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Smantellamento della struttura socialista

Lo smantellamento dell'intero apparato socialista non fu soltanto una questione politica. La maggior parte dei problemi della società e dello stato albanese nel periodo compreso tra il 1989 e il 1992 riguardano principalmente “le disastrose condizioni dell'economia, al punto da far dimenticare gli entusiasmi accesi alla fine della dittatura e provocare una disaffezione al voto che consente ai socialisti, nella tornata elettorale del luglio 1992, di recuperare consensi e ottenere un sindaco in oltre metà dei comuni.”104

Le condizioni economiche preesistenti all'avvento del regime e le caratteristiche di quest'ultimo in termini di dogmatismo e assoluta chiusura nei confronti del mondo esterno ai confini albanesi, avevano fatto in modo che almeno due generazioni non fossero a conoscenza delle trasformazioni verificatesi nel resto del mondo. Il rischio di uno shock culturale, oltreché economico, nel passaggio dall'economia programmata a

103 Ibidem 104 Ivi, p. 149

quella di mercato era una preoccupazione reale di fronte a un rischio estremamente concreto. Se già con Alia, il governo si era mosso in direzione di un riconoscimento perlomeno dell'esistenza dell'interesse privato nel più ampio contesto dell'interesse pubblico, attraverso le concessioni all'iniziativa individuale, con i governi democraticamente eletti questo processo subì un'inevitabile accelerazione.

La drammaticità della situazione economica nel periodo immediatamente successivo alle prime elezioni libere, nell'agosto del 1991, costrinse il Governo a rivolgersi ai paesi europei con una richiesta formale d'aiuto per superare la crisi. La situazione era “spaventosa: si registrava una flessione della produzione industriale del 69% mentre ai lavoratori continuava ad essere corrisposto l'80% del loro stipendio, nonostante molti di essi non lavorassero per via di una crisi della domanda. Il reddito nazionale registrava una flessione del 62%.”105

Di fronte a questa situazione la prima mossa del governo fu la privatizzazione delle terre coltivabili che erano state collettivizzate nella loro totalità nel 1979. La questione della terra aveva, oltre che un valore economicamente e socialmente rilevante, anche un valore simbolico perché era stata al centro della politica socialista di Hoxha, “bisogna tener presenta che la collettivizzazione delle terre da parte di Enver Hoxha iniziata nel 1947 con la proibizione della proprietà privata, si applicava ad una società di tipo feudale, in cui la maggior parte delle terre era in mano a latifondisti e la maggior parte dei contadini viveva in condizioni di servitù della gleba. Solo il 10% delle terre era coltivato. Il paese si presentava come estremamente arretrato. Enver Hoxha con la sua politica diede inizio a quello che chiamo “paradosso del regime”: pur a prezzo di un'efferata repressione, le condizioni del paese migliorarono

sensibilmente.”106.

Il fatto che il regime, attraverso le varie fasi della quarantennale riforma agraria, avesse garantito, perlomeno apparentemente, uno stato di 'autosufficienza alimentare' non poteva mascherare però le costante carenza di beni di prima necessità degli ultimi anni.

Nel 1992 il paese sembrava “essere uscito da un conflitto bellico più che sociale – visto lo stato di degrado e abbandono delle infrastrutture, ad esempio – in quell'anno erano già andate perdute 6 milioni di ore lavorative, di cui 2,5 milioni per sciopero, col risultato che nel 1991 il Pil era ridotto alla metà rispetto al 1990, e l'esportazione, che nel 1989 era di 400 milioni di dollari, nel 1992 era scesa a 50 milioni di dollari e il debito con l'estero assorbiva il 40% del prodotto nazionale (550 milioni di dollari). L'inflazione era – secondo dati non ufficiali – del 100% , mentre la disoccupazione interessava il 20-50% della popolazione. […] questo non poteva creare un'atmosfera di ottimismo nella popolazione albanese allora, considerando anche l'aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità in media del 300%”107.

Secondo le analisi della Tribunë Ekonomikë Shqiptarë, nel 1992 una famiglia media doveva spendere circa 4500 lek contro i 1300 del 1990 per gli stessi beni di consumo108 nel momento in cui un lek equivaleva a 10 lire al mercato nero, un altro fattore che spingeva soprattutto i giovani, ma non solo, sulla via dell'emigrazione.

La situazione nel suo insieme contribuiva a generare dei risvolti paradossali, nel momento in cui tutte le strutture dello stato totalitario venivano smantellate gli albanesi si trovavano a fare i conti con la propria libertà. La libertà “d'azione per quanto era

106 Ivi, p. 34 107 Ivi, p. 35 108 Ibidem

teoricamente possibile, era fortemente limitata dalle circostanze contingenti, legate alla gravissima crisi economica, agli scompensi creati dalla mancanza di un sistema di riferimento in ogni campo – da quello politico a quello sindacale a quello culturale a quello sanitario – alla residua, ancora, paura della libera azione e del libero pensiero che derivava dalla cultura del sospetto inculcata dal regime, per cui ancora si temeva di prendere libere iniziative.”109

Inoltre, la rabbia espressa nel momento della liberazione dalla repressione del regime si era manifestata con modalità che andavano oltre la retorica liberazione dai simboli del regime, infatti, la popolazione si era sentita libera di “salire sui tetti delle scuole pubbliche dello Stato – ossia di nessuno – per prenderne le tegole (per rifarsi il proprio tetto), così come di togliere i vetri alle serre e così via”110 depredando i “beni comuni” e portando alla necessità di pianificare un intervento di ricostruzione, motivo per cui, a conferma di quanto accennato poco sopra, il degrado e la fatiscenza delle infrastrutture e degli edifici, rendevano l'Albania agli occhi degli osservatori più simile a un paese appena uscito da un conflitto piuttosto che da una crisi sociale e politica.

La vittoria del Partito democratico alle elezioni del marzo 1992 accelerò ulteriormente il processo di riforma economica, “sulla base delle indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, il governo guidato da Aleksander Meksi, sotto la supervisione del Presidente della Repubblica Sali Berisha, vara una riforma economica che riprende in maniera più organica i principi basilari contenuti nell'agenda economica del precedente esecutivo. Sul versante della stabilizzazione macroeconomica vengono adottate misure di politica monetaria rivolte al controllo della circolazione

109 Ivi, p. 38 110 Ivi, p. 40

monetaria, alla stabilizzazione della valuta ed alla diminuzione del debito pubblico; quest'ultimo, in particolare, era una delle cause principali dell'instabilità macro- economica albanese, gonfiato progressivamente – soprattutto verso la fine degli anni '80 – dalle politiche di sussidi all'inefficiente sistema economico”111.

L'economia centralizzata albanese, infatti, prevedeva come unica fonte di finanziamento il budget dello stato e il deficit in continuo aumento veniva coperto tramite l'emissione di nuova moneta, i sussidi alle imprese calarono tra il 1991 e il 1993 dal 33% al 5% del bilancio statale, “la riduzione degli investimenti pubblici e il drastico snellimento dell'organico dell'amministrazione pubblica (240 mila licenziamenti )”112furono decisivi nel contenere l'inflazione e gettare le basi per un'economia di mercato113.

Il processo di privatizzazione dell'economia “già avviata dal governo di coalizione attraverso un apposito provvedimento legislativo (istitutivo, tra l'altro , dell'Agenzia Nazionale per la Privatizzazione con funzioni di programmazione e controllo)”114 ricevette un forte impulso dalla riforma varata dal nuovo esecutivo, “per la fine del 1993 il 93% della terra di proprietà delle cooperative agricole”115 venne privatizzato e furono create 467 mila piccole aziende in grado di produrre in base alle esigenze del mercato; agli inizi del 1994 risultava praticamente completata la privatizzazione di 25 mila esercizi commerciali, mentre tra il 1993 e il 1994 più di 3 mila piccole e medie imprese manifatturiere furono cedute ai privati, riservando un diritto di opzione ai precedenti proprietari o ai dipendenti delle aziende stesse116.

111 L. Zarrilli, Op. cit., pp. 109-110 112 Ibidem

113 Ibidem 114 Ibidem 115 Ibidem 116 Cfr., ibidem

Più difficile si rivelò, invece, la privatizzazione delle grandi imprese con più di 300 dipendenti e con un capitale superiore ai 500 mila dollari, “solo nel 1995 a seguito di decreto presidenziale, viene varata la privatizzazione di massa di queste aziende (in numero di 400 circa) attraverso un sistema di distribuzione di voucher rappresentativi di titoli azionari, ma in assenza di una borsa valori (istituita solo in seguito) il processo è risultato assai lento e pieno di incertezze. L'offerta si è rivelata immediatamente superiore alla domanda e il prezzo di mercato dei voucher è crollato ad un valore pari al 4% di quello nominale. Alla fine del 1996 solo 97 grandi imprese sono state privatizzate; in compenso è stato creato un Ministero per la Privatizzazione che ha incorporato l'Agenzia Nazionale per la Privatizzazione precedentemente istituita.”117

Sul fronte dei prezzi, la liberalizzazione proseguì su larga scala, “nell'agosto del 1992 il 75% dei prezzi dei beni di consumo viene lasciato fluttuare secondo le dinamiche di mercato, mentre sono rimasti sotto controllo i prezzi di beni ritenuti essenziali come pane, energia, tariffe postali, locazioni. Il processo è continuato nel 1993, e per la fine di quell'anno molti dei prezzi ancora calmierati sono stati liberalizzati, il che ha consentito di ridurre i sussidi da parte dello Stato dal 3,6% del Pil nel 1992 al 2,2% nel 1993.”118.

L'insieme delle riforme economiche varate sotto l'egida e la guida del Fondo Monetario Internazionale completarono dal punto di vista economico e istituzionale lo smantellamento dell'intero sistema comunista già avviato dal punto di vista politico e sociale attraverso il collasso della élite di potere cresciuta all'ombra di Enver Hoxha.

117 Ivi, pp. 110-111 118 Ivi, p. 111