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Un ultimo tema da affrontare riguarda la difficoltà di adempiere (difficultas

dandi) del debitore causata dall’accadimento successivo alla formalizzazione dell’accordo tra le parti.

Il testo da analizzare è quello appartenente a Venuleio (II secolo d.C.) che parla di stipulatio:

Illud inspiciendum est, an qui centum dari promisit confestim teneatur, an vero cesset obligatio, donec pecuniam conferre possit. Quid ergo, si neque domi habet neque inveniat creditorem. Sed haec recedunt ab impedimento naturali et respiciunt ad facultatem dandi. Est autem facultas personae commodum incommodunque, non rerum quae promittuntur … Et generaliter causa difficultatis ad incommodum promissoris, non ad impedimentum stipulatoris pertinet, ne incipiat dici eum quoque dare non posse, qui alienum servum, quem dominus non vendat, dare promiserit71.

Il testo riguarda il problema di una persona che promette con stipulatio di dare una somma di denaro (cento monete) della quale, al momento, non dispone. Il giurista all’inizio del frammento si domanda, retoricamente, se

71

il promittente potesse essere considerato debitore e, perciò, obbligato ad adempiere la sua prestazione contestualmente alla promessa fatta, oppure se lo dovesse fare dal momento in cui fosse in grado di versare al creditore la somma prestabilita nell’ accordo (illud inspiciendum est, an qui centum

dari promisit confestim teneatur, an vero cesset obligatio, donec pecuniam confere possit). Il giurista comincia ad elencare una serie di situazioni che

sottolineavano la mancanza di liquidità, come ad esempio, non avere denaro in casa o non trovare nessun creditore che glielo prestasse (quid

ergo, si neque domi habet neque inveniat creditorem), ritenute da Venuleio,

irrilevanti in quanto non considerati ostacoli naturali, nel senso di vis maior, bensì circostanze personali che incidevano sulla capacità proprio di pagare (sed haec recedunt ab impedimento naturali et respiciunt ad facultatem

dandi).

La capacità di pagare e tale abilità è un beneficio ed un inconveniente che riguarda sempre la persona del debitore e non le cose da lui promesse (est

autem facultas personae commudum incommodumque,non rerum quae promittuntur).

Il giurista traccia poi un criterio generale, in base al quale la capacità di pagare e le conseguenti difficoltà che il debitore incontra per l’ adempimento della prestazione non devono assolutamente danneggiare la sfera giuridica del creditore e quindi il suo diritto di riavere la somma di denaro, oggetto della stipulatio, dato che il rischio dell’adempimento deve gravare sul debitore (et generaliter causa difficultatis ad incommodum

promissoris, non ad impedimenut stipulatoris pertinet), impedendo che un

promittente possa ritenersi liberato, qualora il dominus non gli venda il proprio servum, che lo stesso ha promesso di dare in proprietà ad altri (ne

incipiat dici eum quoque dare non posse, qui alienum servum, quem dominus non vendat, dare promiserit).

prodotto dalle circostanze sopravvennute alla stipulazione di un contratto di stretto diritto, la difficoltà di adempimento della prestazione, non viene preso in considerazione dal giurista in quanto giuidicato ininfluente ai fini della soluzione del caso specifico.

12. Conclusioni

Dopo aver osservato e valutato le moltissime situazioni presentate dalle fonti romane riguardo il fenomeno delle circostanze sopravvenute, possiamo trarre alcune conclusioni: la prima, come già più volte sottolineato, è che il mondo giuridico del diritto romano, in particolare i giuristi classici e la Cancelleria imperiale, non solo erano al corrente del problema delle circostanze sopravvenute, ma lo affrontavano e lo risolvevano con piena dimestichezza, stabilendo quali fossero le soluzioni giuridiche da applicare alla fattispecie concreta che si presentava. Lo storico principio pacta sunt servanda non poteva essere sempre applicato, in quanto la presunta obbligatorietà derivata dagli accordi originariamente stipulati tra due soggetti doveva essere costantemente contemperata con una realtà sostanziale alterata a causa delle sopravvenienze che, se si fossero presentate prima della stipulazione del contratto, avrebbero indotto una o entrambe le parti a non contrattare. Così, i consulta resi dagli esperti del diritto romano rappresentavano un tentativo di ristabilizzazione degli equilibri dei contraenti, al di là di ogni possibile teoria o principio.

La seconda considerazione certa è l’assenza di una teoria di carattere generale ed inderogabile, in presenza della quale coloro, che si fossero imbattuti nelle sopravvenienze, avrebbero dovuto tassativamente non allontanarsi dalla disciplina; invece abbiamo notato che, decidendo come risolvere le fattispecie specifiche venissero derogati principi fondamentali

dell’ordinamento giuridico romano, come ad esempio il periculum est

emptoris o le stesse regole che derivarono dai pareri dei giuristi come

Ulpiano, Africano ed altri a proposito dell’ argomento in esame.

Il terzo punto fermo è che non rileva una distinzione fra circostanze che rendono impossibile una prestazione e circostanze che la rendono più difficile o più onerosa. Nel contratto di locazione di fondi agricoli o di edifici si profila, invece, sul piano delle conseguenze giuridiche, una differenza tra eventi successivi che portano ad un’impossibilità temporanea dell’adempimento, ad esempio, per una cattiva annata agraria o per il necessario rifacimento dell’edificio, ed eventi da cui deriva invece un’impossibilità definitiva. I primi occasionano una corrispondente sospensione temporanea anche della controprestazione, determinando un riassestamento delle situazioni dei contraenti, mentre i secondi hanno come conseguenza per la parte inadempiente il risarcimento dei danni.

La quarta ed ultima considerazione certa consiste nella gran quantità di strumenti giuridici che la giurisprudenza, la Cancelleria e le stesse parti contraenti avrebbero potuto usufruire per risolvere le difficoltà giuridiche determinate dagli accadimenti sopraggiunti: la distribuzione dei rischi fra contraenti, la rinegoziazione delle clausole contrattuali, il regime inerente al tipo contrattuale, la previsione delle circostanze sopravvenute nel contratto e negli usi locali, la buona fede nell’esecuzione del contratto, il ruolo della causa di un’ attribuzione patrimoniale, la rilevanza delle situazioni personali dei contraenti, il recesso unilaterale del contraente. I meccanismi qui elencati sono una conferma dell’assenza di una materia sistematica del fenomeno, ma di un approccio casistico che forniva la soluzione, trattandosi di un apparato flessibile e dinamico che si adattava al continuo mutamento delle circostanze, per il quale gli organi giudicanti sceglievano quale regime giuridico, principio o regola applicare senza elevare un criterio superiore rispetto agli altri. Il principio di fides bona,

comunque, ad una attenta comparazione con gli altri precetti impiegati, sembrerebbe meglio rispondere alla più importante finalità che i giuristi romani si prefissavano: il miglior soddisfacimento degli interessi dei privati, dato che veniva adoperato per rimettere in equilibro le posizioni effettive delle parti contraenti mutate dalle conseguenze del fenomeno delle sopravvenienze.

Capitolo II: Le alterazioni delle circostanze iniziali