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La svolta intransigente di Leone

LEONE XIII E IL RINNOVAMENTO DELLA CHIESA

2.4 La svolta intransigente di Leone

Per superare definitivamente queste divisioni, il 30 giugno 1886 Leone XIII decise che il tempo dei temporaggiamenti era finito e ruppe gli indugi. Ritenendo che l’abolizione del non expedit avrebbe comportato molte più insidie rispetto ad una politica astensionista, il pontefice esplicitò solennemente la sua posizione imponendo l’astensione dalle urne con la formula: non expedit

prohibitionem importat. Riguardo le possibili sanzioni citate dal Bonomelli, il

pontefice fu meno esplicito, forse per non incorrere nei problemi giuridici con lo Stato italiano paventati dal prelato nel suo memoriale del 1882. Il clero intransigente non tardò a rivendicare la presa di posizione papale come una straordinaria vittoria della propria strategia. Poiché ora il non expedit comportava una proibizione, esso esigeva un’obbedienza piena e

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incondizionata. Ma nonostante l’ordine provenisse dall’alto, il punto di vista dei clerico-moderati era diverso. Il pontefice, secondo loro, aveva certo proibito un qualcosa che egli riteneva potesse nuocere alla Chiesa, ma tale proibizione poteva essere contestata poiché l’autorità ecclesiastica era ritenuta incompetente a dettare norme su questioni politiche65.

Il successivo comportamento di Leone XIII, decisamente prudente e non incisivo quanto la formula da lui stesso pronunciata, sembrò confermare paradossalmente questa seconda analisi. Sembrava infatti che il pontefice non avesse preso una decisione definitiva in merito al non expedit e più in generale sull’atteggiamento da tenersi nei confronti dello Stato italiano. Il 23 maggio 1887 Pio XI, in occasione di un discorso tenuto al Concistoro dei cardinali, rimarcando il positivo accordo raggiunto con la Prussia, auspicò che questo risultato di pacificazione potesse tornare utile nel migliorare le relazioni con Italia. Così facendo il pontefice sembrò aprire le porte ad una possibile trattativa volta a risolvere la questione romana. Questo presunto desiderio conciliante di Leone XIII venne accolto con sgomento dagli intransigenti. Al contrario, i moderati accolsero la novella con entusiasmo e si adoperarono per mettere in pratica le intenzioni papali. I vescovi Scalabrini e Bonomelli, incoraggiati dalle parole del pontefice, tentarono addirittura un approccio con il governo Depretis66, mentre l’abate di Montecassino, padre Tosti, pubblicò un opuscolo intitolato La conciliazione, in cui l’autore manifestava tutto l’entusiasmo per una possibile pacificazione religiosa in Italia. Poiché padre Tosti era in cordiali rapporti con il ministro degli Interni Crispi e quest’ultimo sembra avesse manifestato al sacerdote il suo desiderio conciliatorio, l’opuscolo dell’abate contribuì a suscitare ferventi entusiasmi. Era inoltre trapelata la voce che fosse stato il papa in persona ad autorizzare il prelato a scrivere l’opuscolo67

. In realtà queste iniziative trovarono appoggio unicamente in alcuni ambienti gesuiti notoriamente favorevoli ad una conciliazione con lo Stato italiano, mentre vennero immediatamente osteggiate e bloccate dal nuovo

65 Cfr. F. M. Broglio, Italia e Santa Sede: dalla grande guerra alla conciliazione; P. Scoppola, La chiesa

e il fascismo. Documenti e interpretazioni.

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G. Potestà; G. Vian, Storia del cristianesimo, p.388. 67

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segretario di Stato cardinale Rampolla, non trovando peraltro neanche terreno fertile presso il governo Depretis, ostile ad una conciliazione che sembrava dettata da pressioni esterne tali da far apparire debole ed influenzabile il governo italiano. Il Crispi rincarò la dose affermando pubblicamente che nulla sarebbe stato toccato rispetto a quanto era stato sancito dai plebisciti, negando così qualsiasi concessione territoriale al pontefice68. Tosti, dal canto suo, fu costretto a ritrattare il suo articolo69. La fiammella della speranza di un riavvicinamento si spense con la stessa velocità con cui si era accesa.

La nomina del nuovo segretario di Stato, convinto assertore della necessità di una ferma intransigenza, segnò l’inizio della nuova politica leonina. Il 26 luglio venne resa nota una lettera aperta di Leone XIII indirizzata al cardinale Rampolla nella quale il papa sosteneva che le sue parole erano state male interpretate. Il pontefice si schierava apertamente dalla parte degli intransigenti70, affermando che condizione necessaria e indispensabile per arrivare ad una conciliazione doveva essere la restaurazione della sovranità della Chiesa, a garanzia della sua libertà e piena indipendenza71. Oltre alla riparazione del torto subito, il pontefice reclamava il riconoscimento della dignità che spettava al capo supremo della Chiesa. Dignità che si sarebbe concretizzava unicamente nel riconoscimento di una effettiva sovranità, presupposto indispensabile secondo il pontefice per una reale e non illusoria libertà e indipendenza della Sede Apostolica72. Era chiaro che la Chiesa riteneva che il potere temporale fosse necessario all’esercizio della sua missione e che essa non avrebbe rinunciato a pretendere la restituzione dei territori perduti73. Il Rampolla rincarò la dose, diramando una circolare diretta ai nunzi pontifici nella quale ribadiva l’impossibilità per la Chiesa di riconoscere il Regno d’Italia, perdurando in esso un’intollerabile situazione che il Vaticano aveva più volte riprovato. Fintanto che l’Italia non avesse

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A. Canavero, I cattolici nella società italiana: dalla metà dell'800 al Concilio Vaticano 2, p. 82. 69

C. M. Buonaiuti, Non expedit: storia di una politica (1866-1919), p.82. 70 P. Scoppola, La chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, p. XXI. 71

C. M. Buonaiuti, Non expedit: storia di una politica (1866-1919), pp.82-83. 72

A. C. Jemolo, La questione romana, pp. 119-120. 73

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provveduto ad una giusta riparazione alle offese dirette contro l’indipendenza e la dignità della Chiesa, nessun accordo sarebbe stato possibile.

La rapida ripresa degli intransigenti fu facilitata dall’ampia rete di giornali di cui disponevano. Da questo momento i rapporti tra Stato e Santa Sede si avviarono verso una nuova fase di tensione. Nella Chiesa gli intransigenti imposero la loro strategia mentre da parte italiana le richieste vaticane vennero subito bollate come minacce all’unità del Regno. Nella classe dirigente del Paese prevalse la visione che la Chiesa fosse nemica dello Stato, poiché pronta a distruggere la nazione e restaurare i regimi preunitari. L’anticlericalismo italiano si intensificò e la speranza di una pacificazione religiosa si allontanò nuovamente.

Il fallimento delle speranze conciliatoriste rese più aspro il conflitto anche all’interno del mondo cattolico, dove continuavano a fronteggiarsi conciliatoristi e intransigenti. Nell’enciclica Libertas del 1888 Leone XIII analizzò il tema della tolleranza delle moderne libertà civili e politiche, che potevano essere accettate purché impiegate per ristabilire una società cristiana nella quale spettasse unicamente al papa la definizione dei princìpi morali sui quali doveva fondarsi la società civile. Si trattò certamente di una accettazione di alcune libertà e strumenti moderni, tra le quali vi erano il ricorso ai regimi democratici, la libertà religiosa e la separazione tra Stato e Chiesa. Ma quella che poteva essere interpretata, ad una prima analisi, come un’apertura anche nei rapporti con lo Stato italiano, era in realtà una decisa presa di posizione contro lo stato delle cose, tesa in ultima analisi a ristabilire un impianto ierocratico della società. Nessuno spazio fu infatti concesso al cattolicesimo liberale e non vi fu alcuna rinuncia alla rivendicazione del potere temporale del papa74. Non a caso, dopo una prima minaccia risalente al 1881, nel 1888 Leone XIII minacciò per la seconda vota di abbandonare Roma e l’Italia qualora la politica anticlericale italiana non fosse terminata. Una tale minaccia se effettivamente portata a compimento avrebbe potuto, a causa del delicato contesto internazionale, coinvolgere l’Italia in complicazioni non solo diplomatiche. Il gesto del pontefice, se abilmente sfruttato da altre potenze,

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avrebbe potuto arrecare danni gravissimi all’Italia75

. Questa situazione portò inevitabilmente lo stato delle relazioni tra la Chiesa e l’Italia ad uno dei punti più bassi dai tempi della presa di Roma.

Nel 1891, in un clima di forte tensione con lo Stato italiano, Leone XIII pubblicò l’enciclica Rerum Novarum con la quale intervenne nella questione sociale. Secondo il pontefice, la questione operaia e il problema del conflitto fra capitale e manodopera non potevano essere risolti se non attraverso la Chiesa e solo in un contesto di società cristiana. Leone XIII affermava il diritto naturale alla proprietà privata purché questa fosse messa al servizio della società ed esortava tutte le classi sociali ad accettare il proprio stato di vita, condannando il ricorso alla lotta di classe tesa a scardinare l’ordine sociale. Le critiche non si limitavano alle dottrine marxiste ma investivano ugualmente quelle capitalistiche e proponevano una terza via: quella cattolica. Il clero e il laicato cattolico venivano altresì incoraggiati ad impegnarsi in favore del popolo per riguadagnare consensi e arginare la secolarizzazione. La via tracciata da Leone XIII cambiò il volto della Chiesa, giacché l’enciclica divenne subito un punto di riferimento fondamentale per l’azione sociale dei cattolici. Sebbene mirate al ristabilimento di una società cristiana e a combattere il modernismo, le aperture di Leone XIII favorirono un impegno diretto del clero e del laicato cattolico nel sociale, creando le condizioni per lo sviluppo di esperienze culturali da parte di alcune figure cattoliche. “La

rielaborazione di queste nuove conoscenze spinse gradualmente questi ambienti cattolici su posizioni via via oltre i limiti indicati dallo stesso pontefice”, provocando una grave crisi all’interno della Chiesa, la cosiddetta

crisi modernista76. E difatti, in risposta alle sollecitazioni papali, si sviluppò il movimento di democrazia cristiana guidata dal sacerdote Romolo Murri, il quale propose, come indicato all’enciclica papale, un’alternativa cattolica al capitalismo e al socialismo.

Cionondimeno, dopo un primo esperimento compiuto in occasione delle elezioni amministrative del 1895, la parte intransigente del clero si oppose alle

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F. Salata, Per la storia diplomatica della Questione Romana. Da Cavour alla Triplice Alleanza, p.176. 76

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aperture sociali di Leone XIII. In un clima ancora condizionato dal non expedit e dalla paura del socialismo e della sua influenza sul mondo cattolico, la Santa Sede intervenne più volte per limitare l’azione del movimento guidato da Murri, il quale ambiva ad un impegno politico più diretto. D’altro canto, Leone XIII aveva ormai sostenuto ufficialmente la strategia astensionista e ostruzionista nei confronti dello Stato italiano e anzi, la sua azione si era irrigidita rispetto alla prima parte del suo pontificato. Come sempre, con l’avvicinarsi delle elezioni politiche divampavano le polemiche tra intransigenti e moderati. Di fronte a queste diatribe Leone XIII ribadì esplicitamente che il non expedit prohibitionem importat del 1886 non era interpretabile, ma al contrario rendeva manifesto quale fosse il dovere per i cattolici: l’astensione. Le condizioni in cui erano stati posti i pontefici, privati della piena libertà e indipendenza propria dell’apostolico ministero, erano uno dei principali motivi che giustificava il mantenimento del non expedit. Le parole del papa rappresentarono un trionfo per gli intransigenti, i quali sottolinearono l’impossibilità di disubbidire al pontefice richiamandosi esplicitamente al dogma dell’infallibilità pontificia. Una tesi però contestata dai moderati che sottolineavano come il pontefice fosse infallibile in materia religiosa, ma non in quella politica. Dato che il non expedit non era un dogma, se ne poteva discutere l’opportunità e l’efficacia77

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