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La normativa previgente alla riforma del 1992 prevedeva che il marchio non potesse essere trasferito indipendentemente dal trasferimento dell’azienda o del ramo di essa cui il segno inerisce(177). Tale funzione del marchio era quella di indicatore della provenienza di prodotti

e servizi di una stessa impresa, comportando, quindi, il rischio di inganno per il pubblico in caso di trasferimento dello stesso segno da un’impresa ad una nuova. Ciò avveniva per garantire al consumatore la continuità nella qualità del prodotto o servizio marchiato anche con il trasferimento del segno. Un effetto innovativo in direzione dell’autonomia del marchio si è manifestato attraverso la disciplina del trasferimento e della licenza del marchio, con l’abolizione del vincolo con l’azienda; infatti l’art. 23 c.p.i oggi introduce il principio di libera circolazione del marchio sia per la cessione che per la concessione in licenza del marchio e precisa che il marchio «può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali e' stato registrato»(178). Il contratto di cessione del

marchio prevede che il titolare trasferisca il proprio diritto al cessionario a titolo definitivo, previo pagamento di una somma di denaro(179) tale per cui la titolarità del marchio si

sdoppia tra il cedente ed il nuovo titolare. Esso si distingue dal contratto di licenza, che sussiste qualora il titolare del marchio abbia intenzione di concedere a terzi l’uso di tale diritto esclusivo in un determinato tempo e in un determinato territorio, dietro il pagamento di una lump sum, cioè una somma fissa e indipendente dai profitti del titolare inseguito alla firma del suddetto contratto, o di royalties (180)

Il secondo e il terzo comma dell’art. 23 c.p.i fanno riferimento alle ipotesi di licenza di

marchio ammesse dall’ordinamento, precisando che la licenza può essere non esclusiva(181)

(177) La giurisprudenza aveva affermato che «l’unico caso in cui fosse possibile cedere il marchio in assenza di cessione di azienda o di ramo d’azienda fosse rappresentata dall’ipotesi in cui il cedente mai avesse fatto uso del marchio». Cfr. Cass. civ., sez. I, 17 dicembre 1987, n. 9404, in Riv. dir. ind., 1988, II, p. 228 e ancora

A.SIROTTIGAUDENZI, Manuale pratico dei marchi e brevetti, 4 ed., 2011, op. cit, cit. 7, p. 156. (178) Art. 23 c.p.i, comma 1. Si veda http://www.altalex.com/index.php?idnot=34554#capo2. (179) Per approfondimenti si consulti il sito http://www.innovazione.dintec.it/brevetti/disc_ipr.php.

(180) Lo stesso art. 1 della legge 6 maggio 2004, n. 129 (vd. supra cit. 187) chiarifica il concetto di royalties: si tratta di «una percentuale che l’affiliante richiede all’affiliato commisurata al giro d’affari del medesimo o in quota fissa, da versarsi anche in quote fisse periodiche». Ibidem, cit. 187. La nota azienda italiana Gucci nel 1972 è stata la prima a lanciarsi nel settore orologiero concedendo in licenza il celebre marchio per la produzione di orologi alla società svizzera Severin Montres. Nel 1996 si stima che Gucci abbia incassato royalties per più di 34 milioni di franchi svizzeri.

(181) Per licenza non esclusiva si intende il caso in cui il titolare del marchio abbia intenzione di continuare ad utilizzare quel marchio che ha concesso in licenza; il licenziatario deve, però, usare il marchio per

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purché tale da garantire l’uniformità dei prodotti o servizi contraddistinti e che il titolare del marchio possa rivendicare il suo diritto di uso esclusivo dello stesso in caso di violazione da parte del licenziatario delle disposizioni del contratto di licenza e delle sue condizioni(182).

Ad ogni modo sia in caso di cessione che di licenza è fondamentale che «non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico»(183).

Il legislatore nazionale ha inoltre recentemente creato norme che specificano il concetto di franchising, ossia il contratto per mezzo del quale il franchisor (titolare del diritto) cede, verso corrispettivo al franchisee, lo sfruttamento del marchio e dei segni distintivi collegati ad esso, insieme alle tecniche e conoscenze indispensabili all’efficiente svolgimento dell’attività, il cosiddetto know-how(184).

Diverso è il caso del trademark merchandising, in cui il titolare di un marchio (merchandisor) celebre autorizza terzi (merchandisee) all’impiego del segno distintivo per prodotti in precedenza mai fabbricati o commercializzati, quindi in un settore di mercato differente dallo stesso in cui il marchio ha acquisito notorietà(185). Il merchandisor, in una

posizione privilegiata, ha così la possibilità di conoscere una nuova realtà di mercato da cui può da una parte trarre benefici grazie alla notorietà del marchio e dall’altra ridimensionarne i rischi derivanti da un eventuale rallentamento della domanda in quel

«contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari». Vd. l’art. 23 comma 2 c.p.i su http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/05030dl.htm.

(182) Ai sensi del terzo comma dell’art. 23 c.p.i « Il titolare del marchio d'impresa può far valere il diritto all'uso esclusivo del marchio stesso contro il licenziatario che violi le disposizioni del contratto di licenza relativamente alla durata; al modo di utilizzazione del marchio, alla natura dei prodotti o servizi per i quali la licenza e' concessa, al territorio in cui il marchio può essere usato o alla qualità dei prodotti fabbricati e dei servizi prestati dal licenziatario». Il testo del Codice si può consultare sul sito http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/05030dl.htm.

(183) Art. 23 comma 4 c.p.i e art. 2573 cc.

(184) L’art. 1 della legge 6 maggio 2004 n. 129 "Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale", sancisce tale principio. In particolare la norma chiarifica il concetto di know-how, inteso come «patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante,[…] comprende conoscenze indispensabili all’affiliato per l’uso, per la vendita, la rivendita, la gestione o l’organizzazione dei beni o servizi contrattuali». Esso costituisce inoltre patrimonio segreto e non facilmente accessibile, tale per cui risulta indispensabile che questo venga descritto esaustivamente al fine della verifica dei criteri di segretezza e di sostanzialità. GU, 24 maggio, n.120, 2004. Il testo della legge è inoltre consultabile al sito http://www.camera.it/parlam/leggi/04129l.htm. Inoltre si veda A. SIROTTIGAUDENZI, Manuale pratico dei

marchi e brevetti, 4 ed., 2011, op. cit, cit. 20, p. 159-160.

(185) Il primo contratto di merchandising è stato concluso negli Stati Uniti circa un secolo fa. La Walt Disney concesse ad un’azienda terza il libero utilizzo dell’effige del tanto amato personaggio animato Topolino nella realizzazione di diari scolastici.

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settore. Egli ha il compito di «mantenere e rinnovare la registrazione del marchio, estendendola anche nelle aree di mercato e nelle classi merceologiche in cui opera»(186). Il merchandisee deve adempiere al suo ruolo con investimenti massicci, la predisposizione del piano marketing, relative ricerche sul mercato di riferimento e analisi approfondite sul marchio notorio al fine di definire con esattezza il valore delle royalties e non sostenere spese sconvenienti in relazione ai quantitativi di vendita.

Quel segno già carico di significato e perfettamente conosciuto dai consumatori conferisce al merchandisee ricavi vantaggiosi assicurati da una percezione positiva del marchio da parte del pubblico e trasferitasi automaticamente sul nuovo prodotto/servizio. Il titolare del marchio può scegliere, in forma di tutela preventiva, di vincolare il licenziatario al mantenimento di una certa identità aziendale attraverso clausole che regolano il packaging, la promozione e la distribuzione degli stessi, con lo scopo di rispettare la visione del

merchandisor e il relativo posizionamento nel mercato di riferimento. I contratti di

merchandising, inoltre, comprendono clausole riguardo questioni giudiziarie contro eventuali pratiche contraffattorie nonché clausole che regolano la perdita della licenza per assenza dell’uso effettivo del marchio da parte del merchandisee, in quanto interesse primario del licenziante è quello di accertarsi che la licenza concessa venga effettivamente sfruttata ed evitare una ingente perdita della relativa immagine del marchio derivante dalla presenza di prodotti contraffatti.