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1.1. Le tendenze fondamentali che plasmano l'economia digitale

2.1.1. La società si specchia nel cibo

Il cibo riesce a farsi desiderare, prima ancora di essere assaggiato, ed anche per tale motivo, gli riconosciamo la qualità di incantatore. La sua appetibilità provoca la cosiddetta “acquolina in bocca” dettata, non solo dal gusto ma, ulteriormente, da qualità organolettiche, quali: l’aroma, la forma ed il colore, dal sincretismo che concorrono per determinare il gradimento del piatto. Cosicché, come suggerisce Marchesi, “l’arte di degustare è anche l’arte di osservare” (Marchesi G., Vercelloni, L. 2001. cit., p. 10). Non a caso, il primo senso, a cui il cibo, si sottopone al nostro giudizio è la vista. Ogni alimento con i suoi colori e forme, viene subito giudicato, e perciò la

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risposta estetica, è responsabile della prima opinione. Che sia naturale, artefatta o ibrida, la forma dei cibi e le combinazioni cromatiche, influenzano il giudizio del palato (ibidem).

Goethe, nel periodo più tormentato della sua vita, influenzato dal movimento dello Sturm und drang, approfondisce le prime ricerche psicologiche, sulla forza suggestiva del colore; in particolare sul potere seduttivo delle tinte, e su come questo elemento modifichi, la percezione delle cose (Goethe, 1979). Oramai, diversi studi ne hanno confermato l’intuizione e, hanno dimostrato come le associazioni psicologiche determinate dal colore agiscano a livello del subconscio, ma allo stesso tempo derivino dalla nostra esperienza ed educazione. A tal proposito la Gestalt Psychology elabora un pensiero, secondo il quale, l’uomo tende a percepire solamente ciò che è abituato ad osservare. Per capire come è organizzata la realtà, utilizza forme che richiamano schemi, scelti per imitazione, apprendimento e condivisione. Sono simili processi che permettono l’organizzazione inconsapevole della percezione e del pensiero (Kanisza, 1991). Perciò anche la percezione del cibo non è libera, ma determinata da una realtà, che vediamo con i nostri occhi, intrisa di valori affettivi, ideologie, ed esperienze pregresse. L’uomo viene definito da Petrini essere sensitivo, dove il gusto è quel senso che ci mette in rapporto con altri uomini. Tale riflessione si ritrova anche nel saggio “Buono, pulito e giusto” di Petrini dove si spiega che nell’atto di mangiare, si prova un benessere indescrivibile, poiché il gusto è per tutti: “il diritto a trasformare in piacere il proprio sostentamento quotidiano” (Petrini, 2005, pp. 97). Buono e cattivo, sono aggettivi attribuibili al cibo, non in termine assoluto, ma bensì, derivati dall’ambiente socio-culturale, di cui abbiamo fatto esperienza. Inizialmente la sociologia, non aveva compreso la reale importanza di tutti i fenomeni ricollegabili all’alimentazione, soprattutto in quale modo i nostri gusti, in fatto di cibo, riproducessero e modificassero le identità sociali. In una metafora, il pasto, è stato spesso utilizzato come un aneddoto, per spiegare un qualche altro fenomeno sociale. Qualcosa cambia profondamente negli anni 70, quando si inizia a dare un vero e proprio contributo sociologico, riguardante il tema dell’alimentazione, tanto da creare una sociologia dell’alimentazione. Il cibo siamo noi, parla di noi, e si fa specchio della società. Mostra chi siamo, da dove veniamo e, la cucina, e le diverse modalità di preparazione sono i simboli dei rapporti sociali (Douglas, 1972). Riflettendoci, in un certo senso, si può affermare che, l’uomo scelga di consumare determinati cibi, perché è “programmato” per farlo, come se sapesse già quali sono quelli considerati fisiologicamente buoni. Sembra quindi, che ci sia un

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repertorio implicito di ciò che noi riteniamo commestibile, dipeso dall’adattamento, del paese nel quale viviamo e dal passato.

Mary Douglas parlando di categorie alimentari, sosteneva come queste fossero la rappresentazione di un sistema di posizione sociale, per cui il pasto stesso, elimina una potenziale confusione (Douglas, 1972). Il filosofo francese, Pierre Bourdieu, aveva poi chiarito, come il carattere classista, risultasse evidente nel gusto. Quest’ultimo, a suo parere, dipendeva dalla posizione sociale e ne riproduceva le condizioni; egli stesso afferma che alla preferenza estetizzante delle nuove classi medie per la nouvelle cousine, si oppone la preferenza per l’abbondanza e la semplicità degli accostamenti delle classi lavoratrici (Bourdieu, 1995). Altri pensatori, soprattutto quelli aderenti al un pensiero femminista, hanno maggiormente indagato alcuni aspetti sociali, sempre in riferimento al consumo alimentare ed anche alla preparazione delle pietanze, così da formulare una tesi su come il genere sessuale possa influenzare la scelta della pietanza di cui cibarsi.

Ad esempio, in passato le donne, diversamente degli uomini, sono state storicamente private di cibo anche se detenevano la responsabilità di prepararlo. Il cibo sembra essere il risultato di un processo di classificazione culturale che si realizza attraverso una serie di pratiche e conoscenze, che nella società contemporanea compongono un vero e proprio viaggio alimentare. L’antropologo Tullio Seppilli sostiene che il nutrirsi, oltre ad essere un bisogno biologico, è una “risposta sociale”64 (Seppilli, T., pp. 7-14, cit.p.7). Le preferenze alimentari, perciò, vengono

viste, come pratiche fondamentali del sé, in quanto, agiscono simbolicamente rivelando l’identità di un individuo.

Agli inizi del Novecento, viene nuovamente approfondito quest’ambito, dall’antropologia inglese. Emersero credenze, le quali si focalizzavano sull’idea che, a seconda di quello che l’uomo mangia, è destinato ad assorbire le caratteristiche del prodotto ingerito. Questa spiegazione è rintracciabile in alcuni studiosi che approfondiscono il “pensiero magico”, cioè un’idea, presente in tutte le culture, dove emozioni e desideri hanno la capacità di determinare delle conseguenze fisiche. Dal punto di vista del cibo, il pensiero magico è la visione, secondo la

64 Seppilli, T., Per una antropologia dell'alimentazione. Determinazioni, funzioni e significati

psicoculturali della risposta sociale a un bisogno biologico, La Ricerca Folklorica, No. 30, Antropologia dell'alimentazione, pp. 7-14, cit.p.7

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quale, incorporando un alimento, quest’ultimo, trasferisce le proprietà fisiche, ma anche morali e simboliche nel corpo stesso. Si diviene ciò che si mangia (Pollan, 2008). Questo fenomeno di contaminazione lo ritroviamo anche nel paper, dal titolo:” The selection of food by rats, humans and other animals”, in cui presenta la condizione esistenziale degli onnivori. Se da un lato sono spinti alla variazione della dieta alimentare, poiché vorrebbero assaggiare cibi sconosciuti, dall’altro, la paura di nuovi sapori li intimidisce. Si parla del cosiddetto “dilemma dell’onnivoro”, caratterizzato dalla neofilia opposta alla neofobia (ibidem). Questo concetto del dilemma dell’onnivoro è presente negli scritti di Rousseau e Brillat-Savarin, ma è stato ufficialmente identificato da Paul Rozin, psicologo dell’Università della Pennsylvania. Egli confrontava la condizione esistenziale dell’uomo con il ratto. Gli animali con un’alimentazione specializzata, non hanno dubbi su cosa mangiare, poiché le loro preferenze alimentari sono scritte nei loro geni. Dunque non impiegano pensieri o emozioni per comprendere cosa mangiare. Per questi animali, il meccanismo è naturale ed istintivo. Gli onnivori, invece, come l’uomo, devono dedicare tempo per cercare quali tra gli innumerevoli cibi, si possano mangiare senza rischio. Da questa riflessione, nascono i due sentimenti contrastanti: la neofobia, la paura di mangiare una sostanza sconosciuta, e la neofilia, il desiderio di assaggiare nuovi gusti. L’incredibile varietà di pietanze, che si presenta a noi, crea però anche un senso di stress, per l’uomo moderno, che viene definito da Pollan un “mangiatore ansioso”. Quali sono gli alimenti sani? Quali quelli pericolosi? Di questi tempi, il cibo e l’alimentazione sono divenuti spettacolarizzazione mediatica. Sono presenti, troppe caotiche informazioni, spesso in contraddizione tra loro. Giungono da fonti diverse, e si disperdono tra pubblicità, blog ed Internet. Il “surplus informativo” genera ansia piuttosto che consapevolezza sulle reali peculiarità del cibo e risulta essere in parte responsabile di scelte alimentari poco adeguate. In tal caso, si evince che, le scelte alimentari sono l’espressione dell’identità di un individuo, ma risultano anche da un processo di acquisizione di informazioni, di non facile digestione (Fischer, 1988). Tramite la nostra cultura, codifichiamo una serie di regole per costruire, quella che ci sembra definibile come la “saggia alimentazione”, fatta di ricettari, tradizioni ma anche tabù e sperimentazioni. Cosicché, da riuscire a superare il dilemma dell’onnivoro. Le diverse società umane, delineano quello che è o non è commestibile, e nonostante l’uomo possa ingerire qualsiasi cosa, ne viene così ristretto molto, il campo. Esemplificando, mentre in Occidente le cavallette danno ribrezzo, in molti paesi africani sono considerati un lusso. Lo studioso Rozin afferma che il disgusto non è niente altro che una paura,

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nell’introdurre sostanze all’interno del corpo, che ci risultino dannose (Rozin, 1997). Specifiche società mostrano forme di disgusto, di cui l’unica ragione è lo sviluppo culturale di norme e abitudini. Ogni cultura vede alla sua maniera, cosa può essere mangiato da quello che non può esserlo, e in tale suddivisione entrano anche molti elementi di natura simbolica, i quali portano ad un certo orientamento. Pollan (2008) sostiene che la mancanza di una specifica cultura alimentare, renda l’uomo vulnerabile alle continue nozioni degli esperti in ambito alimentare ed alle lusinghe del marketing. Per questi ultimi difatti, il dilemma dell’onnivoro, non è altro che una mera fonte di guadagno. Non sembra poi così strano allora, lo smarrimento tra le corsie dei diversi supermercati o l’assordante musica di alcuni negozi, per destabilizzare il consumatore, già confuso su quello che preferisce o meno.

Lo studioso Montanari, considera poi il gusto oltre che come sapore anche come sapere. Inteso come una sensazione individuale, una valutazione di ciò che può piacere o viceversa (Montanari, 2008). Percorrendo i diversi periodi storici, si comprende come, l’idea attuale di gastronomia sia distante dal modello culinario antico, che veniva proposto nel Rinascimento. Mentre quest’ultimo, seguiva una logica sintetica, dove avveniva una mescolanza dei sapori, solo nella cucina tardo moderna del diciottesimo secolo, si tenderà ad una separazione più netta, ricercando un aroma naturale di ciascun singolo alimento. Marchesi noto chef, parla di forma dei cibi, e li suddivide in tre macro gruppi, tra coloro che hanno una forma naturale, artefatta ed ibrida (Marchesi & Vercelloni, 2001). La prima comprende ortaggi, frutta, carni e pesci. Tutti alimenti dotati di una struttura anatomica regolare, ben definita, la cui presentazione si limita al taglio e all’accostamento con altri ingredienti e decorazioni integrative, quali salse e guarnizioni. Nella seconda categoria rientrano: macinati dolci o salati, dessert, formaggi, sono tutti i cibi, il cui confezionamento richiede una modellazione. Infine tra gli ibridi vi sono gli alimenti che, pur appartenendo ad una delle categorie precedenti, si trasferiscono anche nell’altra. Sono cibi che conservano la loro struttura culinaria, ma perdono la forma originaria, a causa, di una lavorazione. In tale gruppo, si possono includere alcuni ingredienti usati come scopo ornamentale e tutte le rappresentazioni a carattere imitativo, ad esempio, tartufo di cioccolato, verdure scolpite ed altre (ibidem). Nel Rinascimento, mangiare divenne una vera e propria arte. I ricchi, proprio per ostentare la propria ricchezza, non badavano a spese e servivano agli invitati, le vivande più preziose, arricchite da ingredienti, quali: le spezie orientali come la noce moscata e lo zucchero di canna, che veniva avvolto in foglie di palma e adoperato anche per elaborate sculture, come in

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occasione del matrimonio di Maria de Medici con il re di Francia Enrico IV. Tipico del periodo Medievale e Rinascimentale era il sapore agrodolce, reinterpretato attraverso la mescolanza di prodotti portati in Europa dagli arabi. Le mele venivano giustapposte alla cacciagione come guarnizione e la mostarda, il pepe e lo zucchero erano presenti nel panpepato. Nel Rinascimento nacque anche il galateo dove in occasione del banchetto, il principe mostrava tutto il suo benessere. Venivano, infatti, servite venti portate, che giustamente non potevano essere tutte assaggiate dai commensali, ed erano poste tre diverse tovaglie, così da portele cambiare durante le portate. Per amalgamare bene i sapori, si utilizzavano specifiche tecniche di cottura, così facendo si ottenevano particolari sapori e consistenze.