciana che ha da sempre regolato le norme comportamentali e soprattutto il rapporto verso i sentimenti imponeva ed impone a tutt’oggi un rigido attaccamento alla famiglia ed un amore filiale attraverso il concetto di “amae” che significa “di- pendere da”. Amae descrive quell’amore che si realizza tra madre e bambino neo- nato: entrambi i soggetti vengono connessi da un legame che li identifica come un tutt’uno. L’amae non è specifico di un dato periodo di sviluppo del bambino anzi, si consolida con il passare degli anni come forma di dipendenza dalla madre; il semplice ma significativo esempio che ritroviamo più spesso quando si parla di questo concetto è quello relativo alle ore di sonno: mentre nelle culture occidentali spesso i bambini hanno la propria cameretta in cui dormire e da cui sperimentano un primo assaggio di distacco dai genitori, in Giappone una pratica simile appare

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come crudele ed il bambino dorme nella stessa stanza dei genitori fino all’età di dieci anni circa. Questa impostazione porterà poi a far nascere nei confronti so- prattutto della madre, una sorta di sentimento d’obbligo che verrà poi riflessa in vari aspetti della società, da quello lavorativo a quello delle relazioni interpersonali costituendo una sorta di doppio registro psicologico:

“La madre appartiene al mondo dell’uchi, del dentro: la simbiosi, l’empatia, l’intima complicità, l’armonia che va a crearsi tra madre e figlio, dovrà essere trasferita soto, fuori, nelle relazioni esterne, in una forma diversa, che man- terrà sempre una salda forma di riserbo, chiamato enryo. È come se ci si atte- nesse a un doppio registro psichico: uno per l’interno e uno per l’esterno."105

In una situazione del genere il bambino subisce un’educazione condizionata dal riflesso dell’amae ossia basata su valori ed impostazioni basate su empatia, armonia, rispetto nelle relazioni e forte senso del dovere. Tutto questo porta ad una permissività che paragonata alle usanze occidentali risulta come esagerata: invece di rimproverare o punire il figlio, le madri giapponesi mostrano atteggiamenti di vergogna e dispiacere. Nel caso degli hikikomori, quanto appena detto risulta co- stituire una base per tale patologia ed una spiegazione del perché la violenza di questi soggetti si riversi in primis sulla madre: la mancanza della figura paterna e l’esagerato atteggiamento iperprotettivo al quale si mescolano pressioni sociali ed aspettative106. Abbiamo precedentemente fatto riferimento alla constatazione che

all’insorgenza della sindrome si leghi a doppio filo anche la situazione scolastica e quei fenomeni di bullismo che sembrano caratterizzare fortemente il periodo di formazione del giovane studente giapponese. In primo luogo però l’oppressione

105 Ibid.

106 E. AGUGLIA, M.S. SIGNORELLI, C. POLLICINO, E: ARCIDIACONO, A. PETRALIA,

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non giunge da questa piaga ma direttamente dal sistema scolastico e di conse- guenza dalla società. Il ruolo attribuito al curriculum scolastico risulta uno degli aspetti principali attraverso il quale vengono valutate non solo le capacità dell’in- dividuo ma anche l’importanza che deve ricoprire all’interno della società stessa107. Grazie a Massimiliano Griner ed a Rosa Isabella Fùrnari possiamo ad- dentrarci all’interno del sistema per sondarne gli aspetti principali e dimostrare quanto possa essere strutturata e significativa la morsa che attanaglia non solo i potenziali hikikomori ma tutto il corpo degli studenti, ponendo come punto di par- tenza il carattere volontario degli esiti che concorrono a delineare questa realtà:

“L’impressionante crescita economica dell’ultimo trentennio […] è stata ac- compagnata dalla «cultura della selezione» del sistema scolastico, le cui fina- lità, oltreché formative, sono state quelle di legittimare il sistema politico e sociale dominante. Non tanto con un diretto riferimento ad un’ideologia do- minante, come nell’epoca del cosiddetto «fascismo giapponese», ma attra- verso l’imposizione di stili, costumi ed atteggiamenti che, implicitamente, la scuola tende a produrre negli studenti attraverso il suo funzionamento e i suoi meccanismi selettivi, che premiano chi si adegua.”108

Questa precisa e volontaria impostazione caratterizza con diversi gradi di in- fluenza tutti i sistemi scolastici esistenti per quella dicotomia che lega l’ideologia dominante con la classe dominante: i meccanismi del sistema scolastico riflettono l’accettazione diretta della società per quello che è, così da integrare la stratifica- zione sociale, la subordinazione all’autorità ed una forma di remissiva apatia nei confronti della politica109. In Giappone questa situazione risulta talmente esaspe-

107 Ibid.

108 MASSIMILIANO GRINER, ROSA ISABELLA FÙRNARI, Otaku – I giovani perduti del

Sol Levante, Castelvecchi editore, Roma, 1999, p. 26.

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rata da determinare la nascita di un apposito termine che si è diffuso nell’uso quo- tidiano per indicare la brutalità di quella fase della vita: “gakureki shakai” ovvero “società meritocratica scolastica”110. Com’è facilmente prevedibile, il legame tra

scuola e lavoro in Giappone è indissolubile così che il successo in ambito scola- stico comporterà conseguentemente ad un successo in ambito lavorativo, in caso contrario le possibilità si ridurranno drasticamente. Risiede anche nella consape- volezza di questo meccanismo che le famiglie giapponesi cerchino in tutti i modi di spronare i figli ad avere un buon rendimento scolastico anche al costo di sacri- ficare relazioni interpersonali o esperienze affettive ed abbiamo precedentemente constatato che questo compito viene assolto quasi esclusivamente sulla madre tra- sformandola nel bersaglio della frustrazione dell’hikikomori. La tipologia di inse- gnamento che viene fornita agli studenti giapponesi riflette il quadro che abbiamo presentato: viene preferito un metodo didattico nozionistico in modo da riuscire ad assimilare il numero più alto di informazioni possibili e la struttura di pensiero ad esso associata è rigidamente standardizzata: l’originalità non è considerata una dote ma un valore negativo da rifuggire e questo mina profondamente la forma- zione dello studente sotto gli aspetti della creatività, dell’iniziativa e della capacità di astrarre o organizzare il pensiero111. Privilegiando un metodo d’insegnamento

così rigido ed arcaico, non solo si danneggia l’essenza stessa dell’individuo ma si mette in atto un meccanismo che influenzerà negativamente l’intera società come un’arma a doppio taglio in quanto:

“[…] la carenza di personalità creative danneggia irrimediabilmente lo svi- luppo di un paese sottoposto alla concorrenza di altre importanti realtà emer- genti sulla scena orientale.”112

110 MASSIMILIANO GRINER, ROSA ISABELLA FÙRNARI, Otaku – I giovani perduti del

Sol Levante, cit., p. 26.

111 Ivi, pp. 28-29. 112 Ibid.

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Nel sistema scolastico giapponese gli esami che gli studenti sono tenuti a sostenere risultano prevedibilmente molto complessi, tanto che si è coniato il ter- mine “shinken jigoku” ossia “l’inferno degli esami” ed istituite speciali scuole di preparazione chiamate “juku”, per permettere ai ragazzi di superarli113. Queste

scuole private risultano costosissime ma necessarie: grazie ad esse è possibile en- trare in una delle migliori università ed avere un futuro assicurato; il problema principale risiede nel fatto che le juku non sono un’alternativa alle scuole pubbli- che, bensì un completamento in quanto offrono corsi di recupero rapido che si svolgono durante l’orario extra-scolastico, creando così una realtà in cui lo stu- dente viene completamente subissato da impegni, responsabilità, obblighi ed una mole di dati da assimilare passivamente per l’intera durata della scuola riuscendo a ricavare pochi attimi della giornata per le sue passioni114. Secondo la ricerca del

Policlinico di Catania, anche nel caso in cui si riesca ad entrare in una buona uni- versità, il meccanismo si presenterà nuovamente in quanto la possibilità di ripetere un esame viene concessa solamente a patto della frequentazione di altre scuole preparatorie chiamate “youbiko”. Ritornando agli hikikomori possiamo ben capire che anche volendo, queste persone non hanno nessun appiglio a cui aggrapparsi che li sproni a rientrare nella società: l’incertezza della loro condizione e del ruolo che andranno a ricoprire in un ipotetico rientro li respinge sul fondo della loro patologia. A tutto ciò va aggiunta un’altra notevole fonte di oppressione in cui lo studente può incorrere: l’ijimè, ossia il “tormento” o la “persecuzione”, un chiaro riferimento agli atti di bullismo subiti. L’ijimè si innesca quando un gruppo di studenti prendono di mira uno o più compagni per realizzare pratiche vessatorie che si realizzano non solo con la complicità della classe ma il più delle volte dei professori che non si oppongono ad esse: questa forma di bullismo può prolungarsi per molto tempo, addirittura mesi o anni ed oltre ad esprimersi attraverso pratiche