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Tentativi conciliatori del governo Nitti e crisi dello Stato liberale

IL FASCISMO E LA CHIESA

4.2 Tentativi conciliatori del governo Nitti e crisi dello Stato liberale

Frattanto, la costituzione del Partito popolare rendeva ormai superate le proibizioni imposte dal non expedit. La Sacra Penitenzieria sancì il diritto e il dovere della partecipazione dei cattolici nella lotta politica a favore del Ppi giacché esso rappresentava il termine dell’attività pubblica dei cattolici ed era l’unico soggetto a potersi assumere la responsabilità delle loro azioni politiche. L’approvazione della Sacra Penitenzieria circa la partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese incontrò il sostegno pubblico dalla stampa cattolica, senza trovare alcuna smentita dal papa né dalla altre autorità ecclesiastiche. Con la rimozione ufficiale del non expedit cadevano i divieti e le varie formule che nei cinquant’anni precedenti avevano impedito ai cattolici di avere in Parlamento un’influenza proporzionale al proprio numero.

Anche se non tutti i cattolici italiani avevano salutato con entusiasmo la nascita del partito di don Sturzo, i fatti dettero ragione al prete siciliano. Nel giro di pochi mesi il Ppi divenne il fulcro di una macchina che si costituì spontaneamente con tutti i pezzi che il cattolicesimo aveva disseminato nella società: associazioni, patronati, sindacati, parrocchie, organismi di solidarietà economica e sociale160. La fitta trama di organizzazioni cattoliche esistenti favorì la sua strutturazione e attorno ad esso si raccolsero i cattolici italiani in modo unitario e con il tacito assenso della gerarchia ecclesiastica161. Gli ottimi risultati ottenuti dai popolari alle elezioni del 1919 cambiarono il profilo della società italiana: i cattolici eletti furono ben 103. Improvvisamente, il Ppi diveniva un elemento indispensabile per la formazione di una maggioranza governativa162. Nonostante questo grande successo, la Santa Sede tentò

159 N. De Rosa, Storia del partito popolare, p. 505. 160

S. Romano, Libera Chiesa, libero Stato? Il Vaticano e l’Italia da Pio 9 a Benedetto 16, pp. 62-63. 161

A. Canavero, I cattolici nella società italiana: dalla metà dell'800 al Concilio Vaticano 2, p. 149. 162

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un’ultima protesta prima di accordare ai candidati cattolici eletti il permesso di assumere l’incarico parlamentare. Rifacendosi direttamente alla prima posizione vaticana del 1866, la Sacra Penitenzieria provò a riproporre le condizioni a cui dovevano soddisfare i neo-eletti per accettare l’ufficio, ovvero la clausola del giuramento “eccetto che per le leggi divine ed ecclesiastiche”. Si trattò in ogni caso di un ultimo colpo di coda da parte del Vaticano, il cui scopo ultimo era quello di ribadire l’usurpazione subita, nonché la mai abbandonata speranza della restituzione dei territori già pontifici. Una rivendicazione ormai velleitaria in forza di una posizione antistorica. In più di cinquant’anni troppe cose erano mutate perché tale velata minaccia potesse essere presa sul serio. Ormai, con la costituzione del Ppi prima e il suo immediato successo elettorale, una nuova stagione nei rapporti tra Stato e Chiesa era iniziata.

Difatti, la marcia di avvicinamento tra Stato e Santa Sede proseguiva. Il radicale mutamento di clima nei rapporti tra le due istituzioni è attestato da una serie di provvedimenti governativi voti alla tutela delle prerogative della Chiesa e, al contempo, da alcune rinunce del Vaticano riguardo ad alcuni tipici atteggiamenti di protesta assunti all’indomani della presa di Roma. Nel primo caso, ad esempio, il Capo del governo Nitti assicurò alla Santa Sede che le nuove leggi fiscali non avrebbero colpito la Chiesa e, in particolare, sarebbero stati esclusi da tali provvedimenti tutti gli edifici destinato al culto, all’istruzione, alla beneficenza, finché avessero conservato tale destinazione163

. Sul mutato atteggiamento della Santa Sede basti citare il cambio di rotta riguardo una delle proteste che maggiormente avevano imbarazzato i governi italiani, vale a dire il rifiuto di accordare udienza pontificia ai capi di Stato cattolici che si fossero recati in visita al re d’Italia. Quando il re di Spagna si recò a Roma, Nitti riuscì a negoziare con la Santa Sede il programma di visita del sovrano spagnolo, il quale avrebbe reso un breve saluto al re d’Italia per poi recarsi, nella stessa mattinata, presso l’ambasciata della Santa Sede e i palazzi Apostolici per avere udienza papale.

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A.C.S., Carte Nitti, 1° vers., fasc. II, sc. 1, cit. in F. M. Broglio, Italia e Santa Sede: dalla grande

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Il miglioramento delle relazioni tra Stato e Santa Sede stimolò l’inizio di una riflessione tra i dirigenti del Ppi circa una possibile collaborazione con il governo Nitti. D’altro canto, il successo elettorale del 1919 era stato troppo grande perché il Ppi potesse rimanere tranquillamente all’opposizione. Dopo alcune discussioni il Consiglio nazionale decise di considerare come prematura una partecipazione al governo e raccomandò l’adozione, da parte del gruppo parlamentare, della tattica del voto di attesa. Al di fuori del Parlamento invece proseguivano fitte le trattative segrete tra Nitti e Gasparri per studiare una possibile soluzione della questione romana. I rapporti cordiali erano favoriti dalla particolare amicizia d’infanzia tra il pontefice e l’incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede, barone Monti164. Nel corso dei colloqui emerse la volontà di Benedetto XV di rinunciare ad un concordato, poiché credeva opportuno far ratificare la conciliazione da qualche forma di garanzia internazionale. Per il miglioramento della vita religiosa in Italia, il pontefice contava sui benefici effetti di una conciliazione politica e sulla crescente influenza dell’elettorato cattolico165

. Il governo Nitti, dal canto suo, pur disponibile ad una conciliazione che non prevedesse un concordato, fu presto allarmato dall’ipotesi di una garanzia internazionale, poiché potenze straniere avrebbero potuto, col pretesto di difendere gli interessi della Chiesa, adoperare lo strumento della garanzia per ingerirsi negli affari interni italiani.

All’interno del Parlamento però, a dispetto della crescente fiducia e simpatia della Santa Sede nei confronti del governo Nitti, i rapporti tra popolari e governo si fecero sempre più precari, a causa dell’atteggiamento paternalistico del presidente del Consiglio nei confronti del nuovo partito, che egli pensava di poter addomesticare per mezzo dell’intervento del Vaticano a cui Nitti, al pari di Mussolini, aveva promesso la risoluzione della questione romana166. Inoltre, il capo del Governo iniziava a mostrare una maggiore accondiscendenza verso i socialisti che verso i popolari, forse in ossequio alla tradizione anticlericale della democrazia radicale dalla quale egli proveniva. Forse per tale ragione egli

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I rapporti tra il pontefice e il barone Monti sono ampiamente descritti nell’opera di Scottà Antonio, La conciliazione ufficiosa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1997.

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C. Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944, cit. pp. 145-146, rif. in F. M. Broglio, Italia e Santa Sede: dalla

grande guerra alla conciliazione, p.68.

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tenne un atteggiamento inerte e remissivo di fronte alle perduranti violenze dei socialisti167. Questa serie di atteggiamenti negativi nei confronti dei popolari portò il Consiglio nazionale del Ppi a prendere posizione contro il Nitti, il quale per non perdere il loro sostegno in Parlamento tentò, senza successo, di far intervenire il Vaticano per convincere il Ppi a non provocare una crisi di Gabinetto168. La situazione precipitò rapidamente: le trattative ufficiose con la Santa Sede, già rallentate a causa del deterioramento dei rapporti con il Ppi, si interruppero definitivamente per il fermo atteggiamento negativo di Vittorio Emanuele III, che assunse coerentemente la stessa posizione che aveva adottato con il ministero Orlando l’anno precedente.

Ormai isolato, il governo Nitti cadde nel giugno del 1920. La situazione per i popolari sembrò migliorare con Giolitti e il Ppi entrò nel nuovo governo con due ministri e cinque sottosegretari. Ma dopo un primo periodo di collaborazione, nei turbolenti mesi successivi i rapporti si guastarono e Sturzo negò per due volte la fiducia allo statista piemontese. Questi allora chiese al re di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni politiche per indebolire la posizione dei socialisti e dei popolari in Parlamento. Ma il Ppi si rifiutò di entrare nel nuovo blocco d’ordine conservatore proposto dal Giolitti e le elezioni del 15 maggio 1921 non modificarono in modo significativo l’equilibrio delle forze in Parlamento, permettendo invece l’ingresso di 35 deputati fascisti confusi nelle liste del blocco liberale. Poco dopo, caduto Giolitti, i popolari entrarono nel nuovo governo Bonomi e si videro assegnati tre ministeri, tra i quali il più importante era quello di Giustizia. La forza di popolari a livello governativo indusse le squadre fasciste a rivolgere le loro violenze contro gli esponenti del Ppi, comprese le organizzazioni bianche169. La situazione del governo Bonomi si fece presto critica e si aprì una lunga e difficile crisi.

Il 1922 si aprì in un clima di sfiducia generale e con un’intensificazione delle violenze fasciste. Nel febbraio il governo Bonomi cadde a seguito del passaggio all’opposizione da parte del gruppo parlamentare demo-liberale. Era

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A. Canavero, I cattolici nella società italiana, pp. 156-157. 168

G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, pp. 414-415. 169

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l’inizio di un’azione che avrebbe dovuto riportare Giolitti al governo. Si pensava che l’anziano statista fosse l’unico in grado di governare l’Italia in quel difficile momento e trascinare il Paese fuori dalla crisi. Ma i rapporti tra lo statista piemontese e Sturzo si erano ormai irrimediabilmente guastati. Dopo le dimissioni del ministero Bonomi, il sacerdote siciliano si oppose ostinatamente alla formazione di un nuovo governo Giolitti, rifiutandosi di collaborare al progetto dei demo-liberali. Di fatto, questa condotta contribuì ad aggravare la pesante crisi in cui versava lo Stato liberale e che avrebbe portato, di lì a poco, alla crisi definitiva del sistema parlamentare e al rapido avvento del fascismo al potere. Infatti, non essendo in grado i popolari di proporre una combinazione governativa che avesse possibilità di riuscita rispetto a quella proposta dal Giolitti170, l’atteggiamento ostruzionistico di Sturzo ebbe come conseguenza la formazione del debole governo Facta. Il ministero Facta durò appena sei mesi, prima di essere sopraffatto dagli eventi. Mussolini infatti intervenne in modo risolutivo il 28 ottobre con un’azione di forza prima che il re desse a Giolitti l’incarico di formare un nuovo governo. La storiografia ha ormai appurato con certezza quanto la marcia su Roma guidata da Mussolini avesse un valore più dimostrativo e intimidatorio che realmente operativo. Come osservato dal De Felice, essa non era altro che un momento della scalata a potere: il momento essenziale era e rimaneva quello politico171. Ma essa mise a nudo la debolezza di uno Stato liberale che la subì passivamente e addirittura la legalizzò quando il re diede l’incarico di formare un nuovo governo a Mussolini172.