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Fig. 1

Simposi di sarcofagi etruschi nella chiesa di San Pietro a Tuscania.

- anche le persone più disattente dovettero accorgersi che esisteva una città quasi abbandonata, ridotta a paese, ma con monumenti eccezionali che, per fortuna, il terremoto scosse ma non riuscì ad abbattere.

Questi monumenti, S. Pietro e S. Maria Maggiore in primissi- ma linea, avevano fatto la meraviglia di tutti gli storici dell’arte, scaglionati com’erano, fra il IX e l’XI secolo. E come nacquero in quell’angolo morto della storia? Ma è che, a quel tempo, non era un angolo morto. E la Raspi-Serra, che di recente li ha studiati, ha potuto mettere in luce le assonanze indubbie sia con civiltà setten- trionali sia con quella islamica; e dunque apparivano isolati solo perché i loro rapporti non erano con l’arte finitima, superstite a Roma in quei secoli, ma con le correnti nuove che venivano dalla Francia e dalla valle del Reno. La via Clodia, appunto, attraverso cui Carlo Magno venne a Roma, è l’arteria che a questo crocic- chio di popoli e di poteri vari, portava a ondate le notizie da fuori: magari tramite gli ordini religiosi. Questa strana battigia di cul- ture quasi remote, come divenne la Tuscia romana, non lo fu solo nell’epoca d’oro di Tuscania (Viterbo doveva detronizzarla), ma anche in altri centri, Corneto in primo luogo (l’attuale Tarquinia, nel pudibondo rigetto che i cornetani fecero delle corna), che rap- presentò la cerniera, per così dire, fra i longobardi di Toscana e il patrimonio di S. Pietro.

… Anche un libro di scienza può allora appassionare come un romanzo. Ma non diviene romanzo, e il trasferimento della sede papale ad Avignone segna la fine di questa epoca aurea per Vi- terbo e per tutta la Tuscia romana. Certo, Viterbo sopravviverà, avrà anche momenti di splendore: ai confini della Tuscia verrà addirittura fondata una città, Castro, che ora giace in rovina in mezzo ad un bosco, aggrovigliata nei rovi. È tutt’altra storia che si sovrappone a quella antica e ormai obliterata: la storia, che ora le rovine di Tuscania spopolata rendono amarissima e attuale...

… Ma il silenzio … non è silenzio di cimitero, perché la rovina non opprime e il silenzio ti esalta: gorgoglia all’orecchio come da una conchiglia marina. Ecco, si può sospendere il tempo, sedersi sulla sponda della strada vuota, ascoltarsi. È qui che la Tuscia romana riaffiora, come dalle acque, ospita la primavera.

Cesare Brandi, La Tuscia romana, quasi un’Atlantide

B

asterebbero queste poche righe di Cesare Brandi per de- scrivere in un’immagine ciò che l’Etruria è oggi e ciò che è stata molto tempo fa. Le parole fanno intendere infatti che questo luogo, che ora è un angolo morto, rustico e aperto ai venti e al sole (Brandi, 2006), era un tempo un vivacissimo cro- cevia di strade e di culture. Difficile immaginarlo per quel che ora appare, ma in fondo i tanti resti preziosi di quel passato non indu- cono a pensare altro e se si osservano le cose con la dovuta atten- zione si può allora recuperare l’immagine di quel fervente paese.

Aggiungere parole a quanto detto da Brandi porterebbe ad apri- re un discorso immenso, perché dell’Etruria e della sua civiltà più

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nota (la stessa che dà nome alla terra), contrariamente a quanto superficialmente si pensa, ormai si conosce abbastanza e sottile s’è fatta quella patina di mistero che solitamente avvolge il mondo etrusco. Tuttavia, senza riportare gli studi sviluppati sul tema1, e

senza nemmeno tentare ora di riproporne una sintesi, lasciando a dopo l’analisi e l’interpretazione di alcuni aspetti fondamenta- li, cercando anche un’integrazione organica tra i diversi saperi, è d’obbligo affrontare subito alcune questioni cruciali per introdurre il caso sul quale si concentra questo studio.

Prima di tutto si deve partire dal nome, dalla cosa: dal compren- dere perché questa terra, che ha avuto un passato tanto ricco e non esclusivamente etrusco, che è stata Tuscia Romana e Patrimonium Sancti Petri, ed ora è Alto Lazio, porta ancora il nome di un popolo antichissimo e si chiama Etruria. Allora si potrebbe dire che tutti i nomi valgono e che secondo le convenzioni in vigore l’area dovreb- be essere indicata più giustamente come Alto Lazio.

Tuttavia, sebbene quel paese che viene chiamato qui Etruria non è stato solo tale, etruschi, in un certo senso, sono stati tutti coloro che l’hanno abitata. Etruschi furono così i romani di queste terre, per quanto li combatterono e tentarono di alterarne gli assetti, i bizantini ed i longobardi; etruschi sono anche gli attuali abitanti e lo sono stati pure coloro che non vi hanno vissuto fisicamente, ma certamente con l’intelletto. Etruschi sono stati Henry Moore, Alberto Giacometti e Arturo Martini, ad esempio.

Ma questo è un destino ineluttabile per una terra che ovunque rigetta tracce di quel passato, che peraltro non è stato mai rinnega- to2, ma sempre osservato, temuto e recuperato.

I luoghi del cristianesimo sorgono su quelli cultuali etruschi: chiese sono state fondate su necropoli a sancire gli assetti e la sa- cralità dei territori. E così quel mondo riemerge sempre dalla terra per riabitare la superficie. Simposi di sarcofagi, di uomini distesi, grassi, oziosi, senza fretta consapevoli di non aver tempo, si tro- vano nelle grandi chiese della Tuscia Romana, nei cortili e nelle piazze urbane, sotto l’ombra di una torre o all’aperta luce del sole. In compagnia oppure in solitudine, osservano le cose scorrere, per quanto in questi luoghi poco si muovano. Sono immagine di morte ma anche di vita, di una memoria che non cessa di sopravvivere. Sono l’effige di quel mondo antico che ciclicamente si riversa nel presente, sempre più ricco di influenze e di tracce che gli si somma- no ed integrano con l’avanzare del tempo ed il soggiungere di nuo- ve culture. Potremmo dunque dire che l’identità di questi luoghi coincide con quella del paesaggio etrusco, che ha continuamente pesato sugli sviluppi posteriori. Senza escludere, certamente, il fio- rire di altre civiltà con i propri costumi e linguaggi ed una straordi- naria poliedricità culturale che caratterizza altresì questa regione. Gli stessi etruschi si sono alimentati di altre tradizioni. Derivano la loro da quella greca che nell’VIII secolo a.e.v. approdò sulle co-

1 Tra i più celebri ed importanti studiosi del popolo etrusco e dell’Etru- ria in generale ricordiamo Ranuccio Bianchi Bandinelli, Massimo Pallottino, Thimothy Potter, Joselita Raspiserra, Mario Torelli, Mauto Cristofani.

2 Come tra breve si vedrà, i romani provarono a proporre nuovi assetti e nuove strategie territoriali, cercando di rimuovere la memoria etrusca. Ma vano fu nel lungo tempo il loro sforzo, poiché rimosso dalle invasioni barbari- che.

ste della penisola italiana, fino a quel momento periferia del Medi- terraneo rispetto alle grandi civiltà preistoriche e protostoriche di Creta e dell’Egeo (Bianchi Bandinelli e Giuliano, 1985).

Quel che si cerca di dire è che l’animo etrusco ha sempre perva- so questi territori aleggiando nei paesaggi storici, fino all’ultimo, quello attuale, dove tombe e sepolcri antichi affiorano dispersi ed abbandonati nei campi agricoli e nei pascoli e dove le vacche bivac- cano negli antri senza tempo appropriandosi, lungi dal profanarli, dei luoghi sacri. Ed in fondo, chi ha cercato di ricostruire un’identi- tà, un immaginario nuovo è partito proprio da questo passato. Così hanno fatto i Medici collezionisti di anticaglie, che pure al mondo etrusco si son volti, coi loro artisti di corte, tra i quali Donatello ed il Pollaiolo, per fondare la cultura dell’umanesimo fiorentino3; così

3 Del recupero della tradizione, dell’arte e della mitologia etrusca par- la lungamente André Chastel nel suo testo “Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico” (1964). Scrive: Essa (l’illusione che Firenze fosse la vera erede di Roma) d’altronde non escludeva la convinzione che Fi- renze avesse avuto nel medioevo e occupasse nella «rinascita» una posizione indipendente dalle tradizioni propriamente romane. Si pretendeva dunque uguagliare l’Urbs imperiale e nello stesso tempo si prestava nuova attenzio- ne alle origini etrusche e alle rovine originali della provincia. Nello stesso testo, l’autore dedica poi un capitolo intero al revival etrusco. La curiosità per le «antichità etrusche», scrive, si era fatta in effetti abbastanza viva nella seconda metà del secolo e in particolare nella cerchia di Lorenzo. Il «mito» etrusco era dunque tenuto vivo dai letterati del Quattrocento.

Fig. 2

I sarcofagi etruschi, ordinati in fila, si affacciano sulle piazze e le strade di Tuscania.

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gli eruditi neoplatonici, come Egidio da Viterbo, hanno riscritto storie accentrate attorno al mito etrusco, paragonando i Lucumoni «divinarum rerum interpretes» ai patriarchi israelitici; così Dante stesso ha attinto da questo repertorio di immagini per disegnare il suo inferno (Chastel, 1964).

Più si andrà avanti nello studio di questi luoghi e più ci si ren- derà conto di un’affermazione che sempre vale e che è quella che la realtà non parla di affermazione ma di commistione. Non c’è mai una sola cultura dominante, poiché quella che vige si alimenta delle passate e convive con le altre coeve. E pure l’Etruria deve essere in- tesa proprio come il risultato di un intreccio di tradizioni, di remi- nescenze e di influenze che non si escludono a vicenda, ma si som- mano le une alle altre, posandosi fermamente su quella precedente a tutte (se si escludono le culture previllanoviana e villanoviana che confluirono in quella etrusca) che alla terra, l’Etruria, dà il nome. E non solo infatti sarà possibile individuare qui una tradizione che è veramente italiana4 e che è il risultato degli influssi regionali, ma

se si entra in una chiesa romanica si sentiranno echi provenienti 4 Centralissimo è per Cesare Brandi il ruolo svolto da San Pietro nella formazione di un’architettura italiana. Il suo testo “Disegno dell’architettura italiana” (1985) si apre proprio con la descrizione della chiesa tuscanese, che viene definita innovativa rispetto alle altre architetture sacre che in quel perio- do venivano costruite a Roma.

Fig. 3

La particolare ghiera dell’arco di San Pietro (navata destra) dichiara le relazioni di questa architettura con il mondo arabo.

dal Mediterraneo e d’oltralpe, un chiaro trilinguismo, lombardo, arabo e francese, in una regione di transito, nella vicinanza del mare, all’orlo dei possedimenti ecclesiastici e di quella che sarà la contea matildica, capace di riassumere la prima architettura italiana, mai isolata dal contesto mediterraneo, né resecata da quello nordeuropeo, eppure mai succube né dell’uno né dell’altro, innovativa e autonoma (Brandi, 1985).

Ed allo stesso tempo si vedranno queste chiese impiantarsi su altari etruschi, oltre che assistere, com’era di costume, al reimpiego di materiali provenienti da quel mondo più antico: capitelli di spo- glio o tasselli marmorei istoriati a costituire parte delle narrazioni delle facciate ecclesiastiche.

Quella dell’Etruria o della Tuscia Romana è un’architettura uni- versale che tiene assieme memorie capaci di narrare delle geografie politiche, dei viaggi, delle rotte che univano questa terra alle altre, dalla civiltà etrusca, che dialogava con i micenei e poi coi greci, fino a quella medievale che metteva assieme le tendenze locali con quel- le mediterraneee e continentali, in un universalismo che necessita- va di una cultura profonda.

L’universalismo di cui stiamo perdendo i vantaggi è tutt’altra cosa dal cosmopolitismo che sta per sopraffarci: l’universalismo presuppone una cultura feconda, ovunque estesa e trasmessa, mentre il cosmopolitismo non prevede né azione né dottrina e pro- voca l’indifferente passività di uno sterile eclettismo.

(Stavinskij, 1984)

4.a L’area di studio: la via Clodia da Barbarano Roma- no a Tuscania

Di questa grande regione, chiamata Etruria, l’area di cui si occu- pa lo studio è quella meridionale ed interna che si sviluppa lungo il tracciato della via Clodia, con precisione da Barbarano Romano (che insisteva su un diverticolo della strada) a Tuscania.

Consiste di un tratto di strada lungo circa 35 km e di un’area chiaramente identificata da confini idro-morfologici. A delimitarla ad est ci sono i monti Cimini, ad ovest il sistema montuoso della Tolfa, a sud la caldera di Bracciano e a nord quella di Bolsena. Si tratta di un settore pertanto definito dal punto di vista geomorfo- logico ed anche geologico, ma soprattutto coerente per gli aspetti culturali. Dal periodo etrusco questo paesaggio è stato infatti cono- sciuto come quello delle necropoli rupestri, che son state ricavate nei banchi tufacei che emergono lungo le forre e prospicenti gli abi- tati. Più tardi, nel medioevo, lungo la via Clodia sono state costru- ite pievi e cattedrali a simbolo del potere sacro dell’allora nascente Stato della Chiesa.

Anche le principali infrastrutture, che sono oggi quelle di istitu- zione romana, aiutano così nella delimitazione e caratterizzazione dell’area. La via Clodia, prima di tutto, viene assunta come asse strutturante di questo territorio, ai bordi est ed ovest del quale si trovano risettivamente la Cassia e l’Aurelia. Sono proprio i destini

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La via Clodia

La via Clodia è una strada di istitu- zione romana (II secolo a.e.v.) trac- ciata a partire dalla rete capillare dei percorsi di età etrusca. Risulta pertanto essere il riadattamento di quel sistema di mobilità locale che collegava tra di loro i piccoli e gran- di centri dell’entroterra, distante, per carattere, dalle strade romane di moderna concezione, vie di co- municazione a lunga distanza che, come l’Appia, avevano lo scopo di

collegare con rettifili Roma a terre distanti.

Il tracciato della via Clodia è pertan- to ritracciabile a partire dall’indivi- duazione dei siti che raggiungeva, oltre che dai segni ancora conservati nel territorio.

Diverse carte storiche (tra le quali celebre è la Tavola Peutingeriana) riportano l’itinerario della strada da Roma a Saturnia.

Nel tratto di cui si occupa questo studio le località intercettate dalla

Clodia, oggi rappresentate da bor- ghi ancora abitati o da siti archeolo- gici completamente abbandonati ed isolati nell’aperta campagna, sono, elencandoli da nord a sud:

Blera, Grotta Porcina, Norchia, Roc- ca Respampani, Tuscania.

Fig. 4

Individuazione del tracciato della via Clodia da Barbarano a Tuscania.

delle strade, congiuntamente alle decisioni politiche e strategiche, a segnare le sorti del territorio: a far sì che questa Etruria (quella interna della Clodia) sia fino al XII-XIII secolo il luogo vivacissimo di cui si è parlato; che la Cassia, importantissima strada romana, rinnovi la sua importanza di asse che collega Roma all’Alto Lazio, quando Viterbo diviene la sede della cattedra episcopale; e che l’Aurelia, nella storia sempre tenuta un po’ da parte per questioni legate all’insalubrità e alla pericolosità dei luoghi che attraversava, prossimi alla costa ed al mare, divenga arteria trafficata del litorale che nel frattempo si è trasformato per il turismo balneare e le eco- nomie industriali.

L’area che qui viene presa in considerazione è stata dunque scelta perchè omogenea, per essere ovvero una regione nel vero senso della parola, capace di condividere qualità geomorfologiche e storico culturali, nondimeno trovando nel suo territorio interes- santi variazioni caratteriali. Da Barbarano Romano a Tuscania, in- contrando quindi San Giuliano, Blera, le località di Grotta Porcina e del Cerracchio, Norchia e Rocca Respampani, e raggiungendo, attraverso diverticoli, San Giovenale e Luni sul Mignone, San Gio- vanni in Tuscia, la Macchia delle Valli e Vetralla, Castel d’Asso e Musarna, si osservano paesaggi omogenei, tutti caratterizzati dal suolo tufaceo inciso da forre e dai lasciti di un passato che si è svi- luppato generalmente dalla protostoria fino al medioevo, dotati tuttavia di una loro precisa identità ed un proprio ruolo nella storia. Si tratta di luoghi in parte ancora abitati, sede di borghi raccolti, come Blera, Barbarano e Tuscania, ma per la maggioranza comple-

Figg. 5, 6

Il sito archeologico di Norchia in due fotografie degli anni ‘60. Le rovine del castello Di Vico marcano il pianoro un tempo abitato. Nell’immagine a destra in primo piano si vede la via Clodia.

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tamente disabitati, ruderizzati ed inselvatichiti, come Norchia, Ca- stel d’Asso, Musarna, San Giuliano, il Cerracchio e Grotta Porcina. Anche e soprattutto in questa condizione di necessità stanno le ragioni della ricerca, della scelta di concentrarsi sull’Etruria me- ridionale che si sviluppa lungo la via Clodia. Questo settore, che soffre evidentemente i problemi della marginalizzazione, rientra infatti nelle cosiddette aree interne5. Presenta allo stesso tempo va-

lori storici, culturali ed ambientali fortissimi, che rappresentano una potenzialità per il riscatto di queste terre e certamente un bene che non può essere perso né dimenticato. Mostra inoltre un’imma- gine antica, ancora fortemente radicata nel suo passato: un’appa- renza ed una struttura che consentono di leggere ancora la storia del territorio, offrendo coerenze tra aspetti naturali ed antropici.

5 In realtà il settore indagato non è descritto interamente come area interna. Ne viene escluso, paradossalmente, il territorio di Norchia e quello limitrofo di Vetralla. La causa, come più avanti si vedrà, risiede nell’attenersi, nella zonizzazione della strategia, ai perimetri comunali. A fronte di tale frain- teidimento la questione risulta ancora più allarmante perchè zone tracurate e demograficamente povere vengono escluse dall’attenzione per via di logiche puramente amministrative.

Fig. 7

Il sito archeologico di Norchia in una foto aerea della RAF (1944). In evidenza il tracciato della via Clodia.

Fig.8

L’abitato di Tuscani ed il territorio circostante in una foto aerea della RAF (1944). In evidenza il tracciato della via Clodia.

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4.b Perché studiare un paesaggio antico? 6

Guardando questo paesaggio, e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla...

Sebastiano Vassalli, La chimera La necessità di volgere lo sguardo ad un paesaggio antico sta anche nel bisogno di rendere possibile una lettura degli effetti in relazione alle cause, di trovare una realtà apparente che sia quella più plausibilmente semplice e chiara, riconducibile alla sua vera struttura. La realtà è inevitabilmente un fatto complesso, dal mo- mento che il paesaggio sintetizza nella sua immagine una ricchis- sima quantità di dati, di diversi aspetti, che altro non sono che il risultato di una storia culturale, naturale ed antropica.

Il territorio sotto i nostri occhi, scrive Carlo Tosco (2009), è come un libro aperto che narra la sua storia e che occorre impa- rare a leggere ed interpretare. Si tratterà sempre d’informazio- ni lacunose e frammentarie, ma in grado di fornire gli elementi di base per tracciare dei quadri complessivi. Il metodo di ricerca si caratterizza per essere un metodo regressivo, che consiste nel partire dalla configurazione odierna per risalire alle forme del territorio più antiche, per la finalità di comprendere come si è giunti all’assetto attuale.

Per attuare questa lettura c’è dunque bisogno di ricostruire la storia dei luoghi, partendo, appunto, da quella che è la loro imma- gine attuale. C’è bisogno di ricondurre gli effetti (i fatti visibili e tangibili) alle cause. Ma questo legame causa-effetto non è tuttavia garantito. Un territorio può essere infatti letto secondo queste mo- dalità solo se gli eventi si riflettono in qualche modo materialmente e direttamente sulla sua struttura.

Il geografo Lucio Gambi definisce il paesaggio proprio come l’insieme della realtà visibile, o meglio ancora della realtà sensi- bile, che riveste o compone uno spazio più o meno grande intorno a noi; una realtà materiale, concreta, che si sostanzia in forme, o per meglio dire in fattezze sensibili riportabili a forme definite (Farinelli, 2003). Dunque il paesaggio non sarebbe altro che l’ef-