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Capitolo III: Trattamenti della depressione farmacoresistente

3.6 Trattamenti farmacologic

La depressione è una patologia sottesa da una vasta base biologica pertanto necessita di un trattamento farmacologico indispensabile sia in fase acuta che per le recidive. Attualmente il trattamento farmacologico si basa sull’utilizzo di farmaci antidepressivi che portano ad un miglioramento della sintomatologia in circa l’85-90% dei casi, in associazione a trattamento anticonvulsivo, psicoterapico e a nuovi trattamenti non invasivi di stimolazione cerebrale (TMS e tDCS). I 193farmaci antidepressivi maggiormente utilizzati sono gli SSRI che costituiscono il trattamento di prima linea nei casi di depressione lieve/media mentre nei casi più gravi e resistenti vengono associati ai triciclici (TCA). Gli SSRI sono farmaci antidepressivi di nuova generazione, per cui presentano ridotti effetti collaterali e un’elevata tollerabilità anche da parte di pazienti con patologie cardiovascolari, considerando l’assenza di attività antistamica, anticolinergica e adrenolitica. Gli antidepressivi triciclici vengono utilizzati nei casi in cui i pazienti non rispondono adeguatamente agli SSRI e SNRI e presentano maggiori effetti collaterali rispetto agli SSRI per la loro attività

anticolinergica, antistamica e adrenolitica. Nelle forme depressive

farmacoresistenti, in cui i pazienti non rispondono o rispondono solo parzialmente a due adeguati trials di antidepressivi è necessario un trattamento integrato con SSRI e TCA, come abbiamo già accennato in quanto tale associazione sembra dimostrarsi efficace nel 35-65% dei casi. L’associazione tra antidepressivi e farmaci dopamino-agonisti ha dimostrato risultati promettenti anche se sono ancora necessari ulteriori conferme.

Nei casi di resistenza grave sono indispensabili altri trattamenti non farmacologici come; la terapia elettroconvulsiva che rimane il trattamento di prima scelta per le forme con elevato rischio di suicidio, con arresto psicomotorio e con mancata risposta al trattamento farmacologico, la stimolazione del nervo vago, terapie fisiche (TMS e tDCS) e talvolta anche la sleep deprivation parziale che agisce apportando una modificazione del ciclo sonno-veglia. I farmaci antidepressivi prima di essere approvati nell’uomo sono stati sottoposti a una rigida sperimentazione preliminare per verificare la loro utilità ed efficacia rispetto al placebo e gli studi sono stati condotti nella maggior parte dei casi in doppio cieco e quindi nelle condizioni in cui né i partecipanti né gli sperimentatori sono a conoscenza se la persona sta assumendo il farmaco o il

194placebo. Gli antidepressivi agiscono ripristinando l’equilibrio dei

neurotrasmettitori monoaminergici che risultano alterati nella patologia depressiva e correggendo la disfunzione biochimica per cui il loro effetto è evidenziabile dopo le prime due settimane dall’assunzione. Attualmente è possibile distinguere due principali 195classi di farmaci antidepressivi: prima

generazione e seconda generazione. Tra i farmaci di prima generazione

troviamo l’IMAO (inibitori delle monoaminoossidasi) e i TCA (triciclici) che agiscono sui neurotrasmettitori serotoninergici e noradrenergici. Questa classe di farmaci è poco utilizzata poiché presenta importanti effetti collaterali e ridotta tollerabilità. Tra gli antidepressivi di seconda generazione troviamo gli SSRI, gli SRNI, i NARI e i NaSSA.

194 Per placebo si intende la somministrazione di una sostanza inerte e quindi priva di un azione farmacologica

Gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) agiscono in maniera selettiva aumentando la concentrazione di serotonina a livello presinaptico, gli SNRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e noradrenalina) agiscono aumentando le concentrazioni presinaptiche di serotonina e noradrenalina, i NARI (inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina) agiscono selettivamente sulla noradrenalina e infine i NaSSA (inibitori specifici serotoninergici e noradrenergici) che favoriscono il potenziamento della neurotrasmissione serotoninergica e bloccano i recettori adrenergici presinaptici alfa-2 e alcuni recettori stessi della serotonina. Uno dei problemi più rilevanti della farmacoterapia dei disturbi affettivi è capire il dosaggio e i tempi in cui intervenire per evitare che un inizio ritardato o una precoce interruzione della terapia possa alterare l’omeostasi nelle stesse regioni cerebrali coinvolte nella patologia depressiva tra cui l’ippocampo, l’amigdala e la corteccia del cingolo. 196Studi recenti hanno dimostrato che i pazienti depressi trattati per un tempo insufficiente presentano un rischio di recidiva maggiore, rispetto ai pazienti che sono stati trattati per almeno due anni e che nei pazienti con maggiore probabilità di recidiva il volume dell’ippocampo risultava significativamente ridotto rispetto all’inizio del trattamento. Ciò suggerisce la necessità di intervenire in tempi brevi nei pazienti depressi con un dosaggio adeguato che si protrae anche dopo la remissione della sintomatologia acuta. L’azione farmacologica degli antidepressivi necessita di un tempo prolungato in quanto i tempi indispensabili per ripristinare il trofismo neuronale e per garantire una risposta neuronale funzionale sono più lunghi rispetto alla riduzione della sintomatologia. Tale evidenza suggerisce che solo i trattamenti farmacologici di lunga durata sono in grado di modificare la funzione e l’attività neuronale, infatti l’attivazione o il blocco cronico di una proteina o recettore provocata da un farmaco apporta a delle modificazioni solide e durature dell’omeostasi funzionale delle cellule.

La suddetta ipotesi correla con l’introduzione di psicofarmaci a rilascio prolungato in modo tale da consentire un lento ma persistente rilascio del principio attivo e quindi una concentrazione cerebrale e plasmatica più duratura. A tale proposito è stato condotto uno197studio in cui sono stati confrontati diversi

farmaci antidepressivi nel trattamento a lungo termine della depressione maggiore. Sono stati reclutati 50 pazienti ambulatoriali con depressione maggiore, trattati con antidepressivi di classe diversa e fase di follow-up stabilita dopo 2 anni di trattamento. E’ stato osservato che circa il 48,7% del campione ha presentato una ricaduta nei primi 2 anni di trattamento e che il bupropione è meno efficace nel trattamento a lungo termine della depressione maggiore

rispetto alla fluoxetina, fluvoxamina, amitriptilina e venlafaxina. Di conseguenza la fluvoxamina si è dimostrata meno efficace della citalopram,

paroxetina, sertralina, clomipramina e duloxetina. Pertanto i ricercatori hanno evidenziato che il bupropione e la fluvoxamina non sono efficaci per il trattamento a lungo termine della depressione maggiore. Ancora diverse ricerche dimostrano come gli antidepressivi sono in grado di regolare il sistema immunitario, in particolar modo la 198fluoxetina aumenta la proliferazione delle

cellule T e TH1 e la produzione di citochine. E’ stato osservato che la fluoxetina è in grado di ripristinare la proliferazione delle cellule T, dell’interleuchina 2 e dell’interferone gamma. Le molteplici ricerche condotte negli anni hanno contribuito ad evidenziare nei soggetti depressi alterazioni morfologiche e funzionali di specifiche regioni cerebrali, in particolar modo a carico della porzione prefrontale mediale che si caratterizza per alterazioni volumetriche della materia grigia, della farmacologia dei recettori, dell’attività neurofisiologica e dell’espressione genica.

197 BUOLI M., CUMERLATO MELTER C., CALDIROLI A., ALTAMURA AC, Are antidepressants

equally effective in the long-term treatment of major depressive disorder?, Hum Psychopharmacol. 2015, pp. 21-7.

198 FRICK LR., RAPANELLI M., CREMASCHI GA., GENARO AM, Fluoxetine directly counteracts

the adverse effects of chronic stress on T cell immunity by compensatory and specific mechanisms, Brain Behav Immun 2009, pp. 36-40.

A tale proposito i trattamenti farmacologici e di stimolazione cerebrale non invasiva esercitano la loro azione agendo proprio sull’aree della rete prefrontale mediale come la corteccia cingolata anteriore, la corteccia frontale ventromediale, lo striato e l’amigdala. Per ciò che riguarda il trattamento farmacologico della depressione le scoperte avvenute nella seconda metà del 900 hanno portato allo sviluppo dell’ipotesi monoaminergica, secondo la quale come già detto prima, la patologia depressiva sarebbe caratterizzata da bassi livelli cerebrali delle monoamine. Negli ultimi anni una linea di ricerca molto solida ha cercato di spiegare la depressione maggiore mediante meccanismi molecolari di neuroplasticità. Tale ipotesi è stata supportata da molteplici risultati che confermano il ruolo dello stress nella riduzione della neurogenesi ippocampale e nella riduzione della plasticità sinaptica a livello della corteccia prefrontale. Dunque altre ricerche si sono concentrate sulla proliferazione cellullare in regioni cerebrali coinvolte nei disturbi depressivi, come la corteccia prefrontale e l’amigdala, suggerendo un’influenza della reta prefrontale mediale nella riduzione della proliferazione cellulare. Gli studi condotti hanno permesso di evidenziare che la somministrazione cronica di antidepressivi determina un aumento della proliferazione cellulare a livello della corteccia prefrontale. Inoltre è stato osservato che il trattamento antidepressivo con fluoxetina riduce la morte cellulare mediante specifici meccanismi come l’espressione di fattori neurotrofici (BDNF) che implica un aumento della sopravvivenza cellulare e una riduzione dell’apoptosi cellulare. Pertanto i ricercatori suggeriscono che la somministrazione cronica di fluoxetina (SSRI) o il trattamento subcronico con un agonista 5-HT4 aumenta la proliferazione cellulare e il processo di neurogenesi ippocampale.

La 199serotonina come già noto svolge un ruolo primario nella neurogenesi ippocampale, infatti una riduzione dei neuroni serotoninergici a livello del giro dentato dell’ippocampo, della corteccia prefrontale mediale e dell’amigdala comporta una lenta proliferazione cellulare nella zona subgranulare del giro dentato. Ciò conferma che un trattamento cronico con antidepressivi correla con il processo di neurogenesi ippocampale, aumentando la proliferazione cellulare, la plasticità sinaptica e un aumento del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF). Poiché il fattore neurotrofico cerebrale sembra essere coinvolto nella neurobiologia della depressione maggiore è stato condotto uno studio, al fine di valutare la correlazione tra sintomi depressivi e livelli plasmatici di BDNF dopo un anno di trattamento con antidepressivi. A tale proposito 200sono stati

confrontati 15 soggetti con depressione maggiore non trattati

farmacologicamente e 15 soggetti sani, al momento iniziale dello studio e dopo il primo, il terzo, il sesto e il dodicesimo mese di trattamento farmacologico con antidepressivi. Al momento iniziale dello studio, i livelli plasmatici del BDNF erano significativamente più bassi nei soggetti depressi (p < .001 e p = .004) rispetto ai soggetti sani di controllo. Dopo il primo mese di trattamento i livelli sierici di BDNF non differivano nei due gruppi ma risultavano nuovamente ridotti nei mesi successivi. Ciò ha portato i ricercatori a concludere che i pazienti depressi non trattati farmacologicamente presentano una riduzione dei livelli plasmatici di BDNF rispetto ai soggetti sani e nonostante una normalizzazione di essi dopo il primo mese di trattamento nelle successive valutazioni risultavano sempre più basse rispetto ai controlli. Questo suggerisce che il livello sierico di BDNF rappresenterebbe un marcatore specifico del tratto depressivo.

199 PILAR-CUELLAR F., VIDAL R., DIAZ A et al., Neural plasticity and proliferation in the

generation of antidepressant effects: hippocampal implication, Neural Plast 2013, pp. 1-21.

200 PICCINNI A., MARAZZITI D., CATENA M., DOMENICI L et al., Plasma and serum brain-

derived neurotrophic factor (BDNF) in depressed patients during 1 year of antidepressant treatments, J Affect Disord 2008, pp. 279-83.