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Il dibattito che si alimentò nel corso del Settecento in funzione antischiavista fu segnato da due importanti percorsi:

• da un lato si svilupparono delle dottrine dell'ineguaglianza che volevano giustificare una struttura gerarchica della società;

• dall'altro l'affermazione della teoria dei diritti umani che ha coinvolto sul piano giuridico i poveri, le donne e la gente di colore (Del Piano, 2009).

Questo dibattito venne affidato anche ad una stampa che in quel periodo era in profondo mutamento e che vide la comparsa e il rinnovamento di genere letterari di ampia circolazione, funzionali a trasformare l’antico dialogo fra dotti in discussione capace di raggiungere un pubblico più vasto direttori.

Le due voci più significative che hanno analizzato la rilevanza che il dibattito antischiavista ebbe nel corso dell'Ottocento furono Ives Benot e Jean Ehrard (2008) che hanno suddiviso il dibattito contro la schiavitù in alcune fasi.

Nella prima fase è necessario rintracciare la riflessione di Montesquieu che, mediante la sua opera Esprit des lois del 1748, condannò nettamente la schiavitù.

Dopo aver analizzato in via generale la schiavitù antica e la schiavitù coloniale egli scelse di confutare i fondamenti del filoschiavismo ricorrendo allo strumento dell'ironia.

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Addirittura, proprio questo suo uso dell'ironia fu causa di molti fraintendimenti interpretativi che hanno spinto alcuni studiosi ad ipotizzare un orientamento filoschiavista dell'autore.

A fronte di questa audacia teorica, Montesquieu prosegue nel proprio libro affermando che non è necessario propinare un abolizione immediata ma garantire l'emancipazione graduale al fine di conseguire un miglioramento progressivo del trattamento riservato agli schiavi (Stella e Vincent, 1996).

Tale opera intende offrire alla cultura occidentale i principi teorici generali della antischiavismo a cui si sarebbero richiamati in futuro numerosi pensatori.

Tuttavia, furono numerose le critiche e le condanne in questa prima fase come ad esempio la denuncia della schiavitù nei Contes philosofiques del 1759 di Voltaire, oppure la posizione di Jean- Jacques Rousseau nel Contrat social del 1762 che condannava la schiavitù antica e non la tratta e la schiavitù coloniali: “Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità, e persino ai propri doveri. Il diritto di schiavitù è nullo, non solo perché è illegittimo, ma anche perché è assurdo e non significa niente. Queste parole, schiavitù e diritto, sono contraddittorie: esse si escludono a vicenda” (cit. Del Piano, 2009). Anche l’ Encyclopedie ebbe un ruolo di primo piano nell’alimentare il dibattito sulla questione senza spingersi nel pronunciare un insieme di principi in maniera coerente e unitaria.

Il dizionario dei lumi, infatti, invitava ad una riflessione libera da pregiudizi e perciò non deve essere inteso come corpo di dottrina compatta bensì come strumento funzionale a favorire la discussione pubblica.

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All'interno dell’ Encyclopedie si leva la voce di Louis de Jaucourt che, inserendosi nel dibattito della schiavitù in generale, la concepisce come violazione del principio dell'eguaglianza naturale tra gli uomini: “È la violazione di questo principio che ha creato la schiavitù politica e civile. La schiavitù è uno stato umiliante non solo per chi la subisce, ma per l’intera umanità che viene degradata” (cit. Del Piano, 2009). Pertanto, l' Encyclopedie favorì la discussione; successivamente subentrò la seconda fase mediante la pubblicazione del romanzo a sfondo utopistico, L’an 2440 del 1771, scritto da Louis Sebastien Mercier il quale mediante esso delinea una società nuova nata dalle ceneri dell'Antico regime in cui la schiavitù non risulta abolita attraverso un provvedimento legislativo emanato da un sovrano illuminato ma risulta abolita grazie ad una sollevazione di schiavi capeggiata da un novello spartaco (Turi, 2012).

In questa seconda fase viene collocata anche l'opera dell'Abate Guilhem Thomas Francois Raynal, l’ Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des européens dans les deux Indes, che conteneva una denuncia della schiavitù sulla base di motivi umanitari immaginando un'insurrezione e una soppressione immediata della schiavitù e denunciando il colonialismo.

Parole durissime contro la tratta e la schiavitù vennero avanzate anche da Condorcet nelle Réflexions sur l’esclavage des nègres del 1781: “ridurre un uomo in schiavitù, comprarlo, venderlo, mantenerlo in servitù sono veri e propri crimini, e crimini peggiori del furto”.

In quest'opera la schiavitù era condannata sulla base della difesa della libertà umana e delle leggi della Giustizia terrena. Condorcet, infatti, proponeva la soppressione immediata della tratta ma non della schiavitù per la quale pensava dovesse essere effettuato un processo graduale (Del Piano, 2009).

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In effetti, egli pensava che fossero necessari 70 anni per garantire una sua eliminazione definitiva mediante la predisposizione di fasi di affrancamento in base all'età.

La proposta nasceva dalla volontà di preparare gli schiavi a comportarsi da uomini liberi nel momento in cui erano stati istruiti ed educati a rispettare la legge, destinandoli anche alle strutture dell’accoglienza loro dedicate.

Si temeva, infatti, che destinare gli schiavi all’emancipazione immediata non avrebbe dato il tempo di fornire loro i mezzi di sussistenza e le protezioni necessarie.

Nel corso del Settecento sopraggiunse la terza fase che fu caratterizzata da differenti proposte: dall'abolizione graduale, che prevedeva il mantenimento del controllo nelle colonie, alla soppressione immediata; dall’indicazione del ruolo dei sovrani illuminati all'insurrezione degli stessi schiavi (Stella, 2000).

Nonostante il pragmatismo riformatore e gli inviti alla ribellione che caratterizzavano la riflessione illuminista sulla schiavitù, essa rappresentò ugualmente una svolta nella storia del pensiero occidentale e ciò perché fu ambito di accoglimento della cultura filosofica che condannò radicalmente sul piano dei principi teorici tale pratica, dando concretizzazione ad una denuncia che da morale passò ad essere politica.

Tale condanna, inoltre, era stata pronunciata non in nome della salvezza dell'anima bensì in nome della tutela dei diritti dell'individuo, in primis quelli correlati alla libertà a terrena (Del Piano, 2009).

In sostanza l’antischiavismo si fondava su nuovi presupposti che non si rifacevano più alla tradizione cristiana ma alla sfera della Giustizia terrena.

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In effetti, essi erano il prodotto di una rivoluzione culturale che presupponeva un radicale mutamento di pensiero ovvero una rottura nell'atteggiamento verso le idee di peccato, natura umana e progresso. L'emergere del pensiero secolarizzato determinò un ripensamento della schiavitù all'interno dell'ordine politico.

In effetti la cultura illuminista accantonò la giustificazione religiosa della schiavitù, unitamente la dottrina del Peccato Originale come fonte del male.

Il dibattito che riguardò la schiavitù non si esaurì esclusivamente all'interno della cultura dei philosophes poiché anche nella fisiocrazia si matura una denuncia della schiavitù adducendo considerazioni di tipo utilitaristico che si concentravano sulla presunta antieconomicità del lavoro schiavile, correlata al costo iniziale e al mantenimento nonché sulla convinzione che lavoratore salariato spinto dal timore del licenziamento fosse più competitivo e produttivo (Miller, 2012). Un ragionamento simile era stato maturato all'interno dell' illuminismo scozzese: in effetti, in questo contesto si insisteva sulla maggiore redditività del lavoro libero, benché il tramonto della schiavitù fosse qui inserito nel contesto di un presunto perfezionamento progressivo della morale europea, inteso come frutto naturale di un processo storico e non quale esito dell’adozione di scelte politiche 24.

24 David Hume si era opposto alla pratica schiavista fin dagli anni Quaranta nel saggio Of

the Populousness of Ancient Nations, compreso negli Essays, Moral, Political, and Literary (1742). Tra le altre voci si possono poi ricordare quelle di John Millar, autore dell’opera The Origin of the Distinction of Ranks (1771), e soprattutto di Adam Smith, fondatore del liberismo economico con il celebre volume An Enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776) (Bono, 2016).

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Il movimento dei Lumi rappresentò una tappa fondamentale in direzione dello slancio verso la libertà configurandosi perciò come una delle radici profonde dell’ideologia antischiavista, che fu a sua volta la base del movimento per l’emancipazione (Del Piano, 2009). Bisogna infine sottolineare che il Settecento non coincise con la condanna della schiavitù, e che non mancarono anche allora, tra vecchie e nuove giustificazioni, voci levate a sostegno della pratica:

• l’economista bordolese Jean-François Melon, autore dell’ Essai politique sur le commerce del 1734, non difendeva soltanto l’uso degli schiavi nelle colonie, ma ne proponeva un ampio utilizzo in Europa;

• Simon-Nicolas Henri Linguet, nella Théorie des lois civiles del 1767, legittimava l’istituzione in quanto necessità finalizzata al benessere delle società europee; • il deputato e membro dell’amministrazione coloniale

Pierre-Victor Malouet al Mémoire sur l’esclavage des nègres del 1788 affidava tra l’altro il compito di esaltare la schiavitù come strumento indispensabile per garantire benessere materiale a uomini altrimenti condannati alla miseria (Del Piano, 2009).

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2.6. I Paesi europei verso l’emancipazione degli schiavi